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Pietro Milone, Di Stendhal, della Spagna, di Pirandello. E di me. Carteggio tra Leonardo Sciascia e Maria Luisa Aguirre d’Amico. 1971-1989, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2025.
Lo scambio epistolare tra due personaggi illuminati, in maniera differente, dalla visibilità pubblica. Leonardo Sciascia per meriti personali, Maria Luisa Aguirre d’Amico, di origine cilena e traduttrice dallo spagnolo, poco conosciuta almeno agli inizi se non per la prestigiosa e straziata parentela, nipote della folle Antonietta Portulano e del premio Nobel nel 1934 Luigi Pirandello, esibiscono una indubbia asimmetria nel loro scambio di messaggi dal 1971 al 1989, anno della morte dello scrittore. Lei infatti gli scrive lettere lunghe e continuative, così da occupare molto più spazio nel volume, mentre lui se ne ritaglia uno minore, con poche missive. Il fatto che lui è un uomo famoso, e dal mondo intero ne riceve tante che “ci sarebbe da farne un libro” (1978). Sedici le missive di Sciascia, raccolte dagli eredi D’Amico; 49 quelle di Maria Luisa, conservate nella Fondazione a Racalmuto. Del resto, quest’ultimo nella stessa Fondazione vanta migliaia di corrispondenti, da cui ha ricevuto di continuo segnali. Appartata, selettiva invece la donna, che alle spalle cova fantasmi funesti. Lo tiene lontano, il nonno famoso, lo chiama per cognome e mai appunto nonno, o al massimo per iniziale P. Come una ferita, un lutto mai elaborato.
Ora, possono un uomo e una donna adulti, (lui ha solo quattro anni più di lei) non ancora divenuti anziani, dare vita a un legame di amicizia, e basta? Marcello Morante, fratello di Elsa nonché avvocato di successo a Grosseto che chiuse lo studio per dedicarsi a tempo pieno al teatro, mi diceva ostinato che se normali un uomo e una donna anche se parlano di rapporti fraterni tra loro intendono solo andare a letto assieme. Il non detto, che in modo diverso caratterizza entrambi in questo carteggio, allude come un’ombra a qualcosa di diverso. Se però lui appare molto reticente, lei a volte si spinge avanti. Le parole che aprono le lettere e quelle che le chiudono come congedi costruiscono una curva ascendente, un avvicinamento scandito ad un certo punto, nel 1978, dalla svolta pronominale, ovvero il passaggio rituale dal lei al tu. Qualcosa muta ambiguamente nel rapporto, anche se permane il rispetto sussiegoso, seguito dall’erede di casa Pirandello, verso lo scrittore sempre più affermato a livello non solo nazionale, e siciliano per giunta come il nonno. Leggiamo la missiva del 1978 quando lei gli passa l’indirizzo di un piccolo albergo parigino in Rue de l’0déon:”Mi cerchi lì, la prego”, e l’anno dopo “se hai tempo e voglia di vedermi, telefonami”, o altrove “al ritorno la gioia di trovare la sua lettera”), o ancora “potremo vederci due orette il pomeriggio. A me basteranno”, o “Non sia con me imbarazzato e ostile”, nel panico davanti al suo silenzio, all’assenza di rilancio epistolare, oppure “il pomeriggio passato con lei” da non rovinare raccontandone i dettagli. Si guardi ai ripetuti “ti abbraccio”, o “con tanto affetto”, avallati dalla promessa di completare il racconto per viva voce, quando si vedranno, e così via. Ebbene, non sapendo che tipo di relazione sia qui in gioco, uno può fraintendere. In una lettera del 1977, Maria Luisa arriva a citare Le affinità elettive, dal diario di Ottilia, davanti alla comprensione di Leonardo della sua angoscia: “Si ha la dolce sensazione di essere in due, e il vantaggio di non poter essere disgiunti”. Lo scrittore, in cambio, si schermisce. Al massimo, nel 1977, “ho molto pensato a lei”. Nel medesimo anno, gli scappa un incauto “Glielo dico volendole bene”. Si riferisce qua alla condizione di erede, in chiave originale, di tanto lignaggio, non appena lei confessa di odiare tale ruolo. In più, nonostante tutto, lui riesce con il suo “sorriso tra stanco e scanzonato” a procurarle allegria nel 1988. Su questa temperatura affettiva Milone, spesso interessato nei suoi precedenti titoli allo studio dell’inconscio sulle orme dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, sorvola con pudore e understatement. In compenso lo studioso, nell’appendice del libro, accenna che “anche chi annota, glossa e critica, scrive sempre per come si può”. Un’autocensura, dunque? Le richieste pressanti di lei, oltre a volerlo come mediatore presso Elvira Sellerio per far stampare i suoi testi memorialistici su Casa Pirandello, assurgono a registri intensi, incanalati-sublimati però nella dimensione editoriale. Eccola, ad esempio, nel 1985, ad esempio bearsi nella “fortuna di essere letta da te in dattiloscritto”, o effondersi in suppliche di risvolti di copertina, quasi bramasse una carezza d’amore.
