
Ho sempre amato i libri di Giulio Ferroni, grande storico della Letteratura italiana, la cui opera testimonia come la critica letteraria non possa essere scissa dalla “critica della società e della cultura”, come sottolinea Alfonso Berardinelli in una bella recensione, pubblicata sul Foglio, a Natura vicina e lontana. Umanesimo e ambiente dagli antichi all’intelligenza artificiale. (La Nave di Teseo). Si va dalla concezione della natura e dell’ambiente degli antichi greci, Esiodo, Saffo e Alceo, ai latini Lucrezio, Virgilio, Ovidio, alla letteratura italiana, da San Francesco a Zanzotto; ma non mancano pagine su Montaigne, Baudelaire e Eliot, oppure su Cartesio, Rousseau, Freud, Adorno e Horkeimer, Heidegger, Sartre, Camus, Gunther Anders, ecc. Il volume, di impianto ambizioso, che dà ampio spazio anche alle recenti discussioni sull’uso delle intelligenze artificiali e dei problemi etici e ambientali ad esse connessi, fra apologeti e critici dell’AI, ha il pregio da un lato della sintesi, dall’altro di una scrittura chiara, che rende partecipe il lettore. I libri di Ferroni ̶ basti l’esempio del suo penultimo volume, L’Italia di Dante, racconto fiume quanto mai coinvolgente, dei luoghi del sommo poeta rivisti e rivissuti dall’autore ̶ si rivolgono a un pubblico più ampio degli specialisti, il che è uno dei pregi dei maestri.
Da insegnante di Liceo linguistico, ho provato a mediare alcuni contenuti di Natura vicina e lontana a giovani, traendone ampio giovamento per l’attività didattica; gli esempi utili sarebbero molteplici. Per quanto riguarda Dante, al triennio, è d’obbligo far riferimento alla spazialità, alla sua concezione medievale della natura e del cosmo, richiamata nel volume (p 56); la terra è vista da Dante cosmonauta come un’«aiuola», elemento naturale, spazio minimo nell’universo che comunque «ci fa tanto feroci» in guerre continue (p. 58). Per non parlare della figura di Ulisse, del suo ardimentoso, “folle volo” verso l’ignoto per desiderio di conoscenza finito, però, in tragedia. Il senso del «limite dell’umano» discusso a partire da Dante (paragrafo p. 59) e dall’umanesimo, è a mio avviso il filo rosso del volume, che può essere attualizzato in modo proficuo per gli studenti, e non solo. Ferroni parla in senso opposto di Marinetti e del futurismo come «distruzione dell’umano», esaltazione della tecnica senza limiti, in senso quindi totalitario, che si lega con quella «delle forze più distruttive della società» (p. 189).
Come scrive Ferroni, in Dante «il rapporto con l’antico si svolg[e] verso un senso del limite, insistente registrazione della contraddittorietà di ogni esperienza e iniziativa umana». Questo senso del limite, segnato dalla stessa grandezza della natura, è anche quello del preumanista Petrarca nell’ascesa al Monte Ventoso, di cui parla la celebre epistola delle Familiares diretta a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Dell’umanesimo vero e proprio, quello del Quattrocento non va considerato solo l’aspetto quasi trionfalistico del convinto antropocentrismo, bensì anche quello dell’«insufficienza della umana “virtù”». Discorso simile per l’Orlando Furioso di Ariosto: i personaggi compiono lunghi giri, come il protagonista che insegue Angelica, in mezzo a spazi di natura amplissimi che costituiscono di per sé un limite, così come la deviazione, l’errare-errore, la dispersione, la follia dei sentimenti e giudizi umani, che l’autore ci pone di fronte. Si giunge nel Cinquecento con Aretino ad avvertire in senso apocalittico la caducità della terra stessa e dell’uomo, nel Genesi, «singolare riscrittura del primo libro della Bibbia» (p. 89). Tutto questo discorso è un richiamo ad una premessa nelle pagine introduttive del libro, che intende affrontare le Coniugazioni dell’umanesimo tra antropocentrismo e limiti dell’umano. Ferroni pone l’attenzione sull’infondatezza di accuse all’umanesimo, formulate in base alla visione del solo aspetto dell’antropocentrismo, inteso come «controllo» e «manipolazione» della natura fino alla distruzione di essa oggi planetaria, accuse smentite dal senso del «limite» che è il rovescio della medaglia di ogni vera visione umanistica.
