Renzo Guolo, sociologo, docente di Sociologia dell’Islam e Sociologia delle Religioni presso l’Università di Padova, analizza la situazione dell’Iran nel giorno delle esequie di del presidente iraniano Ebrahim Raisi, deceduto con il ministro degli esteri Hossein Amirabdollahian e altri alti funzionari in seguito allo schianto dell’elicottero sul quale viaggiava domenica 19 maggio.
Per i funerali sono giunte a Teheran delegazioni di una quarantina di paesi, tra cui il presidente del parlamento russo Vyacheslav Volodin, il vice premier cinese vice premier Zhang Guoqing, i primi ministri di Iraq e di Armenia Mohammed Shia’ Al Sudani e Nikol Pashinyan, il premier pachistano Shehbaz Sharif, una delegazione talebana guidata dal ministro degli esteri afghano Amir Khan Mutaqqi, il leader di Hamas Ismail Haniyeh e il numero due di Hezbollah, Naim Qassem, il ministri degli esteri saudita Faisal bin Farhan r della UAE Sheikh Abdullah Bin Zayed. Molte figure “controverse”, poche le presenze al massimo livello politico, e in più la marcata assenza di leader e dignitari dei paesi occidentali.
Osserva il professor Guolo:
Il fatto che alle cerimonie funebri manchino molti capi di stato dimostra la situazione difficile dell’Iran nel momento attuale anche se negli ultimi anni il Paese aveva cercato di uscire da questa sorta di trappola dell’isolamento: è chiaro che il conflitto a Gaza e l’essersi schierato con Hamas ha posto l’Iran in una condizione in cui i rapporti internazionali restano ristretti a Cina, Russia e sostanzialmente i Paesi che ruotano attorno a questo blocco. Era quindi prevedibile che non ci fosse un afflusso di capi di Stato da molti paesi se non formali condoglianze.
Quali sono adesso i problemi del Paese sia sul piano interno che internazionale?
Problema vero è che la scomparsa del presidente Raisi è complicata da gestire: inevitabilmente le elezioni sono state convocate dopo cinquanta giorni nonostante la Guida suprema Khamenei avesse formalmente la possibilità di confermare fino alla fine del mandato, cioè il 2025, il vicepresidente Mohammad Mokhber. Fatto che sarebbe stato troppo difficile da digerire, uno strappo in un momento in cui il regime ha bisogno di legittimità e ricorre alla consultazione elettorale anche se, facendolo, si espone al rischio di una notevole astensione.
Le elezioni non sono più una competizione tra fazioni come sono state per lungo tempo nel sistema iraniano: negli ultimi vent’anni il regime ha stretto al punto tale da rendere l’alternativa tra fazioni di fatto impossibile, perché il Consiglio dei Guardiani, che fa capo ai conservatori religiosi come orientamento politico, ha escluso tutti quelli che potevano avere una visione diversa da quella del nocciolo duro del regime. Adesso è obbligatoria una scelta: se mettere in piedi ancora una volta un’elezione senza alternative e del tutto formale (che confermerebbe la chiusura del regime e la delegittimazione rispetto al popolo iraniano) oppure aprire come ciclicamente hanno fatto quando la crisi raggiungeva punti molto intensi e lasciare che un candidato dell’area riformista avanzi, scelta complicata che Khamenei avrebbe evitato volentieri proprio perché ha molte incognite, astensione di massa in primis che dimostrerebbe ancora una volta il non consenso.
Raisi era inoltre il potenziale delfino di Khamenei, lo era nonostante le molte voci che davano Khamenei a indicare il figlio Mojtaba, fattore che avrebbe reso la Repubblica Islamica al pari di una monarchia ereditaria; a tale sbocco si sarebbero opposti i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, che sono diventati il vero architrave del sistema, i custodi armati ma che hanno elaborato sul campo una geopolitica sciita che si proietta verso l’esterno e che esige una contropartita in termini di potere: rappresentano lo spirito della Rivoluzione e non accetterebbero una trasformazione così drastica.
Molto dipende anche dagli equilibri che si formano all’interno dell’intero corpo del potere, che non sono certo slegati dalle dinamiche create in questi anni dalla stessa Guida, anche se, a mio avviso, i pasdaran sono l’ultima carta di riserva della Repubblica Islamica, nel senso che se tutto dovesse precipitare e aumentasse la crisi di consenso nei confronti dei chierici, sarebbero i pasdaran a imporre la trasformazione del regime da carattere religioso a regime politico che farebbe percorrere la strada del nazionalismo farsi, persiano sostanzialmente. Difficilmente accetterebbero di farsi da parte, sono troppo potenti e radicati nel sistema.
In questa situazione si inseriscono le rivolte popolari.
Il limite delle rivolte interne sta proprio nel significato della parola “rivolta”, sono movimenti acefali come “Donna Vita Libertà”, che non hanno una struttura organizzata: lo stesso accadde durante le cosiddette “primavere arabe”, come a piazza Taharir al Cairo, movimenti che si muovono nell’immediato senza avere la capacità di guardare alla scena politica in termini di tenuta, di prospettiva temporale lunga gittata, di capacità e di resistenza. Le convinzioni devono essere ferree per resistere a condizioni e pressioni come galera o rischio della vita.
In Iran questi movimenti, per quanto abbiano messo in crisi il sistema attraverso meccanismi di legittimazione molto forti – l’esempio delle donne che non indossano il velo è abituale per strada a Teheran – restano atti di disubbidienza che non incidono e non producono alternativa politica. Tali movimenti si devono dare un’organizzazione, una leadership che non può essere quella esterna nella figura del figlio dell’ex scià Pahlavi o i mujaheddin, sono reperti storici di un passato che non può tornare: servirebbe un’opposizione interna strutturata che sappia condurre una battaglia politica su lungo termine.
Per adesso sono scomparse di fatto le manifestazioni di piazza, penso che il regime potrà cadere solo per un fatto esterno che accelera la crisi, se la crisi stessa con Israele passasse da una fase non più mimata (gli attacchi reciproci di questi ultimi giorni sono stati di bassa intensità per evitare che il conflitto si allarghi).
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