Sono state rivelate le nomination ai prossimi Academy awards, dopo aver rimandato per ben due volte l’annuncio a causa degli incendi che stanno colpendo Los Angeles. Sembra chiaro come neppure le catastrofi climatiche possano impedire a Hollywood di mettere in scena la stagione dei premi, il momento più glamour e atteso dell’anno, in cui le star di tutto il mondo si ritrovano per darsi battaglia e festeggiare tutti assieme. Un periodo di convivialità per la comunità di super ricchi losangelini, tra champagne e gossip, e celebrazione di cinema e amicizie (forse a volte non così veritiere) che attirano gli occhi del mondo pop sulla città degli angeli per circa un paio di mesi. Per usare termini un po’ forti si potrebbe definire un circo, che deve andare in onda a qualunque costo.
Stephen King ha dichiarato “Quest’anno non voterò agli Oscar. Secondo il mio modesto parere, dovrebbero annullarli. Niente sfarzo con Los Angeles in fiamme”, seguito poi da altri colleghi che, come lui, hanno deciso di lanciare la proposta di sospendere le celebrazioni in rispetto delle vittime degli incendi. Manco a dirlo la risposta del CEO dell’Academy non si è fatta attendere “La cerimonia di quest’anno includerà momenti speciali in cui si riconoscerà chi ha combattuto così coraggiosamente contro gli incendi. Riteniamo di dover andare avanti per sostenere la nostra comunità cinematografica e utilizzare la nostra piattaforma globale per richiamare l’attenzione su questi momenti critici”.
Lo spettacolo deve continuare, dunque. Prima con un concerto, intitolato Fire Aid, in programma per il 30 gennaio, e poi con le varie cerimonie in programma a febbraio. Da queste premesse scottanti, la stagione prosegue, pronta a regalarci red carpet scintillanti e vincitori gloriosi.
L’America forte contro i deboli
Il nostro articolo pubblicato a poche ore dalla consegna dei Golden Globes, portava il titolo “America vs Europa” e terminava con un dubbio: riusciranno i tanti film europei a conquistare l’Academy o si preferirà lasciare spazio alle produzioni americane? Ai globi d’oro i titoli provenienti dal vecchio continente avevano dominato sia nelle candidature sia nelle vittorie, ma va ricordato come la Golden Globe Foundation sia l’associazione della stampa estera, mentre l’Academy è, ancora oggi, composta principalmente da lavoratori del settore americani. La risposta è arrivata il 23 gennaio scorso.
Pare che questa edizione sarà ricca di risentimento da parte del pubblico, film odiati ricevono decine di candidature, quando opere apprezzate non sono neanche prese in considerazione. La verità è che, come previsto, ad avere la peggio sono proprio le piccole produzioni europee, ma anche statunitensi, che puntavano a un paio di riconoscimenti specifici. Come esempi potremmo portare Nicole Kidman, Angelina Jolie e Pamela Anderson, tutte protagoniste di opere d’autore, che negli ultimi mesi si sono messe in gioco per tentare di accaparrasi un posto nella categoria Miglior attrice, al fianco delle frontrunner sostenute in modo massiccio dalle major. È forse una coincidenza che sia il film della Kidman, sia quello della Jolie, siano diretti da autori non americani? Nel caso della Anderson, come anche in quello di Sing sing, si tratta sì di film a stelle e strisce ma non di grandi produzioni, anzi. La grandissima interpretazione di Clarence Maclin, interprete che grazie al suo personaggio nell’opera di Greg Kwedar ripercorre la sua storia personale di attore e galeotto, resta fuori dalla cinquina in favore di un Edward Norton, sempre bravo, ma decisamente meno emozionante e significativo.
Lo stesso ragionamento può essere applicato ancora meglio nella sezione Miglior regia. Su cinque nomi due sono francesi e tre sono americani, quando l’intera cinquina poteva essere composta completamente da nomi stranieri. In favore di James Mangold, restano fuori Denis Villeneuve (canadese) e Edward Berger (tedesco e già premio Oscar con il lavoro precedente, infatti sembrava strano che potesse prendere un’altra candidatura così presto).