Autore simbolo è Leonardo (p. 75), genio che vuole immergersi nella natura rispettosamente, per avvertire «lo alitare del mondo» e nel contempo controllarla per desiderio di conoscenza e di miglioramento della vita dell’uomo. Leonardo che, come Aretino, vede anche la caducità dell’agire umano e della Terra stessa, immagina la fine futura di essa, descrivendone la superficie come «riarsa cenere», un arido deserto privo ormai di ogni forma di vita. Potenti visioni dell’inconscio di geni, aggiungo, che oggi dovrebbero far riflettere noi, posti al bivio degli squilibri climatici e del riscaldamento globale.
Molto efficace il quadro delineato da Ferroni dell’antropologia naturalistica di Machiavelli, in cui all’«agire umano si sovrappone la condizione del mondo fisico e biologico», nella consapevolezza della estrema fragilità del vivere e dello stesso successo politico, anche questo un senso del limite pienamente umanistico. La politica e la medicina, per di più, sono per Machiavelli affini nella ricerca di un rimedio agli squilibri collettivi della vita sociale come dell’organismo umano.
Non potevano mancare pagine sul «naturalismo» di Giordano Bruno, a me, nolano, particolarmente caro. Ricordo con nostalgia una conferenza di Ferroni per gli studenti del Liceo dove insegno sugli eretici Bruno e Pasolini nell’anniversario del rogo del primo a Campo dei fiori. Il filosofo con la sua «divinizzazione del cosmo infinito» e l’abolizione dell’antropocentrismo: «tutto è centro, tutto è divinità», assume la stessa nostra animalità come sapienza. Ma in Bruno il senso del limite sembra superato verso un controllo della natura tramite la magia intesa come «sapienza occulta» (p. 94). Contrariamente a Bruno, Michel de Montaigne, ponendosi lontano da ogni ricerca di «assoluto», ritorna ad una più concreta «ragione del limite»; il saggista si affida al relativismo di ogni cultura, nega ogni «etnocentrismo», pone animali e uomini sullo stesso piano nella sua Apologia di Raymond Sebond, affermando che la crudeltà dell’uomo sugli animali è indicatore della «naturale propensione alla crudeltà» dell’essere umano (p. 99).
Con Rousseau, e il mito del buon selvaggio immerso nella natura, si sviluppa una critica alla società che si è allontanata da essa per «eccesso di sapere» (p. 123), come scrive lo stesso filosofo ginevrino, a conferma che l’illuminismo è un fenomeno culturale non riducibile a visioni univoche (il controllo assoluto della ragione sul reale).
Il rapporto viscerale con la natura degli antichi poeti e il concetto di «poesia ingenua», elaborato in una opera di Schiller (p. 131), si collega a Leopardi, che in una fase del suo pensiero, come scrive Ferroni, parimenti attribuisce «il male radicale e senza rimedio della civiltà […] all’eccesso della ragione, del sapere, della cultura» (p. 135) che ha allontanato l’uomo e la società dai limiti dalla natura. Nel Dialogo di Timandro e Eleandro nelle Operette morali, Leopardi scrive che «la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria nullità» (p 144). Si sviluppa da qui nel recanatese la sua «filosofia del rimedio», che nasce dalla solidarietà verso l’altro, dalla compassione in nome della comune fragilità, dalle componenti della stessa civiltà (istituzioni, scuola, progresso morale, igiene del corpo), essendo impossibile un ritorno all’antico stato di natura.
Nell’Ottocento si levano le voci di due grandi intellettuali radicali, un poeta, Baudelaire, e un filosofo, Nietzsche, che si pongono in «rapporto contradditorio con la natura». Il primo parla della «natura-tempio» nella celebre lirica Corrispondenze, ma altrove, come nel saggio Il pittore della vita moderna, negativizza la natura affermando che «il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità; ma il bene è sempre il prodotto di un’arte» (p. 159). Egli rimane comunque nei limiti dell’umanesimo mentre il secondo, Nietzsche, aspira a superarlo, inscrivendo il suo complesso pensiero nel vitalismo, ponendo l’enfasi sugli istinti e sulla «naturalità dell’umano» (p. 169), sulla conquista totale della stessa natura, idea che è avvertibile anche in d’Annunzio suo accanito lettore. In Pascoli il rapporto con essa si esprime in un «esitante inseguimento di risonanze segrete» (180).
