![Al corpo, umile e alto](https://ytali.com/wp-content/uploads/2025/02/110.-Cover-di-Chiarissima-luce.jpg)
Non capita frequentemente di imbattersi in un libro come Chiarissima luce di Alessandro Ardigò (Treviglio, 1982). Pubblicata nel 2024 dalla Compagnia editoriale Aliberti, questa è la terza raccolta edita dall’Autore dopo Prosimetro moderno (Eretica, 2020) e Cedere, e altre cose dette d’amore (Eretica, 2022) ‒ anzi quarta, con la splendida plaquette Tre mesi pubblicata per i tipi de Il ragazzo innocuo nel 2023, ‒ e non si può sinteticamente definire se non come una grandissima opera di poesia, per la chiarissima luce di sapienza e umanità che proietta agli occhi e al cuore del lettore.
Già le raccolte precedenti di Ardigò costituivano acquisizioni di rilievo, ma è con Chiarissima luce che la sua voce poetica acquisisce una nota inconfondibile, una maturità che genera il fondato sospetto che tanto dei risultati che la scrittura di Ardigò ha ottenuto sia dovuto, oltre che alla sensibilità dell’Autore, che qui è presente in grado eroico, anche alla sua profonda conoscenza della nostra tradizione letteraria, non solo novecentesca e contemporanea. La sapienza poetica di Ardigò ha le sue radici in particolare nella grande cultura medievale, che è il suo campo di studio per il versante scientifico del suo profilo (sta lavorando a una tesi di dottorato su Restoro d’Arezzo presso l’Università di Bergamo). In questo senso sono parlanti anche i titoli delle raccolte: Prosimetro moderno, e poi Cedere, e altre cose dette d’amore, e in definitiva anche Chiarissima luce, che ha in esergo, insieme a uno stralcio dalla Passeggiata sotto gli alberi di Jaccottet, un passo dalla Fisica di Aristotele, il “maestro di color che sanno”, e che è essa stessa, in definitiva, un prosimetro. E soprattutto l’esergo aristotelico sembra particolarmente rilevante, in quanto intona il tema dell’equivalenza, se non addirittura coincidentia,degli opposti (poi rincalzato dalla citazione da Jaccottet), ma lo fa con un’icasticità tale da permettere al poeta moderno di riprendere le parole de lo Filosofo rivestendole, in limine, di una valenza quasi esistenziale: «la via in salita e quella in discesa sono identiche».
di Alessandro Ardigò
Compagnia editoriale Aliberti, 2024
Prezzo: euro 12,90
La raccolta è suddivisa in due parti, intervallate dalla riproduzione di sedici tavole dell’Autore, che è anche uno straordinario artista figurativo che celebra nei suoi tratti la bellezza delle creature innamoranti che incontra sul suo cammino. In effetti, il portfolio, presentato come Intermezzo, in realtà è molto di più, considerato che i soggetti ritratti, esclusivamente figure femminili, si legano sia dal punto di vista tematico sia da quello, si oserebbe dire, stilistico, per l’incisività e chiarezza del segno, alle due parti del libro, la prima delle quali è un piccolo canzoniere amoroso (quasi una Vita nova?), mentre la seconda è dedicata alla rievocazione di un’esperienza di malattia e ricovero ospedaliero. Poesia e arte sono del resto congiunte indissolubilmente nell’ispirazione dell’Autore e nell’amorosa testimonianza che egli vuole dare al mondo:
Le poesie, l’arte
sono l’amore che ho
e che non so dove mettere
sono un canto alla madre
lontana
il profumo di panni
stesi fioriti
nel vento.
