Non è compito agevole tentare di raccontare in versi l’insorgere di una malattia senza cedere allo sconforto, alla rabbia, alla paura, o senza scivolare in una tetra e distorta voluptas dolendi. A tale pericolo si è sottratto Mauro Sambi nel recente volume Cura (Ronzani, 2024), autobiografico resoconto di una condizione di salute inaspettatamente mutata, e ciò grazie anche all’assunzione di una scelta formale – il sonetto – che gli permette di riferire in modo lucido e controllato della propria vicissitudine e al tempo stesso di prenderne in qualche misura le distanze. Del resto, è proprio quella del sonetto la forma prevalente, benché non esclusiva, delle precedenti raccolte, riunite nel 2021 presso il medesimo editore sotto il titolo di Quel tanto nella voce.
Ora però il sonetto non è più soltanto un’opzione stilistica, ma diviene come lo strumento, il congegno minuscolo che può, nei termini ovviamente illusori della poesia, ripristinare l’equilibrio in un sistema compromesso, in un corpo d’improvviso oltraggiato: «Salva, piccolo scrigno, / soltanto qualche traccia / del sapore ferrigno / del male che minaccia» (p. 31). E racchiude quello scrigno le più differenti combinazioni, i più mutevoli dosaggi di un tetrafarmaco composto di quattordici versi: un campionario quanto mai variegato di sonetti petrarcheschi o elisabettiani, di tipologia canonica oppure minori o minimi, o di misura persino eccedente, con schemi molteplici talora deliberatamente irregolari o affatto inediti, con rime tronche, sdrucciole, ipermetre, imperfette, equivoche, identiche, in tmesi, per l’occhio, o semplici assonanze; percepiti tutti come fugaci rimedi, medicamenti provvisori.
In limine viene riprodotto per intero il lemma cura, così come desunto dal dizionario Treccani, nell’intento di illustrare le varie accezioni della parola e di sottolinearne i molteplici significati, talvolta anche ambigui e contraddittori. L’operazione appare solo in apparenza scontata, perché vuole in realtà rivestire una funzione sdrammatizzante, quasi beffarda e irridente, intrisa di paradossale ironia. Un sottofondo amaro questo, che sembra snodarsi lungo l’intero percorso delle poesie.
L’autore stesso ritiene comunque necessario chiarire in nota che «il nucleo iniziale del libro è la sezione 2», prima in ordine cronologico e centrale nella struttura, senza mezzi termini intitolata Parkinson, designato poi semplicemente con la P iniziale, schivando ogni convenzionale eufemismo letterario. Si tratta di una corona di sonetti minori in versi settenari, qualificata dal diminutivo ipersonettino, definizione ovviamente riferibile a Zanzotto, ma non priva di una sfumatura di parodia. C’è qui la cruda denuncia della malattia, dipinta come un verme che «trafora carne e mente / eloquio ed equilibrio» (p. 34); le penose rassicurazioni degli altri che azzardano un «anch’io» vanamente consolatorio (p. 35); l’apprensione per i propri congiunti («Che cosa accadrà se / un giorno non saprò / più proteggervi», p. 38); il pudore e il timore del fraintendimento («Sonetti col pretesto / che soffre? Ma stia zitto!», p. 39); il fulcro emozionale della famiglia («l’indistrutta fortezza / dove trovo rifugio», p. 42); l’interrogativo del tempo a venire («Qualunque sia il futuro / che avrà il nostro presente / inciso nel passato», p. 44); e ancora l’aderire sommesso «alla vita, fiammella / che tremola sull’argine / tra il nulla e il male» (p. 46), sapendo che il niente di ogni effimero istante, di ogni sussurro, di ogni labile gesto, è «quel niente // tutto il meglio che abbiamo» (p. 47).
Il titolo della sezione d’esordio, Chi non si ricorda del bene, deriva da una frase di Goethe che significativamente si completa poi nel sintagma verbale «non spera». Sono dodici dediche introdotte da un sonetto minimo in cui si dà conto della natura e del tono di una lingua poetica che non può che procedere per «parole scarne» (p. 15), dalla sonorità aspra, tra loro legate da una sintassi spesso collidente con il metro, tanto da apparire a tratti tortuosa, quasi inceppata. Sono dodici lasciti teneri e struggenti trasmessi ai figli e all’amata moglie, ma anche alla madre, ad amici, amiche, allievi – ovunque pervasi di echi, di ricordi, di frammenti di paesaggio, espressioni di una resa senza rassegnazione, ma aperti invece a un anelito di speranza: «È questo che vi schiera qui, miei cari: è la sete / di memoria a evocarvi, a invocare voi che siete / la radice del mio sperare» (p. 21). Con una progressione scalare, partendo da un verso di diciotto sillabe nel primo sonetto rivolto appunto al figlio diciottenne, Sambi avanza a ritroso sottraendo via via una sillaba ai versi dei sonetti successivi, fino all’ultimo della serie, composto di settenari. È come una sorta di conto alla rovescia che va ben oltre il mero virtuosismo metrico, ma si rivela come la rappresentazione del decremento, della cancellazione di sé, perché, egli afferma, «La verità / non è nella forza del numero // mai, lo sai da un pezzo. Piuttosto / nella sua debolezza, nella / soppressione della paura // mediante l’esatta misura / nel sottrarre» (p. 26).