I film che ne escono più colpiti sono proprio Dune: parte 2 e Conclave. Il primo capitolo del dittico ambientato su Arrakis aveva ricevuto ben undici candidature e sei statuette, contro le misere cinque nomination del suo seguito. Villeneuve sembra essere stato vittima dell’uscita cinematografica troppo distante dalla stagione dei premi (è uscito a fine febbraio 2024), che però gli ha consentito di guadagnare molto più del precedente. Sembra dunque che nei piani di Warner, Dune fosse più importante in chiave incassi che Oscar. Sappiamo come ogni anno ci dev’essere il blockbuster pigliatutto nelle categorie tecniche, ed è probabile che la casa abbia puntato tutto su Gladiatore II, senza successo perché a vestire tale ruolo c’è Wicked, produzione Universal. Quindi il film di Villeneuve si vede sottratta, tra le altre, la candidatura a Miglior regia e, soprattutto, a Miglior montaggio.
Stessa sorte toccata a Conclave. Berger manca nella categoria regia, ma il vero scandalo arriva sul piano della fotografia. Chi ha visto il film sa che la tensione, e quindi la storia stessa, è magistralmente costruita con una sceneggiatura attenta, una scenografia e dei costumi puntuali, e una fotografia claustrofobica. Ogni scena ci rinchiude nella prigione dorata di San Pietro, ogni inquadratura è in quadro opprimente ma perfetto. Gli attori, le cui interpretazioni per fortuna sono state notate, si muovono come eleganti fiere in lotta per il potere.
A questa tendenza pro prodotti majors ci sono delle eccezioni importanti. Lo stesso Emilia Pérez riceve il record di candidature per un film ufficialmente sottoposto all’accademia dallo stato rappresentante, la Francia in questo caso. Faremmo meglio a ricordare, però, che dietro alla straordinaria campagna Oscar, capace di andare contro anche al pubblico, c’è Netflix, distributore americano. Il film è sulla bocca di tutti, il popolo americano (Sud America compreso) ha sviluppato un certo odio intrinseco per la pellicola, qualcosa che non si vedeva da molto, specie di questa portata. È probabile che il film di Audiard sia decisamente troppo europeo per il l’audience statunitense, che invece preferisce i musical classici e decisamente più semplici alla Wicked.
Più amati sono, invece, l’altro film con genitore francese, The substance di Coralie Fargeat, e la perla brasiliana, I’m still here. Entrambi centrano gli obiettivi, con anche l’inaspettata nomination a Miglior film per il film di Walter Salles, pronto ad impensierire Emilia Pérez nella categoria Miglior film straniero, e la Demi Moore di The substance in quella Miglior attrice, grazie alla straordinaria interpretazione di Fernanda Torres, seconda attrice brasiliana ad essere nominata all’Oscar dopo la madre.
Ultimo grande film europeo snobbato, in favore del più convenzionale The girl with the needle (Danimarca) è il fenomeno irlandese Kneecap. A metà tra fiction e documentario l’opera di Rich Peppiatt è cresciuta sempre più forte negli ultimi mesi, raggiungendo sei nominations di Bafta (gli Oscar inglesi), niente male per un film di propaganda anti-britannica. Tuttavia il linguaggio politicamente scorretto è ancora “un po’ too much” per i puritani statunitensi. Kneecap, infatti avrebbe potuto correre sia per Miglior film straniero, che per Miglior canzone. Immaginate la performance di tre rapper irlandesi che intonano i loro inni d’indipendenza, in gaelico, sul palco del Dolby theatre?
Bob Dylan, icona americana
Film che più di ogni altro ha guadagnato candidature, rispetto ai Golden Globes, è A complete unknown. Se davvero l’Academy ha voluto dare maggior spazio alle produzioni americane, quella che ne ha più giovato è questa. Fino a pochi decenni fa l’accademia era composta quasi esclusivamente da ex vincitori che, di conseguenza, erano, nella maggioranza, attori americani bianchi. Col passare degli anni, lo scoppio di svariate polemiche (ricordiamo #oscarssowhite) e casi come la vittoria di Bong Joon-Ho nel 2020 hanno portato l’accademia ad allargare le maglie. I nuovi membri provengono da tutto il mondo e non devono per forza essere premi Oscar, ma semplicemente ritenuti dal Consiglio di amministrazione in grado di adempiere il ruolo di giurato. Questo ha permesso a casi come quello di I’m still here o Emilia Pérez di fioccare, ma l’orgoglio a stelle e strisce è duro a morire. L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences resta un’istituzione americana, che ha tutto l’interesse a premiare produzioni proprie. La vittoria di una statuetta è, per le case di produzione, sinonimo di prestigio e guadagno, che permettono all’industria di stare a galla.