(p. 80)
Grande un libro di poesia lo può essere in molti modi: Chiarissima luce lo è in tanti dei più nobili fra quelli che la nostra tradizione poetica ha consacrato. Intanto, per la gestione del versante autobiografico, il racconto di un amore e di una malattia che si fanno parola luminosa, pulita, asciutta, appassionata ma esatta, senza alcuna condiscendenza agli sguaiati psicodrammi dell’autobiografia che popolano buona parte della cosiddetta poesia di oggi. La poesia di Ardigò è una poesia coraggiosa, senza macchia e senza paura, tutt’altro che innocua (per fare uno scherzoso riferimento al “Ragazzo innocuo”, il marchio che contraddistingue l’arte tipografica di Luciano Ragozzino, magnifico editore della citata plaquette Tre mesi), ma sempre dominata da una suprema intelligenza verbale, sintattica e stilistica, che nello smussare gli estremi non fa in realtà che acuminare ancor più la rilevanza si direbbe addirittura salvifica del messaggio. È una poesia che affronta, in modo accorato e felice, con riserbo ma anche con la necessaria chiarezza, temi forti ed eterni, come bastano a provare le parole-tema del libro, alcune coraggiosamente maiuscolate: anima, amore, vita, morte, malattia, destino, Altro, Male, Natura, Dio. L’esito di questa forte emergenza dell’esperienza personale non è però un diario, o un monologo interiore, perché la scrittura di Ardigò è sempre solidamente proiettata in un al di sopra, in una verticalità dalla quale però non scompare mai il tu del lettore, che il poeta tratta con simpatia e rispetto: non ci sono involuzioni, né stilistiche né concettuali, il pensiero si snoda sempre con assoluta chiarezza e luminosità, tanto che per chi scrive è difficile sottrarsi alla commossa e grata sensazione che qui si risenta appunto la grande lezione, più ancora che del Novecento, della tradizione lirica (e non solo) medievale.
E questo è il secondo punto di grandezza di questa poesia di Ardigò: un’intertestualità mai esornativa ma sempre necessitata nell’esigenza che l’Autore ha di trovare fra i suoi poeti un aiuto al dire. Fra tutti, supremamente, Dante, il dialogo con il quale raggiunge risvolti addirittura geniali in particolare con il disseminato rapporto che le poesie del libro intrattengono con il canto XXXIII del Paradiso.
Volano
a cerchio le foglie lievi nel vento
sotto ogni foglia è scritta una sentenza
sono destini, sussurri di Sibilla.
Guarda, bruciano a mezzo cielo – bruciano
e la neve al sole si disigilla.
(p. 59)
I materiali danteschi dai celebri versi sulla Sibilla (vv. 64-66) sono qui ripresi e fatti propri, con l’agilità di una sapienza poetica introiettata nel profondo, che non ostenta ma certifica della propria densità anche filosofica (Chiarissima luce in effetti è un libro filosofico, come non se ne vedono molti oggi: non si fa fatica a ripensare al pensiero poetante di marca leopardiana), oltre che del proprio essere punto di arrivo di una tradizione amorevolmente frequentata. Il poeta di oggi aggiunge però alla suggestione medievale quell’allitterante sussurri di Sibilla che reinterpreta in maniera originale la tragicità dei destini che si dissolvono a mezzo cielo, bruciando, come neve al sole (anche questa è una suggestione nuova rispetto al modello, come quel volo a cerchio delle foglie su cui la lirica si apre). Persino la clausola preziosa, rubata alla rima dantesca, si disigilla, non solo non stona, ma non fa che acuire il pathos di questa poesia forse anche, subliminalmente, asseverando nella clausola quell’intenso lavoro fonico sulla liquida l che è la nota su cui la poesia si era aperta (Volano: anche questa una splendida intuizione che matura sull’immagine dantesca ma che non è compresa in essa), e che forse si può leggere come contraltare, o antidoto, all’effetto annichilente dei nessi con vibrante del fuoco nella conclusione, nella quale è convocato il lettore (Guarda, bruciano… bruciano).
La reinterpretazione dei versi del Paradiso, e in particolare del canto XXXIII, come si diceva, è feconda anche in altro senso, e con una tale segreta efficacia che meriterebbe certamente un saggio dedicato: può bastare la ripresa di una clausola versale che costruisce il discorso del poeta di oggi su quello dell’antico, e gli permette di formulare con un nitore abbacinante la sua più sentita e partecipabile fede.
Libera
A chi è in strada, a chi nelle carceri
a chi sta in ospedale, a chi è disperato.
A tutte quelle persone conosciute
in certe sale d’aspetto
a quelli avuti come vicini di letto.
A chi ci prova a stare accanto all’altro.
A chi lava i capelli e la schiena dell’altro.
All’infermiera che mi ha tenuto la mano
mentre mi addormentavano
e di cui non so nemmeno il nome.
Al lettino di acciaio su cui vai nudo.
Agli aghi, più duri della pelle.
A chi si è innamorato.
Al corpo, umile e alto.
Al corpo, umile e alto.
Non ha senso nulla, se non la rinuncia, anelare alla luce.
Se non farsi ultimi fra gli ultimi, o almeno… provare.