Solidarietà tra i due, senza dubbio, tessuta di condivisioni, e il titolo del volumetto curato con finezza da Milone convoglia passioni che legano i due: Stendhal con qualche accenno alla ventilata impotenza di Henri Beyle, Spagna, Pirandello, me. Le spagnolerie della Sicilia di fonte araba, nella connessione tra hispanidad e sicilitudine. Questo “me” si riferisce ovviamente a Maria Luisa, non a Leonardo. Perché è lei a condurre questa schermaglia, lei che vorrebbe confidenze non solo letterarie ma anche private. Al contrario, Leonardo è solo reticenza nella fatica a reggere un trasporto del genere, non disgiunto da un evidente turbamento per essere desiderato dalla nipote di quello che poi diverrà il Padre non biologico ma di biblioteca. Spagna implica altresì lotta politica antifranchista, richiama le traduzioni di Sastre e di Valle Inclàn, i versi rapinosi di Antonio Machado citato pure nelle lettere di lui, memore delle proprie poesie giovanili, e che rimbalza di frequente in quelle di lei, financo nei titoli delle opere. Ma nella biblioteca comune ci sarebbe pure la Francia di Voltaire, ossia la sponda illuminista, la singolare coincidenza di lei che legge Zadir proprio mentre lui sta riscrivendo Candido. Li unisce inoltre la pena di vivere così, rubando il titolo ad una novella del nonno, 1920, su un matrimonio infelice, e qui citata forse pour cause nel risvolto di copertina che Leonardo si premura di infilare con fiammante tocco a Come si può di Maria Luisa. E la cupezza della depressione. Tanto più che lei, se a casa torna volentieri, subito smania per lasciarla di nuovo. Come in uno specchio virtuale, anche lui vive il carcere/rifugio della famiglia, se accenna per un attimo a problemi privati là dove sbotta nel 1977 “‘i destini generali’ vanno a sfascio – e quelli personali non vanno meglio” senza indulgere in un ostinato e virile riserbo. Nello stesso tempo, adora i dagherrotipi di famigliari e fa del suo studio una mostra di ritratti (insieme cureranno nel 1979 per Sellerio Album di famiglia di Luigi Pirandello), con lei che si vanta e insieme ironizza sul fatto che tra immani fatiche ha messo su “una famiglia modello” (1977).
Ma in Maria Luisa si agita soprattutto il dna, quell’irrazionale che tanto teme e che la attrae: “il mio destino non mi consentiva di allontanarmi del tutto dalla pazzia”. come confessa con una punta di sofferta vanità nel 1977. E certo le sue lettere esalano da lontano un tanfo di morte, che ben si incontra con il memento mori costante in Leonardo, suo autentico mantra. Perché incombe la propensione al suicidio in famiglia, pensato e narrato dappertutto dal celebre nonno, tentato dalla madre giovinetta indifesa davanti alle oscene accuse di incesto paterno rinfacciatele dalla nonna, e poi rilanciato di fatto negli eredi, tra i vari cugini.
Li avvicina anche la solitudine, da lei bramata ma di cui è sazia. Maria Luisa, incapace di veder soffrire qualcuno anche sullo schermo, che sa solo scrivere in modo drammatico anche se non vorrebbe, e che davanti alla morte ridimensiona tutto. Davanti a tanta neritudine, Sciascia, cui nel 1980 “duole l’Italia” (cosa direbbe di questi anni di piombo, tra social imperanti e fake news che rovesciano governi?) nel 1977 prorompe in “non c’è molta ragione, in giro”. Sempre osteggiato, alle prese con gli ortodossi, gli intellettuali organici del PCI, abituato gli strali reiterati di Amendola, rinnovati poi dal Caso Moro. Perché lo scrittore si è nel frattempo spostato nello schieramento radicale, favorevole alle trattative coi brigatisti per il rilascio del povero statista, che gli travolge l’anima e gli cambia la vita. E lei vorrebbe consolarlo e difenderlo dalle aggressioni e dalle contumelie, anche da quelle del cognato Lele d’Amico, musicologo insigne, che lo accusa di essere un autore di gialli, genere di cui Leonardo va fiero. Pronto a ribattere con stoico coraggio, vicino nelle eresie a Pasolini, lo scrittore proprio ne L’affaire Moro del 1978 ostenta la virtù antica della parresia, voglia di sincerità a tutti i costi nella testimonianza-dovere civile. E non dimentichiamo che in Todo modo del 1974 di Moro aveva in fondo auspicato/profetizzato la fine.