Ecco, dunque, che in un anno dominato dal cinema d’oltre oceano, alcuni titoli hollywoodiani sembrano essere stati premiati oltre misura rispetto all’effettivo valore del film. Wicked è un film nella media, tratto da un musical di successo, che fa il suo dovere e che merita i riconoscimenti nelle categorie tecniche, decisamente meno quelli per le attrici. Ma, come abbiamo detto, un blockbuster da record c’è ogni anno.
Altra storia è quella del film su Dylan. Proprio James Mangold nel 2005 aveva rilanciato il genere biopic, sulla vita di cantanti famosi, con Walk the line. Dieci anni e un numero infinito di opere simili dopo, il regista torna agli Oscar con A complete unknown. Non che il film non sia di pregio, ma, rispetto ad alcuni degli esclusi, risulta povero emotivamente e caratterialmente. Insomma è il classico adattamento cinematografico hollywoodiano tratto da una biografia autorizzata di un cantante, realizzato con una regia di mestiere e degli attori straordinari, che però dona ben poco alla settima arte. Nello specifico tutto il cast è centrato, Chalamet si dimostra un grandissimo interprete, capace di passare da ruoli romantici, a eroi folli, a Bob Dylan, mantenendo sempre credibilità e tocco personale. Mangold è un bravo regista di blockbuster a basso budget, che ha la sua forza nell’accuratezza storica. Grandissimo il lavoro svolto dai costumisti, giustamente candidati, per riportare in vita l’America degli anni Sessanta.
La sfortuna del film è che Mangold non è il primo a portare al cinema la storia del cantautore premio Nobel, e chi lo ha fatto prima di lui ha usato uno stile opposto. Io non sono qui di Todd Hayes, metteva in scena diverse versioni di Dylan e personificava le influenze che ne hanno segnato lo stile musicale. Un modo di fare un’opera biografica del tutto inaspettato, forse talmente rivoluzionario da non poter più essere ripetuto. Alla luce di un precedente così carismatico e, oggi, iconico, il film di Mangold sembra un compitino, fatto abbastanza bene da poter giustificare ben otto candidature agli Oscar. Eccessive, ma che permettono alle storie made in USA di prendere terreno sugli autori europei.
Lunga vita alle fiabe
Se I’m still here tiene alto il nome del cinema politico, potremmo dire che tutti gli altri candidati a Miglior film applicano, in modo più o meno spinto il linguaggio delle fiabe.
Se Wicked e Dune: parte 2 lo sono per definizione, in quanto fanatsy/sci-fi, anche titoli come Emilia Pérez e Anora ne ricalcano i miti del genere. Il primo è un’opera, non c’è nulla di reale, è un mondo fantastico in cui i personaggi si muovono, pensano e agiscono cantando. I costumi di Anthony Vaccarello ne sono l’emblema, vestiti made Saint Laurent che calzano a pennello i corpi delle tre protagoniste, come scarpette di Cenerentola. La scenografia e la fotografia non sono da meno, tutto è sui toni del rosa e del nero, passando per il fucsia e l’arancione, i colori sono saturi, si gioca con il focus e il movimento degli interpreti. La differenza è che Emilia Pérez tratta i temi classici delle storie in modo più profondo (troppo complicato per lo spettatore medio statunitense, apparentemente), non scontato, con una dose di violenza, quasi mai manifesta, che rende il film una fiaba matura e adulta.
Anora, e in generale Sean Backer, è l’anti favola. Una fanciulla incontra il suo pigmaglione, ma invece del “furono felici e contenti”, la realtà bussa alla porta. Una realtà di bordelli e prostituzione, raccontati come solo Backer sa fare, ma anche di ricchezza e povertà. Chi ha i soldi può vivere come in un libro per bambini, chi deve lavorare per sopravvivere deve fare i conti con la vita vera. Quando i due contesti si scontrano, quello dorato finisce per usare quello reale come divertisment, ma, con un po’ di fortuna e coincidenze, i poveracci riusciranno a portarsi a casa un piccolo pezzo di quel mondo, che a loro può bastare a sperare in una vita migliore.