Altra coppia antitetica è quella rappresentata da Pirandello e da Marinetti, capo del futurismo. Nel primo, nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915), il ronzio della civiltà e delle macchine, il «guizzare e scomparire delle immagini» (p. 187) del nascente cinema, conduce il personaggio principale all’alienazione e alla perdita del corpo. Con Marinetti e il futurismo si assiste, invece, alla «più rumorosa, insensata, estremistica esaltazione della distruzione della natura» e dell’umanesimo, all’esaltazione della guerra definita «sola igiene del mondo». Ne prenderà le distanze Ungaretti nell’Allegria, rappresentando la guerra come emblema della nudità e fragilità della condizione umana, mentre il poeta Eliot nella Terra desolata (1922), per quanto non faccia espliciti riferimenti alla prima guerra mondiale, ci dà un esempio emblematico della percezione dell’inferno in terra quale essa era stata. Vi sono riferimenti nel celebre poema a personaggi di ex soldati tra la folla dantesca dei morti sul London Bridge, come Stetson, che partecipò alla mitica battaglia di Milazzo del 260 a.C (ma qualche critico, aggiungo, ha visto nell’episodio il tributo del poeta all’amico Jean Verdenal, morto proprio nella battaglia dei Dardanelli, nel 1914-1915).
Passando al romanzo, tralasciando i riferimenti diretti alla prima guerra mondiale in La montagna magica di Mann, a quelli indiretti nei romanzi di Woolf e Musil, arriviamo a Proust che nell’ultima parte della Recherche lasciata incompiuta, Le temps retrouvé, fa riferimento alla battaglia di Verdun (1916), la più sanguinosa della grande guerra; mentre Svevo nel finale della Coscienza di Zeno trasfigura qualche anno dopo la violenza della guerra e della distruzione della natura («La vita attuale è inquinata alle radici») in una apocalisse provocata dall’uso di «un esplosivo incomparabile» (diversi l’hanno letta come una profezia della bomba atomica).
Nel capitolo dieci, intitolato «Dopo un’altra distruzione» (p. 213), quella della seconda guerra mondiale, si fa riferimento di nuovo alla poesia e al carattere «“apocalittico”», anche in termini ambientali, di Piccolo testamento o del Trionfo della spazzatura di Montale. In seguito, Pasolini e Zanzotto ̶ al quale e a Giovanni Giudici, Ferroni aveva dedicato le belle pagine di un precedente volume, Gli ultimi poeti, pubblicato da Il Saggiatore ̶ incarnano l’ansia dell’intellettuale italiano di fronte ai mutamenti ambientali del miracolo economico. Al Pasolini corsaro, al poeta, si affianca il cineasta che si impegna anche per la salvaguardia ambientale di luoghi specifici, come per la capitale dello Yemen, ancora oggi teatro di guerra, in Le mura di Sana’a (1971). Il romanziere denuncia, nell’incompiuto Petrolio (1972-1975), «l’azione devastatrice delle multinazionali» (p. 250) che come gli Argonauti, vanno verso l’Oriente alla ricerca del nuovo vello d’oro, il petrolio.
Zanzotto, per Ferroni, «è stato poeta dei luoghi e dell’impossibile salvezza di un mondo insidiato dal profitto, dall’aggressività, dall’irresponsabilità, dall’indifferenza, dai miti mediatici che si succedono in incontrollabile ed effimera velocità» (p. 277). In mezzo a questi medaglioni di poeti le pagine su Calvino, Volponi e Ortese. Mi hanno commosso in particolare la pagine su quest’ultima, che riportano citazioni da due opere, Corpo celeste, e da Le piccole persone. In difesa degli animali. La scrittrice mette in risalto, da un lato, la folle illusione “antropocentrica” del più «miope» e del «più grande» degli esseri terrestri di poter «controllare terremoti, maree, inondazioni epidemie», o, peggio ancora, quella di potersi salvare a condizione di avere «potere sugli altri»; dall’altro il suo senso di profonda unione con la natura, di fraternità totale con tutti le forme e gli essere viventi, che è la sola forma di umanesimo possibile.
Immagine di copertina: Il Paesaggio con fiume di Leonardo da Vinci, datato 1473 e conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe presso la Galleria degli Uffizi a Firenze
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