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Genio e sregolatezza sono un binomio classico che ha annullato nel tempo ogni presumibile paradosso. Ma nel caso di Ligabue la regolatezza scivola senza ombra di dubbio nella pura follia. Ciò che stupisce è che proprio dalla follia possa emergere un’arte pura, istintiva, capace di inserirsi naturalmente nella corrente pittorica del tempo, e senza che l’artista ne avesse contezza. Per meglio comprenderne le opere è utile tracciare la sua biografia. Antonio Ligabue ebbe vita travagliata: nato nel 1899 a Zurigo da una donna veneta, fu affidato a una famiglia locale. Gozzo e rachitismo lasceranno il segno sul suo fisico malato. Quando la madre sposa Bonfiglio Laccabue, un emigrato da Gualtieri, questi se ne assume la paternità. A scuola (di disabili) Antonio si distingue per cattiva condotta e abilità nel disegno; viene espulso e va a lavorare nei campi. Poi finisce in ospedale psichiatrico, ma nel 1919 viene espulso anche dalla Svizzera. Arriva a Gualtieri da dove tenta di fuggire. La sua odissea diventa profondamente dolorosa: entra ed esce dai manicomi, vive facendo il contadino e grazie alla carità dei compaesani, che lo chiamano ‘Toni al matt’. Nel frattempo continua a dipingere e a scolpire, e cambia il cognome in Ligabue perché odia il patrigno credendolo l’assassino di sua madre. Toni cerca la solitudine sulle rive del Po, dove si rifugia per stare in contatto con la natura e gli animali. Dipinge nello sgabuzzino di una stazione di servizio utilizzando, per mancanza di denaro, tavole di faesite, materiale scadente fatto di fibre di legno, facilmente reperibile nelle fabbriche di Gualtieri, e fango del Po per le sculture. Si accorgono di lui e lo aiutano gli artisti Marino Mazzacurati, Andrea Mozzali e l’amico Augusto Agosta Tota, che gli fa vendere il primo quadro. Il successo arriva nel 1961 con una mostra alla galleria ‘La barcaccia’ di Roma, ma l’anno dopo Ligabue viene colpito da una paresi. Nel 1965 muore. A 60 anni di distanza per la prima volta a Bologna, a Palazzo Pallavicini, è stata allestita una mostra delle opere di Ligabue (ne ha lasciate poco più di mille), realizzata da Chiara Compagnoli, Deborah Petroni e Rubens Fogacci con la direzione artistica di ‘WeAreBeside’: in 7 sale sono esposti circa 80 dipinti, 12 autoritratti, più disegni, incisioni e sculture. E’ una rassegna molto significativa, che consegna al fruitore una panoramica essenziale del vissuto artistico e dalla quale si desume soprattutto immediatezza e istintività: animali (galli, volpi, tigri, aquile, leoni), autoritratti, scene del mondo contadino. Tutto quello che nasce nella mente sconvolta di Toni, dai suoi ricordi (zoo, circhi, musei di storia naturale visitati in Svizzera), diventa inconsapevolmente allegoria dei suoi tormenti esistenziali e psichici. Questa esigenza innata di esprimere il dolore, e la necessità di affermazione della propria identità, di un riscatto sociale, conferiscono una forza insolita alle tele: i cromatismi sono violenti, mai dissociati però come poteva essere la mente del genio visionario. E c’è chi ha ravvisato in questo una sorta di parallelismo, discutibile invero, con Munch e Van Gogh, i quali si inseriscono nella corrente dell’espressionismo, la stessa a cui si può ascrivere Ligabue. L’espressionismo nacque come antitesi all’impressionismo predicando una ribellione dello spirito contro la materia, in assenza di regole e canoni; e prendeva le mosse dal fauvismo francese nel quale, in un mondo di animali, si abolivano chiaroscuro e prospettiva a favore di colori vivaci e immediati. Tutti elementi che si ritrovano in Ligabue, tenendo conto che lui mai frequentò una scuola d’arte o un’accademia. La mostra inizia con l’esposizione di una Moto Guzzi Falcone 250 rossa, quella che la famiglia Gnutti di Brescia volle regalare a Ligabue per permettergli di spostarsi più rapidamente: il pittore la usò per trasportare le sue tele nella bassa padana a mostrarle o a venderle. In seguito acquistò altre moto, tutte rosse e della stessa marca: per lui rappresentarono un altro modo di affermazione. Nei quadri esposti a Bologna troviamo momenti di vita dei campi, dove la campagna emiliana si fonde con i paesaggi svizzeri; animali della giungla o di fattoria che a volte si scontrano in lotta, una lotta fine a se’ stessa, senza vincitori né vinti, forse la stessa lotta interiore, lacerante, del pittore; autoritratti in cui il volto si mostra sempre di tre quarti, animato da uno sguardo diffidente e guardingo, ma alla ricerca di un dialogo con l’altro, l’osservatore. La mostra inaugurata il 3 ottobre scorso proseguirà fino al 16 marzo. Da non perdere.
Doctor Sax
L’articolo Ligabue, la follia che sconfina nel genio proviene da LSD Magazine.