Più o meno lo stesso discorso si può fare per The Brutalist. Corbet dirige un dramma che sembra tratto da fatti realmente accaduti, ma che in realtà lui stesso inventa, assieme alla moglie che la vita dell’immigrato europeo negli Stati Uniti la vive tutti i giorni. L’epopea di un uomo, da cui viene tagliata la parte del viaggio fisico verso il Nuovo mondo, e che quindi fa del suo centro quello simbolico della scalata sociale, della ricerca di un protettore che gli possa permettere di continuare ad esprimersi in quanto artista e di vivere come essere umano.
A complete Unknown rappresenta, invece, la fiaba reale. La vita di un’icona messa in film, romanzata per poter intrattenere e trasformarsi in un racconto semplificato di fatti che hanno cambiato la storia della musica americana e mondiale.
Neanche Conclave, Nickel boys e The substance sembrano sfuggire alla matrice letteraria, i primi due poiché direttamente tratti da celebri romanzi, non estranei al coinvolgimento politico. Il terzo perchè primo vero e proprio rappresentante del genere horror (anche se di paura ce n’è ben poca, sarebbe più giusto usare il termine gore) agli Oscar da molto tempo.
Ma Guadagnino?
Se la Francia torna protagonista agli Oscar per il secondo anno consecutivo e il Brasile festeggia delle nomination storiche, l’Italia è, tra tutti, il paese che più ne esce con le ossa rotte. Alla vigilia c’erano grandi speranze in una grossa delegazione italiana alla notte degli Academy awards, poi però non tramutate in realtà.
Unica candidatura arrivata ad artisti del nostro paese è quella di Isabella Rossellini, sempre più una specie di nonna del cinema italiano nel mondo, che concorre per la sua prima statuetta all’età di settantadue anni. Rossellini interpreta un piccolo ruolo chiave (il suo screen time è appena di dieci minuti) in Conclave di Berger. Una suora, come il suo primo lavoro al cinema, al fianco della madre Ingrid Bergman. Un personaggio carismatico, l’unica donna in un mondo di uomini, una specie di papa delle suore, che non ha paura di confrontarsi e dire quello che pensa, anche se davanti a lei ci sono le maggiori figure ecclesiastiche del vaticano.
Candidatura sperata era quella per Massimo Cantini Parrini, per il suo lavoro in Maria di Pablo Larraín. Sarebbe stata la terza nomination per Cantini Parrini, che sempre di più, progetto dopo progetto, si dimostra il più grande costumista della sua generazione e diretto erede di Milena Canonero (che di statuette ne ha vinte quattro). È, ad oggi, il più famoso esponente della grande tradizione di maestranze italiane, che tutto il mondo ci invidia e ricerca.
La delusione più grossa arriva dall’esclusione di Vermiglio di Maura Delpero, dalla cinquina di Miglior film straniero. Un brutto colpo che arriva a causa, in primis della grande concorrenza, ma anche dal poco interesse che lo stato italiano sembra dare agli Oscar. Già l’anno scorso Matteo Garrone, candidato con Io, Capitano, lamentava di essere una formica circondata da giganti. Ad ogni statuetta persa il paese piange in comunione, quando la realtà dei fatti è che lo stato italiano ha eliminato il fondo speciale per la campagna Oscar. In questo modo, se non supportati da grandi distributori statunitensi, i film italiani si trovano da soli, in un ambiente in cui il denaro è tutto. Vermiglio è già di per se un’opera d’autore che poco si sposa con le dinamiche mainstream della maggior parte dei titoli nominati, se viene abbandonato a se stesso la prospettiva di vittoria diventa un miraggio.
