![I maestri perduti e la tradizione introvabile](https://ytali.com/wp-content/uploads/2025/02/73201C4F-675F-4A7B-8C0D-9DE0222A8419.jpeg)
Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo. (Koan Zen)
Maestro è una parola impegnativa. Dovremmo usarla con cautela e parsimonia, forse soltanto per alcune personalità somme: Socrate, Gesù, Buddha, Confucio, forse qualche altro, come a suo tempo indicò Karl Jaspers. Oppure, in un’altra scala, per qualche maestro elementare; perché, sia nel caso dei grandi che dei piccoli, abbiamo a che fare con l’apertura di ciò che è essenziale, elementare appunto. Incontrare un vero Maestro, in ogni caso, è un’eventualità rarissima.
Capita, però, di imbattersi in un recente libro di Marcello Veneziani dal titolo Senza eredi, dove scopriamo che molti sarebbero i maestri, ma non hanno più discepoli. Il sottotitolo, infatti, dice: Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella. E qui troviamo già un paio di notizie interessanti: la prima è che esisterebbero tre categorie di maestri (e su questa partizione, forse, sarebbe il caso di tornare in un altro momento); la seconda è che viviamo in un tempo in cui questi non avrebbero ormai più nessuna influenza, né buona né cattiva, sostituiti da influencer, agenti pubblicitari, politici più o meno improvvisati. Maestri cancellati, quindi, o dimenticati; anche quelli, nella sua lista, ancora viventi. Se ne facciano una ragione i vari Dugin, de Benoist, ma anche Cacciari e Agamben, Byung-Chul Han e Hadjadj, Rovelli e Tonelli e Faggin… Già la vistosa eterogeneità dei nomi dei “viventi” (le virgolette si riferiscono alla “cancellazione” del loro magistero) dovrebbe creare qualche problema. Se poi si va a scorrere l’indice troviamo una compagnia di più di sessanta “maestri”, che vanno da Marsilio Ficino a Evola, da Proust a De Michelis (Cesare)…In un libro precedente, molto simile a questo, Imperdonabili , i ritratti erano già un centinaio. Leggendo i vari microsaggi, poi, è difficile trovare qualcosa in comune tra tutti quegli autori se non, forse, il semplice fatto che Veneziani li ha letti, alcuni li ha conosciuti personalmente, e da ognuno di loro ha imparato qualcosa. Insomma, una piccola biblioteca di formazione e di interessi personali. Ma quella di Veneziani non vuole essere soltanto un’autobiografia intellettuale; vuole farci intendere qualcosa di più, e lo esplicita nell’introduzione e nell’epilogo: che tutti questi autori, compresi, in una strana posizione, i cosiddetti “cattivi maestri” (vedi, guarda caso, Toni Negri e Mario Tronti…; si becca quest’etichetta, però, anche il povero Kafka), costituirebbero la spina dorsale di quello che, secondo lui, è andato definitivamente perduto, e cioè “il filo impersonale della Tradizione”. Confesso che ho fatto fatica a trovare questo filo, che legherebbe Pascal e Trilussa, Giordano Bruno e Ratzinger, de Maistre e Vattimo, Baudelaire e Sgorlon, Mazzini e Florenskij… ecc. ecc., ma probabilmente è un mio limite.
Non ci sono più maestri, ci dice Veneziani, e nemmeno più discepoli. Ma anche nel glorioso passato l’eredità dei maestri è sempre stata, se non altro, molto oscillante e controversa. Prendiamo, per esempio, il primo dell’elenco, Marsilio Ficino: la sua fortuna è stata altalenante nel corso dei secoli e il suo raggio d’influenza limitato a cerchie intellettuali ristrette. Che dire, poi, se è proprio nel nostro sciagurato tempo che l’umbratile presenza del maestro di Figline Valdarno è uscita dagli studi specialistici per apparire a un più largo pubblico ad opera di un influente, e molto letto, psicoanalista americano di scuola junghiana, James Hillman, che in Re-visione della psicologia lo definisce “patrono rinascimentale della psicologia archetipica”? (Lo ricorda, con molte riserve, lo stesso Veneziani, anche nel ritrattino, un po’ riduttivo, che ne fa in Imperdonabili). Molti storcono il naso, ma è andata così. Evidentemente le vie dell’eredità intellettuale, come quelle del Signore, sono infinite, se non altro molto varie. Considerazioni simili potrebbero valere anche per altri della lista, con tutte le varianti dei casi.