Quanto al carteggio, a poco a poco assistiamo ad una presa di coscienza anagrafica, alla rinuncia di pulsioni dietro le quinte da parte di lei, nell’emersione di acciacchi multipli in entrambi, di malanni fisici anche imbarazzanti. Lei lamenta cupezze e periartrite alla spalla destra che la ostacola nello scrivere, cadute con relative ingessature, deambulazione sempre più disagevole; lui insonnia, (riesplosa dai tempi del patto Hitler Stalin mentre si accanisce sul volume intorno a Aldo Moro), nonché disturbi crescenti agli occhi, disagi per la dialisi. Ogni tanto, lei lo consiglia di prendere il tale farmaco contro l’osteoporosi e di fare ginnastica morbida contro i peduncoli ossei. Più oltre, nel 1985, persino indirizzi di cliniche padovane per l’urologo! Non le resta pertanto che mostrargli una pietas sororale, davanti alle smorfie di dolore che gli scopre nel volto, sapendo altresì l’eccesso di caffè e di sigarette, consumi poi necessariamente ridotti a causa dell’enfisema, con derive ansiogene in lui, che da par suo dichiara di star male, di sentirsi dentro “scorticato”. La situazione si va facendo per certi aspetti grottesca, su involontario modello beckettiano, tipo Happy days. Man mano che la stretta, da parte di lei (sempre sua l’iniziativa), si allenta, risbucano puntuali i rispettivi coniugi, Alessandro D’Amico, chiamato da lui bonariamente “Sandrino”, in una missiva del 1988, colui che conosce più degli altri le vicende di casa, tranne che nei rapporti travagliati tra Luigi e il padre Silvio, molto condizionato nei gusti dalla componente cattolica, e la tranquilla maestrina di Racalmuto, Maria. Costoro sempre più vengono accumunati adesso nello scambio rituale di auguri, magari cofirmati, e propositi di incontri a quattro nella terrazza romana di lei o nell’assolata campagna siciliana di lui. E magari lei si spinge anche a inglobare nei saluti affollati le figlie e i nipoti. Il punto meno amoroso, o più sublimato, quando lei gli chiede di prenotare ad Agrigento, una camera matrimoniale, o una camera a due letti, con bagno, per sé e il marito. Le ultime battute di questo dialogo cartaceo, un telegramma nel 1989, di lei a lui, ormai condannato dalla leucemia. Poco prima, lui fa in tempo a confessare che il solo piacere rimasto è quello di scrivere.
La copertina del libro reca un ritratto di Antonietta, a firma di Luigi, lo sguardo fisso in maniera inquietante. L’avvolge una luce fredda e smorzata, Qui, traluce la nonna devastata dalla “ingiustizia terribile” (1982) vissuta nel matrimonio col genio crudele, vittima e insieme carnefice, avvinto alla donna in una carnalità smodata, come rivelato dal figlio Stefano Landi e come analizzato da Milone in un suo importante contributo del 2007. Antonietta, una donna complice del sistema patriarcale, molto più vicina al padre edificatore di benessere economico, che allo strano consorte.
Ho incontrato anch’io Maria Luisa, a fine anni Settanta, in un convegno di critici teatrali a Saint Vincent. C’era Sandro d’Amico, sfavillante di sicurezza salottiera. Alessandro, caporedattore dell’immane Enciclopedia dello spettacolo negli anni Cinquanta, poi tra i fondatori assieme a Luigi Squarzina del Museo Biblioteca dell’attore di Genova, e curatore dei Meridiani pirandelliani. Un vincente, insomma. Qualcosa della sua sicurezza riverberava in lei. Perché costei, ancora di aspetto gradevole, portava l’arguzia spagnoleggiante della sua origine cilena nel demolire con poche battute alcuni acclarati studiosi del nonno. L’ho rivista indirettamente, quando il marito mi aveva invitato a tenere una conferenza sullo zio Stefano Landi nella mitica Casa Pirandello, in via Bosio. Lui era invecchiato in modo sinistro, e mi accennava alla moglie di fatto chiusa in casa, tra accidie e inerzie fisiche ormai trionfanti (sarebbe morta nel 2008, quasi vent’anni dopo il suo grande mentore e amico, e il vedovo sembrava davvero contento del progetto di Milone che gli teneva in vita la donna colla sua ricerca prospettata). In tal modo, Maria Luisa si curvava sempre più sul prototipo materno e poi su quello della nonna, donne perdute dietro uomini, in un processo di identificazione quasi goticheggiante, come in una novella pirandelliana, tra quelle sagomate su Poe e Maupassant.
Immagine di copertina: Andrea Vizzini, Ritratto di Leonardo Sciascia
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