Altro autore italiano snobbato dall’accademia è Luca Guadagnino. Il regista ha firmato ben due pellicole nello scorso 2024, il viralissimo Challengers e lo sperimentale Queer (entrambi con tematiche LGBT+ trattate in modo del tutto non convenzionale, a differenza di altri candidati). Se il primo sembrava avere già in tasca la statuetta, a seguito della vittoria ai Golden Globes, nella categoria Miglior colonna sonora, realizzata da Trent Reznor e Atticus Ross. Il secondo faceva affidamento sulla magistrale interpretazione del fu 007, Daniel Craig. Nonostante le proiezioni speciali, i successi al botteghino, le grandi stelle coinvolte e il mondo dell’internet a dare man forte, entrambi i film hanno registrato zero candidature. Le polemiche non hanno tardato ad arrivare, soprattutto nel caso della colonna sonora originale di Challengers, di gran lunga la più chiacchierata e apprezzata a livello globale, nel corso dell’anno. Ross e Reznor si vedono negare un onore più che meritato in favore di un inspiegabile candidato Wicked. Ricordiamo che il film di Chu usa le canzoni del musical (che infatti non sono candidabili a Miglior canzone), mentre agli Oscar si vince con le musiche originali. Quali sono le musiche originali di Wicked? È un mistero tutt’ora irrisolto.
Almeno ci sono indie e festival
Unico punto positivo arriva se si guarda la spartizione delle nomination dal punto di vista della case di produzione. Abbiamo parlato di come sia sempre più difficile correre e vincere quando si è parte di una realtà indipendente. La stagione dei premi è una gara vera e propria, in cui per vincere le case investono milioni di dollari. È chiaro che la disponibilità economica delle major le pone in grande vantaggio rispetto a chi deve compiere grossi sacrifici anche solo per permettersi di sottoporre uno o due film all’accademia. Tuttavia le cose sembrano cambiare.
All’inizio degli anni Novanta, ma soprattutto Duemila, abbiamo vissuto alla nascita delle cosiddette mini majors, vale a dire piccole case indipendenti trasformate, grazie ad anni di duro lavoro, in colossi in miniatura, capaci di exploit clamorosi anche ai premi, come il caso Shakespeare in love di Miramax, supportati da Universal. La vita e il successo di queste realtà, finisce quando le grandi case, ripresesi del tutto dalla crisi cinematografica degli anni Sessanta, si possono permettere di comprare le varie New Line e, appunto, Miramax, ma anche Pixar e Dreamworks. Seguono anni duri per i produttori indipendenti, ma oggi, grazie al successo di tanti film d’autore, di cui le opere dello stesso Sean Becker sono esponenti importanti, stiamo vivendo in un nuovo periodo d’oro del cinema “off hollywood” americano.
Nel post di Variety riportato di seguito si può notare come tra i primi otto studio con maggiori candidature, ben quattro siano indie (questo se consideriamo Focus come autonoma da Universal, attenzione nella realtà non lo è), una casa è la sezione d’autore di una major, e un’altra è solo distributore e non produttore del film da cui dipendono la maggior parte delle candidature.
Quest’ultimo è Netflix, che è riuscito ad ottenere ben tredici nomination da Emilia Pérez, film in realtà prodotto in Francia con soldi francesi. Searchlight, ciò che rimane di 20th century fox dopo l’acquisizione Disney, mantiene il nome e il marchio, all’interno della politica messa in atto dalla casa di topolino di dividersi in mille brand diversi, ognuno con target e obiettivi specifici.
A24, forte di The Brutalist, Focus, con Conclave e le candidature tecniche di Nosferatu, Neon, con Anora, e Mubi, distributore di The substance, sono pronte a dare battaglia ai più grossi competitor. Questo dimostra che i soldi svolgono un ruolo centrale, ma in alcuni casi, con pubblicità mirata e l’aiuto dei festival si possono raggiungere risultati importanti.
Sì perchè, ancora una volta, ben sette dei dieci candidati a Miglior film sono stati presentati in concorso nei vari festival internazionali, e il numero sale se si prendono in considerazione anche altre pellicole nominate solo in categorie minori. Soprattutto per i più piccoli, con meno soldi da investire nelle campagne, il passaparola che si crea ai festival è il modo migliore per mettere in moto una macchina pubblicitaria del tutto gratis, ma altrettanto di successo. La cosa più interessante è che l’operazione funziona anche per film che non vincono nulla nelle manifestazioni, come I’m still here che a Venezia ricevette un misero premio Osella alla sceneggiatura.
Quest’anno, come non mai, la lotta sembra essere tra Cannes (Anora, Emilia Pérez, The substance) e Venezia (The Brutalist, I’m still here), sempre alle prese con la loro rivalità senza esclusione di colpi, che invece di mietere vittime dà nuova linfa all’industria mondiale.
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