Prendiamo, però, qualche altro esempio che possa aiutarci a individuare un filo conduttore, un legame, almeno tra alcuni dei maestri perduti. Domandiamoci, quindi, in cosa consista, o sia consistito, il “magistero” di autori come Jean Cau e Dominique Venner. Il primo, ex segretario di Sartre, poi folgorato sulla via di Damasco e convertito “all’onore e alla tradizione”, ”cavaliere della disperazione”, “nichilista eroico” che finì isolato e in solitudine, che con i suoi libri “animò la gioventù di destra degli anni Settanta” (quale gioventù? la stessa che si animava anche per La disintegrazione del sistema di Franco Freda, o quella che cresceva nel culto più raffinato di Rivolta contro il mondo moderno e Cavalcare la tigre di Julius Evola?); il secondo, parà ai tempi della guerra d’Algeria e membro dell’OAS, poi saggista noto soprattutto negli ambienti intellettuali dell’ultra destra francese, nel 2013 finì suicida sull’altare di Notre-Dame per protesta contro i mala tempora, come un Mishima di casa nostra, un “samurai dell’Occidente”, dissero i suoi ammiratori. Entrambi rappresenterebbero per Veneziani i casi estremi (da ammirare ma, aggiunge prudentemente, non da emulare) di una fedeltà assoluta ai valori di quella Tradizione europea di cui staremmo perdendo memoria. E quindi, riflettendoci appena un po’, si capisce perché il nostro autore li inserisca, con cautela, nel pantheon dei veri maestri. Assieme ad altri grani della stessa collana rappresenterebbero la resistenza più irriducibile di coloro che non si trovano a proprio agio nel tempo in cui è capitato loro di dover vivere. Come Evola, Eliade, Cioran, de Benoist… (nel rosario precedente c’erano anche Guénon, Tolkien, Gòmez Dàvila…per citare i più noti), sono gli “inattuali” o “imperdonabili”, legati da una comune insofferenza, più o meno critica, nei confronti del cosiddetto “mondo moderno” e del suo disvalore. Cau e Venner rappresentano, nel nostro tempo, le posizioni inconciliabili, tragiche e disperate, che separano il “mondo vero” della Tradizione dal nostro, falso e superficiale, e senza eredi, così come in passato troviamo un impareggiabile campione della reazione/tradizione soprattutto in de Maistre, per il quale “c’è un nesso non solo lessicale tra demos e demoniaco”. E per questo va a loro un’ammirazione appassionata, mentre ai “conservatori moderati” (come Del Noce, Miglio, Scruton…) va un’ammirazione più contenuta.
Il problema forse è spettinare i conservatori, farli diventare, se non conservatori rivoluzionari, almeno un po’ ribelli. Arruffate il ciuffo a Roger Scruton.
Così si esprime Veneziani a conclusione del medaglioncino dedicato allo scrittore inglese in Imperdonabili. E qui Veneziani ha anche ragione, perché se andiamo a leggere qualche pagina dai numerosi libri di Sir Roger troviamo molto British humor, molto common sense sostenuto da tante letture e citazioni, molto Edmund Burke, ma poca filosofia originale, tantomeno “ribelle”:
Il conservatorismo nasce dal sentimento, che tutte le persone mature possono perfettamente condividere, secondo cui è facile distruggere le cose buone, ma non è facile crearle. Ciò è particolarmente vero per le cose buone che ci arrivano sotto forma di patrimonio collettivo: la pace, la libertà, la legge, la civiltà, il senso civico, la sicurezza della proprietà e della vita familiare.”(R.Scruton, Essere consevatore)
Insomma, una visione del mondo posseduta anche da qualsiasi gentleman dell’età vittoriana e da brave signore di quella thatcheriana, molto lontana da qualsiasi forma di eroismo nichilista e tragico, in guerra con la decadenza.
Questa faccenda della Tradizione è un po’ il nocciolo di tutta la questione dei “maestri perduti”, ed è una faccenda dai contorni piuttosto confusi. Venner, per esempio, ateo e neo-pagano, mette insieme gli eroi omerici, le legioni di Roma, i Celti e i Germani, ha qualche problema col cristianesimo… ma alla fine sceglie per il suicidio un luogo altamente simbolico come Notre-Dame, “che fu edificata dal genio dei miei antenati su dei luoghi di culto più antichi che richiamano le nostre origini immemoriali”, come scrive nel suo testamento spirituale. Può andare bene tutto, basta riferirsi a qualcosa che appartiene a un tempo “altro” rispetto a un presente svuotato di senso. È sempre il procedimento della “macchina mitologica” individuato da Furio Jesi e, in questo caso, si aggiunge anche l’altro elemento tipico di una certa cultura di destra, e cioè la “religione dei morti esemplari”.