(p. 79)
Una delle poesie conclusive della raccolta, Libera, sgorgata durante un ricovero ospedaliero, è testimonianza di un vangelo di cui ci sono altre tracce nel libro (per esempio si veda la rievocazione della lavanda dei piedi a p. 24). Non importa se Dio c’è o non c’è: senza che si possa dare una risposta, quella della sua esistenza è comunque una delle grandi interrogazioni che Ardigò dissemina nel libro, in particolare nella Seconda parte: si vedano almeno le pp. 60-61, 64 (quasi una quaestio disputata de malo, ma in versi nitidi, senza alcuna gravezza, anzi illuminata nei versi finali di vera e umana gioia), e poi ancora le pp. 65, 73, 77… Ma in Libera, si diceva, dedica accorata e ardente all’umanità dolorante, fragile e forte, amorosa e sorella, emerge con forza, e ancora una volta con intertestualità dantesca, uno dei temi-chiave del libro, quello del corpo: il corpo sofferente ma glorioso, che tradisce ma trionfa, qui celebrato attraverso l’allusione alla Madonna Dei genetrix, figlia del suo figlio nella carne, «umile ed alta più che creatura», della preghiera di San Bernardo. Da qui nasce il settenario iterato che sigilla la poesia prima della chiusa in prosa: ancora una volta la sapienza antica, rivissuta e incarnata, è uno dei punti di forza di questa poesia.
A confermare la centralità del tema, anche nella calibratissima sequenza macrotestuale del libro (perché Ardigò è un poeta che sapientemente costruisce i suoi libri), basterebbe il rimando a uno dei primi testi di Chiarissima luce:
Giù le mani dalla mia anima, lasciatela vagare lasciatela continuare a guardare. Non vuole nessun paradiso ideale, solo sentire una scossa nei quadricipiti e nei grandi muscoli dei glutei. Anelare al piacere, cadere nel dolore. Poi tornare.
Vagula, blandula
nessuna morale
nessuna volontà.
(p. 15)
In una sorta di morale negativa ben diversa da quella montaliana, la reinterpretazione dell’antico, in questa prosa-poesia ispirata ai versi del celebre epigramma di Adriano imperatore, viene genialmente rivissuta congiungendo il riferimento all’anima a un altro, robustamente fisico, materialistico e corporeo: già qui è centrale il tema di quel corpo umile e alto che configura il perno di una indissolubile dialettica fra spirito e carne dove il corporeo predomina:
Ti guardo
sei dall’altra parte
e una luce dischiude la tua bocca
poggiandosi molle
d’oro e di miele
in un vortice di pulviscolo incendiato.
Sono così corporee
le tue estasi mistiche.
Sono così vuoti
i quattro stomaci della vacca
mentre una goccia titilla lo scolo.
(p. 26)
Nella dimensione quasi evangelica di cui si è detto rientra anche – si è visto anche nella poesia appena citata – l’attenzione francescana di Ardigò per gli animali, che in qualche caso forniscono materiale sentimentale per alcune delle poesie più intense:
La rassegnazione e l’attesa del buio:
Ti ho vista in sogno.
Eri di una mansuetudine sacra
come la più bella delle bestie
che la notte si abbeverano alla fonte. (p. 34)
La mansuetudine sacra delle bestie cela forse una volta di più una indiretta suggestione dantesca, che potrebbe ricollegare l’immagine animale (e dunque quella della donna amata di cui essa è figurante) al Cristo, se è vero che nella Monarchia (I XVI 2), per alludere a Luca evangelista, Dante lo definisce appunto scriba mansuetudinis Christi. E poi ancora, nella Seconda parte, a p. 70, con analoga similitudine che ne rimedita forse tante simili della tradizione poetica antica (Lucrezio, Virgilio…), con riferimento però all’io:
I giorni della chemio
sono irrequieto
come la vacca
sul camion al macello.
Anche per lei è bianca la cerata
di chi l’accoglie.
La chiusa “in minore”, su endecasillabo e quinario, esprime splendidamente la contiguità dei destini, con quel lampo di bianco della cerata, presto destinata, per la vacca, a rigarsi di rosso, che rende ancora più straziante il contrasto con il verbo finale (l’accoglie), ambiguo fra l’accoglienza riservata al paziente e quella, antifrastica, che tocca invece alla mucca avviata al macello.
