
Alla luce dei possibili nuovi sviluppi sul caso del delitto di Garlasco, il giudice Stefano Vitelli, oggi alla sezione Riesame del tribunale di Torino, ricorda al Corriere della Sera il contesto in cui si svolse il processo di primo grado ad Alberto Stasi e le motivazioni che portarono all’assoluzione. Sentenza che poi fu ribaltata portando l’ex fidanzato di Chiara Poggi a una condanna di 16 anni. “Non per presunzione, ma il ragionevole dubbio è fondamentale, sia per noi magistrati sia per l’opinione pubblica – spiega Vitelli in merito al primo grado – C’era qualcosa che non tornava, ma al tempo stesso mancava qualcosa che lo incastrasse definitivamente”.
Il giudice ricorda che “a volte le scarpe si sporcavano, altre no” in merito alle perizie che dovevano stabilire se Alberto Stasi fosse stato realmente presente sulla scena del crimine. “Ricordo ancora quando l’ingegnere mi chiamò dicendomi: ‘Dottore, Stasi stava lavorando al computer sulla sua tesi’. Questo significava che l’imputato non solo era al pc, ma stava facendo un lavoro intellettualmente impegnativo, difficilmente compatibile con chi avrebbe appena commesso un omicidio”.
Un altro elemento contraddittorio è il movente: “In un quadro incerto, il movente sarebbe stato un elemento fondamentale, ma qui mancava del tutto”. Stefano Vitelli, poi, ricorda anche la grande attenzione mediatica sul caso: “Dovevo chiudere la porta e il cervello all’esterno, restando impermeabile a qualsiasi influenza. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire che qualcuno mi accusava di essere a favore o contro l’imputato”. Su Andrea Sempio, oggi indagato per concorso in omicidio con Alberto Stasi, essendo quest’ultimo l’unico condannato per il delitto, o persona rimasta ignota, il giudica ricorda: “Mi viene in mente un’informativa di poche righe, in cui risultava un fatto curioso: uno scontrino conservato, quasi come fosse un alibi”. A distanza di anni, Vitelli non si è pentito della sua decisione: “Con gli elementi che avevo allora, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.