Altra considerazione. Uno dei grandi pensatori di riferimento degli autori più amati da Veneziani è Nietzsche, ma direi piuttosto un’ombra deformata di Nietzsche. C’è un colossale fraintendimento del suo pensiero in alcuni dei cosiddetti tradizionalisti. Per semplificare la questione: questi lamentano l’avvento del nichilsmo come allontanamento dai valori fondativi della nostra Civiltà, mentre per Nietzsche il nichilismo ha la sua radice proprio in quei fondamenti. Indicare l’entrata in scena dell’“ospite più inquietante”, per lui, significa spiegare “come il mondo vero è diventato favola”, e il “mondo vero” era proprio quello della tradizione metafisica. Piaccia o non piaccia a molti dei suoi presunti discepoli e ammiratori, per Nietzsche la Tradizione si è suicidata, non è stata uccisa da nemici esterni, nessuna irruzione di nuovi barbari è venuta ad abbattere il Grande Edificio. È crollata su sé stessa quando è emerso con evidenza che il terreno su cui posava era sabbia mobile e non fundamentum inconcussum. Qualcuno non si è ancora reso conto che l’annuncio della “morte di Dio” non è una tesi filosofica soggetta alle più svariate interpretazioni, ma è un evento. Alcuni scrivono e dibattono intorno alla natura più o meno metafisica della questione, producono sottili esercizi ermeneutici e dialettici (qualche teologo insiste sulla imprescindibile necessità di “ritrovare Dio a partire dalla sua perdita”, addirittura di “trovare la matrice cristiana della scristianizzazione”). Altri sono gli eredi di coloro che al mercato avevano ottusamente ridicolizzato l’“uomo folle”, quelli che per i motivi più diversi non credono che l’“enorme avvenimento” stia facendo la sua strada, semplicemente perché non hanno mai creduto che il problema di Dio fosse così importante. .
Una morte così grandiosa non poteva che trascinare con sé molte altre morti e agonie, la fine di tutte quelle figure legate all’immenso defunto.
Da quando Nietzsche ha trovato le parole per l’unica seria genealogia dello “scontento dei tempi moderni in Europa”, quel “profondo tedio per l’esistenza”, che non è l’essenza del nichilismo ma il suo epifenomeno, il numero dei cantori, auguranti e/o disperanti, di questa interminabile caduta degli dei, è andato aumentando fino a far diventare ritornello, luogo comune condiviso a destra come a sinistra, quel che nel più solitario dei pensatori era la più profonda e lucida espressione di un’evidenza.
E quindi abbiamo avuto e abbiamo migliaia di pagine che danno sfogo al lamento per la perdita dei Valori, della Tradizione, della Religione, del Sacro, del Senso della Famiglia, della Comunità…, per il definitivo, ma sempre di là da venire, tramonto dell’Occidente. Un’immensa Nibelungenklage colora la Stimmung degli scritti di molti autori del nostro tempo. Un po’ apocalittici e un po’ integrati, troviamo a volte degli stralunati e cinici discepoli del millenarismo alla Gioacchino da Fiore, oppure della dottrina induista del kali-yuga. In ogni caso, i Tradizionalisti, prima di annoverare Nietzsche tra i propri maestri e ispiratori, dovrebbero leggere con attenzione almeno Il crepuscolo degli idoli, nonché qualcuno dei Frammenti postumi destinati all’Opus Magnum che doveva essere La volontà di potenza; e per quanto riguarda il rapporto tra passato e presente avere davanti la Seconda Inattuale Sull’utilità e il danno della storia per la vita.