Si è appena fatto un cenno metrico: anche da questo punto di vista Chiarissima luce rivela la sua maturità in una pronuncia tesa, spigolosa e però musicalissima, che deflagra spesso in misure non canoniche ma che non rinuncia alla cadenza endecasillabica: una vera e propria partitura, si direbbe, per la quale l’Autore, durante la presentazione del libro che si è tenuta a Genova, presso lo Spazio 46 di Palazzo Ducale, il 18 gennaio 2025, nell’ambito degli eventi ospitati per cura di Claudio Pozzani e Barbara Garassino per la “Stanza della Poesia”, ha rivelato l’affiorare, in diversi casi, di una misura penniana: alcune delle poesie del libro, infatti, rimodulano interamente l’accentazione di una ben precisa lirica del grande perugino, che Ardigò tanto ama fin dagli anni della scuola: una sua musica di accenti ripresa però per parole e sensi tutt’altri, quasi alla maniera delle parodie dei grandi compositori del Settecento. Ma Penna è presente anche per altre suggestioni, musicali e non solo, pur nella differenza di temi e situazioni: si veda ad esempio la poesia di p. 28, intitolata Lappare, che nel titolo, lessicalmente connotato in termini animaleschi, una volta di più celebra la nobile convergenza di destino fra “uomini” e “bestie”:
Verrà il desiderio, tutto assieme
nel secco fuoco del cammino
nella bocca tutta arsa.
E fuori è arso.
O anche, l’intima dialettica fra gli opposti colorismi simbolici di p. 14 (L’ora del bagno), con il lapidario endecasillabo conclusivo, «L’urlo è nero, ma tutto fuori chiaro», che sembra congiungere tragiche suggestioni novecentesche (l’urlo nero della madre di Quasimodo?), alla nota dominante del fuori, questa sì intimamente penniana, come già si vedeva nel finale della poesia precedente.
D’altronde tutto il libro, non soltanto la Prima parte, è prima di tutto una storia dell’io innamorato. Basterebbe a provarlo, ancora una volta tramite la raffinata sapienza struttiva, la lettura in sequenza di uno dei primissimi e di uno degli ultimissimi testi, ossia la coda in versi che chiude la prosa introduttiva (p. 10):
Ora che non ho più panico
non ho nemmeno un amore.
Sono
come si torna da un viaggio
e la poesia di p. 82:
Prima
non ero fragile
e non potevo amare.
Ora
che sono fragile
non posso che amare.
Dall’amor alla caritas, il cerchio si chiude con un amore superiore che ovviamente non annulla il precedente, e che è intimamente legato alla scoperta della propria fragilità, diventando perciò stesso l’opzione esclusiva dell’io. In questo ambito tematico, seppure il dialogo primario di Ardigò sia quello citato con Dante, non stupisce però scoprire, proprio nell’ultimo testo della Prima parte (p. 33, L’estrema illusione), l’intensa ripresa di una situazione petrarchesca (dai Rerum vulgarium fragmenta, nn. 315-317), ossia l’immaginazione del futuro dialogo fra gli amanti, ormai rasserenati e liberi dalla più ardente passione:
Io e te
l’ultimo giorno
ci racconteremo le volte
in cui ci siamo pensati
ce le ricorderemo tutte.
Quanto al mondo, al fuori cui già si è fatto cenno, se nelle precedenti raccolte Ardigò aveva saputo intensamente poetizzare un ben riconoscibile paesaggio padano di strade, viottoli di campagna, orizzonti, periferie di una società industriale o post-industriale, in Chiarissima luce si legge l’evoluzione verso un paesaggio invece più riposto, certamente non bucolico ma sicuramente meno cittadino, talvolta onirico, o simbolico, o addirittura allegorico, o tutte le cose insieme:
Stanotte ho sognato mio padre sorridere.
Mio padre nei campi
le notti di luglio a seguire i fossi
la falena notturna i grilli i pianti
di mais a piedi nei filari
da irrigare.
I filari della vita e i suoi labirinti d’acqua
che ti ritrovi la notte i piedi bagnati
e non sai da dove arriva.