Ancora un omaggio a Goethe, o meglio una sorta di convergenza se non proprio di ‘affinità’, si ritrova in margine alla terza sezione Cosa muove i sonetti?, imperniata in buona parte sul tema del doppio, il cui emblema è infatti la foglia bilobata del ginkgo, due volte stampata sul fronte-retro di una pagina; foglia assunta quale raffigurazione dell’unità degli opposti in una poesia del Divano occidentale-orientale qui tradotta: «nei miei canti hai mai sentito / che io sono uno e doppio?» (p. 53). Ma tale consapevolezza viene innanzitutto vissuta come un dato esistenziale, perché Mauro Sambi poeta è ad un tempo professore universitario di chimica, indotto quindi suo malgrado nell’impresa, oggi quanto mai ardua, di ripristinare l’antica perduta armonia tra scienza e letteratura, tentando di giustificare o magari di svelare «l’analogia / che intercorre tra chimica e poesia» (p. 55), anche qualora ciò offra lo spunto per una considerazione autoironica, come quando quel suo «sesto / senso allenato al numero e alla forma» (p. 58) gli suggerisce un qualche tipo di relazione tra i quattordici atomi della molecola del butano e la struttura stessa del sonetto.
di Mauro Sambi,
Ronzani Editore, 2024
Prezzo: euro 15,00
C’è poi un’ulteriore circostanza biografica: Mauro Sambi è istriano di Pola, nato quindi nell’ex-Jugoslavia e divenuto cittadino italiano soltanto in età adulta. Pur senza menzionare direttamente gli effetti di una vicenda storica drammatica e per certi aspetti irrisolta, emerge a tratti nel libro il sentore di un esilio permanente, di uno spaesamento, e il peso della diffidenza altrui perché, egli afferma, «sempre noi / anfibi […] saremo sospettati di slealtà // dai guardiani dell’Uno» (p. 60). E riaffiora doloroso il ricordo di quando, bambino, veniva umiliato e preso a sassate dai ragazzetti croati, finché non raggiungeva la sua casa, il rifugio, la salvezza, e in essa il linimento della lingua madre. «Tu capisci. Questa lingua / oggi è cura alle ferite dei sassi» (p. 65): una lingua vera che chiede «alla poesia, solo il vero sentire» (p. 66) – true feeling nel verso mutuato da Derek Walcott. Chiude la serie un sonetto recuperato da una raccolta anteriore, sorta di elogio dell’amicizia ambientato nella cittadina di Stratford-upon-Avon, che fa come da ponte verso l’ultima parte del libro, una silloge di traduzioni da Shakespeare, o piuttosto di vere e proprie identificazioni con il «Poeta» (così, in maiuscolo, a p. 67). È il suo modello, dunque, che muove i sonetti, è lui l’autentico ispiratore della raccolta, l’auctor, il vero Onlie Begetter.
Quasi tutti i Sedici sonetti sono già apparsi in precedenza su rivista o in altre pubblicazioni, selezionati, come lungo un sentiero segnato, in base alla coincidenza tematica con l’esperienza personale. Anche in questo caso, volta per volta, Sambi si avvale di un doppio criterio nella procedura di traduzione: il pentametro giambico viene alternativamente ‘concentrato’ in un endecasillabo, oppure adeguato nel senso della lunghezza a un verso di quattordici sillabe. Non si può allora non notare come una simile insistita propensione numerologica non si debba anche ricondurre al fondamento stesso della forma e del senso della poesia: dal prodotto di 11 per 14 si ottiene 154, che è il numero complessivo dei sonetti di Shakespeare; il rapporto tra 11 e 14 – che sono poi le ‘dimensioni’ del sonetto – calcolato e indagato dai matematici fin dall’antichità, rinvia con notevole approssimazione a una frazione del pi greco – numero che simboleggia, qui e non solo, il mistero e l’inadeguatezza della parola dinanzi agli eventi indecifrabili della vita, cosicché il poeta incarna davvero il dantesco «geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio». Il sonetto conclusivo (pp. 100-101), sinora inedito, è l’estrema commossa testimonianza di una resistenza affidata alla forza dell’amore che il tempo non scalfisce, che è «la stella di ogni nave che va errando» (It is the star to every wandering bark), e che non cede alle avversità e ai mutamenti, «ma regge fino al limite fatale» (But bears it out even to the edge of doom).
Il libro termina con l’immagine, voglio credere non soltanto letteraria, di una barca al momento di prendere il mare, quale appare nell’ultimo isolato sonetto di senari (p. 105) che è anche l’ultimo fievole dileguare della voce del poeta, come un diminuendo musicale, mentre, contro l’offesa del destino, l’uno diventa due, l’io diventa un «noi, spalla / a spalla nel varco» mentre, sciolte le vele, ancora «muoviamo lontano / ostili alla fine».
Immagine di copertina: foto di Jack Cohen su Unsplash
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