Molti anni fa, Umberto Eco aveva ironizzato così, forse in maniera un po’ troppo severa, su tanti presunti allievi di Nietzsche:
Non vi è nulla di più facile della deprecazione. A qualsiasi intellettuale fallito basta commisurare la condizione dell’uomo contemporaneo a quella del Cortegiano o dei gentiluomini del Bembo, ed il gioco è fatto: quale squallido divario, che perdita di umanità… Dove è finito l’uomo? Si è dissolto nel vaneggiamento, nella melassa dei conformismi, nei disordini protervi di una intelligenza informata e informale. Cosa ci resta? Il silenzio (senza esilio e senza astuzia), la contemplazione tragica del vuoto. E la consolazione di essere un animo nobile. Un nichilista fiammeggiante. (Apocalittici e integrati)
Tra coloro che a vario titolo si aggirano ancora, più o meno furtivamente, fra quelle arroganti e malinconiche meraviglie che sono “le fosse e i sepolcri di Dio” e coloro che vi passano accanto soltanto un po’ stupiti, fra i perplessi immusoniti e i commedianti disperati, dovrebbero forse sorgere uomini (lasciamo per ora perdere l’attesa di oltre-uomini) in grado di “ridere”, come rideva il pastore di Zarathustra dopo aver staccato a morsi e sputato la testa del serpente (vedi La visione e l’enigma). Di quel riso dovremmo avere nostalgia, se almeno una volta ci è sembrato di udirlo come è accaduto a Zarathustra, non di spettri mascherati da dèi. C’è più Nietzsche nella danza di Zorba il greco di Kazantzakis che nelle mille e passa pagine che gli ha dedicato Heidegger, ancora appesantite dallo “spirito di gravità”. Veneziani, però, a differenza di altri, cerca di “neutralizzare” Nietzsche, confinandolo nel recinto degli “amanti della vita sconfitti dalla vita” (come fa anche con Leopardi). Nel patetico ritrattino che gli dedica in Senza eredi, definendolo, con un termine leggermente riduttivo da counseling new age, “biosofo” invece che filosofo, e accennando al tema fondamentale della volontà di potenza nel modo più superficiale, dimostra o di non averlo letto con attenzione, oppure, più probabilmente, di volerlo, dal suo punto di vista, ridimensionare, perché in fondo ha il sospetto che con i custodi della Tradizione Nietzsche non abbia niente da spartire.
A parte questo filo della tradizione inventata dai Moderni, e che lega tra loro alcuni degli autori citati, non si riesce a trovarne uno che tenga insieme tutti gli altri. Baudelaire e Pound hanno in comune il semplice fatto di essere grandi poeti; Manzoni e Verga grandi romanzieri; Vico e Gentile grandi filosofi…E allora? Leggiamoli, studiamoli, ammiriamoli…troveremo sempre in ognuno di loro un po’ di pane per la vita della nostra mente. È facile piagnucolare sull’ottusità del mondo, sul caos universale e la vita insensata, e invocare “guide, modelli di riferimento, figure autorevoli, supplenti o maieuti del sacro e del pensiero, che aiutino a trovare una via, una casa, una visione del mondo e della vita.” Meno facile è provare invece a seguire la vecchia, ma sempre attuale e preziosa, indicazione dell’illuminista Kant per uscire dallo “stato di minorità” senza la guida di un altro. Parafrasando il Galileo di Brecht (che Veneziani non ama) si potrebbe anche dire: “Sventurata la terra che ha bisogno di Maestri”.
Tornando a Senza eredi, sempre nell’introduzione e ripreso nell’epilogo, troviamo un accostamento insolito: l’oblio dei maestri e l’assenza di eredi troverebbe un parallelo nella denatalità del nostro paese e nel ricorso all’aborto (sic), piaghe di questo presente senza passato né futuro. L’autore, alla fine del libro, interrogandosi sulla possibiltà di un pensiero nuovo che possa oltrepassare il nostro deserto quotidiano, non trova di meglio che ricorrere a un accorato inno alla vita nascente, e lo fa prendendo spunto da un album di foto di neonati e mamme incinte della famosa fotografa Anne Geddes. E qui una prima perplessità: quelle immagini possono andare benissimo per i calendari (ne regalavo uno ogni anno a mia madre), ma sono spesso talmente artificiose da rasentare la stucchevolezza. In ogni caso, dopo quella vertiginosa cavalcata tra eroi, martiri e testimoni del pensiero e della scrittura, tra aspri e difficili portatori di idee pagate a volte con la morte o con l’ostracismo, si resta sorpresi nel passare di colpo all’apologia della “nuda vita” su carta patinata, rappresentata da una simpatica e furba signora che ha fatto della diffusa sensibilità per l’immagine infantile l’occasione per un notevole business, proprio in quel mondo delle merci e della caduta dei valori tanto detestato da Veneziani e dai maestri inascoltati.
Prendendo la faccenda tra il serio e l’inopportuno, queste intraviste relazioni tra creatività intellettuale e biologia, tra decadenza culturale e inverno demografico, alludono forse alla possibilità che popoli fecondi sul piano delle nascite siano destinati anche ad un’altra crescita e a puntare quindi anche ad un’egemonia culturale? Lo spettro della sostituzione etnica si aggira per l’Europa in molte forme.
P.S. Come sobria alternativa agli sterili lamenti, un modesto consiglio di lettura: La lezione dei maestri di George Steiner.
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