(p. 76)
Nella visione onirica il significato quasi allegorico (o di un simbolismo pascoliano?) del paesaggio diventa evidente, persino nell’ambiguo maschile pianti per le “piante” di mais, ardire espressivo e forse anche rievocazione di un infantile lessico familiare. I “filari della vita” e i suoi “labirinti d’acqua”, con la sensazione freschissima dei piedi improvvisamente bagnati senza sapere perché e come, si fanno metafora potente della vita, dei suoi misteriosi e imperscrutabili labirinti, ancora una volta però sentiti in maniera robustamente corporea: dopotutto, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
In poesie come questa si rifugia anche un altro tema sensibile del libro, quello degli affetti familiari, che forse tocca la sua vetta a p. 73, dove lo spunto dolorosamente autobiografico si salda all’autoritratto dell’Autore-studioso:
Se il giorno ricerco le prove razionali
dell’inesistenza di Dio
in scritture arabe e medievali
nei filosofi che per primi praticarono
l’osservazione del Mondo
che scrissero che Dio non si può conoscere
se non attraverso la Natura
la notte
la notte prego lo stesso Dio
per i miei cari che non mi faccia morire
giovane ancora.
Ma la luce di questo libro è anche quella delle anime di cui racconta, le anime fragili che il poeta riconosce sorelle nel cammino: non stupisce perciò che il bianco sia un colore forte, dopo l’annegante nero d’acque della prosa introduttiva (L’inizio è la fine), sia quando esplicitamente nominato sia quando solo implicitamente alluso nelle felici immagini in cui si concretizza il simbolismo (o l’allegorismo, già si diceva) della lirica di Ardigò, come nell’indimenticabile nevaio di p. 20:
Sono così luminose
le anime fragili
che mi si chiudono gli occhi
per cercare il buio
quando le incrocio da sole
sulla via al nevaio.
O ancora, quando la dialettica fra bianco e nero è fatta oggetto di un’arguta lettura quasi epigrammatica, come nella leggera e terribile poesia di p. 58, che rievoca il gioco puerile di non calpestare col piede la commessura fra due diverse piastrelle, con la clausola ossimorica, marcata dal corsivo (e l’ossimoro è una delle chiavi di lettura del mondo, l’irragionevole mondo, per Ardigò: si veda p. 30):
Se a caso cade il piede
tra le piastrelle bianche e quelle nere
muori – risa, destini.
La dimensione “epigrammatica” è un’altra delle risorse espressive della scrittura di Ardigò, come nel bellissimo “omaggio a Celan” di p. 66 (Con e senza contrasto), che sembra intrecciare il tema (anche rilkiano) della morte che concresce dentro di noi per tutta la vita con l’immagine pirandelliana del “fiore in bocca”:
Tra i fiori rari il più caro è la morte
per una vita si prepara in bocca
ed una volta sola
sboccia.
Certo, anche filosoficamente parlando si sa che nil obscurius luce, e questo è un tema che affiora in maniera molto chiara all’interno del libro, dalla tenebra luminosissima di p. 22 alla trascrizione in termini riferibili alla sala d’attesa dell’ospedale, a p. 64: «C’è una luce che spegne, qui. Distolgo lo sguardo». L’immagine del nevaio che sigilla la poesia sopra riportata, però, diventa immediatamente un connettore macrotestuale con altre zone del libro, come p. 68, che racchiude uno dei manifesti del pàthei màthos cui l’Autore si affida:
Cosa saprei del mondo
senza questa luce di morte
camminare sulla cresta del monte.
Scorgo solo la notte
e tutto è bianco.
Come riemergere dalle acque
in una corolla di tenebre.
E poi più avanti, fino alla poesia di p. 77, dedicata al tema della preghiera, che si chiude con un’immagine paradossale ma necessaria («Ci sono delle luci | nel fondale del lago di montagna»), e poi ancora fino alla splendida prosa conclusiva del libro, explicit (scritto così, con e- minuscola), che ancora una volta “sulla cima del monte” ambienta un incontro dell’io con due creature rifulgenti, fra angeli e demoni (ma nel senso classico, degli intermediari dei misteri):
Sulla cima del monte erano due, e non riuscivo a guardarli in volto perché rifulgevano di luce come la fioritura delle rose.
La formula che viene recitata nei misteri – cioè che siamo come sentinelle, e non dobbiamo scioglierci da questo impegno né lasciare il posto, – mi pare grande e non è facile scorgerne la profondità.
(p. 83)
Una chiusa apparentemente “in minore”, in parole semplici e profonde, con ogni evidenza etiche, oltre che poetiche, nelle quali l’imperativo morale è presentato, come anche nella chiusa di Libera, come un tentativo, un provarci dell’umano presente alla propria fragilità. Parole che allo stesso tempo riguardano, insieme all’Autore, il suo lettore, e che lo lasciano con in cuore il frutto perenne di questa grande poesia da meditare e da vivere.
Immagine di copertina: foto di Valentin Lacoste su Unsplash
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