![L’apertura alare della poesia](https://ytali.com/wp-content/uploads/2021/08/separatore-logo.jpg)
Poesia e civiltà, discutiamone.
Convenzionalmente siamo abituati a pensare la poesia come fenomeno letterario, e dunque come prodotto estetico, non come processo estatico, con tutto il piacere, dunque, che vi è connesso, ma in questa sede vorrei proporre di guardare la poesia sotto forma di stato modificato di coscienza, di guardare – più che al suo prodotto finito – alla poiesis ovvero al sottostante processo in divenire della forma – la forma che grazie alla transe o ispirazione poetica si genera in noi.
L’ispirazione (quale fenomeno fisico) o stato di sovratensione psichica, o chiamata su una banda ritmica (spesso dei primi due versi), dà avvio alla visione fino all’esaurirsi della tensione energetica, fino a “un atterrare dal volo”. Se si era stati sordi al corpo (volo come “uscita” dal corpo che non ci fa avvertire più né fame né sete), ora si avverte il ritorno degli stimoli, si rientra nel (-la percezione del) corpo.
Interessante, a questo proposito, il pensiero di Heidegger riguardo alla “frenesia della transe veggente”; egli scrive: «La frenesia della transe veggente non consiste nel fatto che il frenetico si dimena ruotando gli occhi e torcendosi le membra. La frenesia di colui che vede può accompagnarsi alla calma non spettacolare di un corpo raccolto» – che è forse la condizione di transe lucida del/la poeta.
Oltre che della mia esperienza personale, mi sono avvalsa anche del lavoro di Georges Lapassade, etnologo e docente di etnografia presso l’università di Parigi.
Nel suo libro Stati modificati e transe, Lapassade descrive ad es. un caso di transe poetica, come forma di transe estatica, sull’esempio del Cimitero marino di Paul Valéry, così come egli illumina la relazione tra poesia e veggenza propria della cultura araba.
Fra le altre ipotesi suggestive formulate da Lapassade, ho scelto quella che egli definisce la corrente profetica della transe estatica; e per darvene un esempio ho estrapolato alcuni versi tratti dal mio libro di poesia Ishtar dagli occhi colmi (Moretti&Vitali).
Nella poesia che sin dal titolo – Promessa di fine secolo – porta il senso di una profezia, ricorre reiterato il verbo imperfetto – «ero, ero …» – ora va detto che si tratta qui del verbo Giano della profezia, proprio della poesia arcaica, il verbo che pronuncia al tempo passato i presagi futuri
…
portavo un figlio fortissimo
e un’ascia di guerra, portavo la mia terra
gravida a risacca, ero mare di ossa, ero deriva
lapide di morti eretta sulle zattere
ero a salvare popoli ineguali, rupi
ero a presidiare neonati, in salvo da madri
ero la falce che miete la morte Lete la vita a oltranza
ero danza uroborica e madre e padre genealogie utopiche roventi
promessa di fine secolo preghiera sommessa
… (p. 71)
La visione o profezia, che storicamente si è data nel campo delle religioni, ed in particolare è sfociata (in ambito patriarcale) nella profezia cristica, si pone, se considerata sotto il profilo estetico, come forma o genere letterario di «Colei che vede». E infatti gli occhi di Ishtar, Grande Dea della civiltà assiro-babilonese, sono colmi – è detto – di desiderio, di visione, di destino.
Ishtar dagli occhi colmi, definito poema mistico anteriore alla mistica cristiana (dalla postfazione di Rosita Copioli), nasce come visione epocale – o più modestamente come auspicio – che si ripristini l’antico flusso metamorfico del divenire cosmico nel mistero di amore vita morte e rinascita. Se si sarà trattato di mera visionarietà letteraria o di vera e propria profezia per il futuro di una civiltà, è questione che appare troppo in là nel tempo per essere alla nostra portata…
Quel che è certo è che senza una visione epocale, la poesia non fa civiltà, tutt’al più storia prossima, più spesso cronaca. Il/la poeta è medium del suo tempo. È il suo essere vibrante a generare il linguaggio, non la manipolazione dell’oggetto linguistico. Se il/la poeta è interno/a alla tradizione, sostanzialmente è orientato alla conservazione della sua civiltà, la sua poesia sarà in linea con la tradizione letteraria. Se, invece, è a disagio nella civiltà in cui vive, orientato/a alla sua trasformazione, la sua poesia – come recita Ingeborg Bachman – per effetto di un Ruck, di uno smottamento coscienziale, sarà portatrice di un nuovo linguaggio.
«Mutante afferro a ferro e fuoco / per la fanciulla della razza nuova». In questo distico, i trinari del primo verso “sparano”, mentre il secondo verso evoca la visionarietà utopica della fanciulla di Campana. Questi miei versi condensano la mia postura epica, la mia vis trasformativa, in funzione di un’utopia visionaria, quella “fanciulla della razza nuova” mutuata da Viaggio a Montevideo. Di questa postura epico-lirica ho già parlato nell’Introduzione all’antologia da me curata, Nell’oro della quercia (puntoacapo Editrice, 2022), definendola “un’epica gentile”, in cui gli anapesti e i dattili gravemente incedono…
Ho parlato di “epica arcaica” (e più in generale di poetica neoarcaica), perché per uscire da questa nostra mortifera civiltà patriarcale (fondata sullo sfruttamento e sulla guerra), bisogna risalire a 4-5000 anni fa, per scorgerne l’inizio, così da immaginarne la fine. Fino a quell’epoca remota la guerra con i suoi apparati di coercizione non aveva ancora fatto il suo ingresso; si affaccerà solo a partire dall’Età del bronzo e, ancor più veemente, nell’Età del ferro, dando origine all’epica classica.
La patriarcalizzazione spazzerà via gli assetti comunitari, così come i rapporti egualitari tra generi e generazioni. E per un ulteriore approfondimento, rinvio al mio Ritorno alla Dea (Home to the Goddess) (Agorà & Co., 2022), scritto con sguardo Giano, rivolta a un passato arcaico / proiettata in un futuro arcaico – apripista l’opera di Crista Wolf (e non solo).
Ora, in questo mio libro-saggio vi è un capitolo, intitolato: Nuovi paradigmi nella teoria letteraria, perché sono i grandi paradigmi che mi attraggono – quelli che reggono e intridono la civiltà –, è la loro trasformazione che mi appassiona. E lo stesso quotidiano mi interessa, se è cassa di risonanza di una civiltà, tanto più se da esso balugina un occhio di luce nuova. Così come il personale mi riguarda quando affonda le sue radici nei destini della specie, come «una goccia d’acqua contiene tutti i misteri degli oceani» (Kalil Gibran).
La sola letteratura non basta. La civiltà è complessa, e la poesia non può non attingere a una molteplicità di registri e di fonti, a un’interdisciplinarietà del pensiero, di cui la dimensione letteraria è solo una corda al suo strumento. La poesia allora attingerà all’antropologia, all’archeologia, all’arte, alle fonti preverbali, giacché la dimensione immaginale è consustanziale alla lingua poetica. Disseppellirà le varie stratificazioni dei miti succedutesi nel tempo: dal paradigma patriarcale del “Ratto di Kore” s’inabisserà nello strato precedente del paradigma della “Discesa di Inanna” sumera agli Inferi. Dunque, si aprirà un varco nella barriera storiografica e mitologica classica, non per cancellarla (cancel culture), ma per trascenderla in una temporalità più vasta.
Per fare davvero civiltà, la poesia deve possedere questa apertura alare.
Immagine di copertina: foto di Max Harlynking su Unsplash
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