In un sistema maggioritario, dove ogni collegio elettorale fa storia a sé, sondaggi che forniscono dati sulle intenzioni di voto a livello nazionale ovviamente raccontano solo parte della storia e non possono essere esattamente predittivi sulla composizione del Parlamento. Tuttavia, alcune indicazioni le forniscono, specialmente se le distanze tra i partiti sono nette. In questo momento le intenzioni di voto per il Regno Unito vedono i laburisti avanti di ben 22 punti percentuali rispetto ai conservatori ora al governo (qui il tracker della BBC, che sarà possibile seguire anche nelle prossime settimane).
Dunque, sembra azzardata la mossa del primo ministro, Rishi Sunak, che a sorpresa ha convocato le elezioni per il prossimo 4 luglio. Fino a pochi giorni fa, infatti, gli osservatori prevedevano che le elezioni (che nel Regno Unito vengono convocate dal primo ministro) avrebbero avuto luogo fra ottobre e novembre, ovvero poco prima della scadenza della legislatura di gennaio 2024.
Data la situazione, tuttavia, questa mossa potrebbe avere un suo senso: infatti da un lato cerca di sfruttare alcuni segnali positivi dell’economia (il Fondo Monetario Internazionale ha appena rivisto in rialzo le previsioni di crescita e l’inflazione è in calo); dall’altro mira a evitare il continuo stillicidio che ha portato all’erosione di consensi per un partito che è al governo da quattordici anni (alcuni dei quali, i primi cinque, in coalizione con i liberal-democratici) e che rischia di peggiorare.
Le ultime tornate elettorali (con sistema maggioritario) hanno confermato – sia a livello di votazioni locali che a livello di suppletive – il trend discendente dei conservatori, ed è sembrata totalmente sproporzionata la celebrazione, fatta dallo stesso primo ministro, della rielezione del sindaco della Tees Valley in mezzo a una lunga serie di sconfitte che hanno caratterizzato le elezioni locali di inizio maggio.
L’annuncio del voto, dato da Sunak il 22 maggio alle 5 di sera, è sembrata la rappresentazione plastica di un governo ormai allo sfascio. Il primo ministro, nel suo consueto abito sartoriale, è uscito dalla porta del numero 10 di Downing Street e si è diretto al podio. Quando ha iniziato a parlare una musica assordante, che proveniva da casse strategicamente piazzate lì vicino da alcuni contestatori, ha sparato ad altissimo volume “Things can only get better”, il brano dei D:Ream che è stato l’inno del New Labour degli anni Novanta (e in particolare della trionfale campagna elettorale di Blair del 1997). Nel frattempo, una pioggia battente si rovesciava sul primo ministro che, dopo un breve discorso di dieci minuti, è rientrato totalmente fradicio. I suoi supporters hanno elogiato il coraggio e la freddezza di un primo ministro che non si faceva scoraggiare dalle circostanze pur di poter mantenere fede alla forma tradizionale degli annunci importanti di Downing Street. La maggior parte delle persone si è tuttavia scatenata nel creare i meme più vari e divertenti: tra questi “Things can only get wetter” (da wet = bagnato) tanto per mutuare la canzone di cui sopra, o “Gone on 4th July” (andato [via] il 4 luglio), riprendendo il titolo “Born on the 4th of July” (“Nato il 4 luglio”) del celebre film di Oliver Stone con Tom Cruise.
L’esito elettorale, dunque, sembrerebbe scontato, e Keir Starmer, leader del partito laburista, parrebbe non trovare ostacoli nel riportare il partito al governo. Pur senza voler prospettare uno scenario alternativo, al momento, impensabile, ci limitiamo qui a proporre alcuni elementi di riflessione.
La prima cosa, come già avevamo scritto in passato, è che Starmer fatica a sfondare fra l’elettorato, nemmeno fra una parte di coloro che sono orientati a votare labour. Di conseguenza ci potrebbero essere elettori di centro-sinistra che potrebbero orientarsi a votare altro, ad esempio il liberal-democratici o i verdi. E in un sistema maggioritario questo potrebbe erodere voti decisivi a livello di quei collegi in cui la maggioranza laburista è più risicata. D’altro canto, questo potrebbe essere compensato dallo spostamento degli elettori di orientamento opposto, che dai conservatori potrebbero spostarsi su voti più radicali, come ad esempio il partito Reform UK fondato a uno dei promotori della Brexit, Nigel Farage.
C’è poi la questione Scozia: tradizionale bacino laburista, negli ultimi dieci anni la Scozia ha visto l’elettorato spostarsi decisamente verso il partito indipendentista, lo Scottish National Party. Nel 2010, sui 59 seggi scozzesi nel parlamento britannico, i laburisti ne avevano conquistati 41 (11 i liberal-democratici, 6 lo SNP e uno i conservatori); nel 2015 solo un seggio è andato ai laburisti (mentre lo SNP ne ha conquistati 56 e uno ciascuno conservatori e liberal-democratici); nel 2017 35 lo SNP, 13 i conservatori, 7 i laburisti e 4 i liberal-democratici; nel 2019, infine, 48 lo SNP, 6 i conservatori, 4 i liberal-democratici e 1 i laburisti. Le recenti elezioni del parlamento scozzese, nel 2021, non hanno mostrato in realtà grandi cambiamenti rispetto a quelle precedenti, con lo SNP che ha conquistato circa la metà dei seggi. Dal 2021, però, tante cose sono successe, e in particolare l’affievolirsi della causa indipendentista anche a causa degli scandali che hanno colpito la leader del partito, Nicola Sturgeon, e la sua famiglia. Sarà quindi importante capire se Starmer riuscirà a ‘riportare a casa’ almeno una parte di questi seggi (si tratta pur sempre di 59 seggi su 650 ovvero il 9,1 per cento dei deputati della Camera dei Comuni). I segnali sembrano incoraggianti, con i laburisti dati ora al 39 per cento e lo SNP al 33 per cento nelle intenzioni di voto.
La campagna elettorale è appena iniziata e solo nelle prossime settimane saremo in grado di capire di più (contrariamente a quanto accade in Italia, nel Regno Unito i sondaggi elettorali possono essere divulgati fino all’ultimo giorno). Intanto però, se una vittoria conservatrice pare esclusa, ancora vari esiti sono possibili, dal trionfo laburista (al momento l’esito più probabile) a una vittoria priva di maggioranza assoluta che quindi determinerebbe un ‘hung Parliament’ (parlamento ‘appeso’) e costringerebbe Starmer a un governo di coalizione.
Ai pochi segnali positivi per i conservatori, di cui si diceva sopra, fanno da contraltare i molti elementi negativi. Nel suo breve (e bagnato) discorso, ad esempio, Sunak ha nominato la lotta all’immigrazione fra gli elementi su cui punterà in campagna elettorale (anche per garantirsi, quanto meno, l’appoggio dell’ala destra del partito). Il governo spera di dare attuazione al criticatissimo piano di deportare in Ruanda i richiedenti asilo, ma ancora è lontano dal portarlo a regime; inoltre i dati di questi giorni mostrano come gli immigrati irregolari che sono giunti nel Regno Unito attraversando la Manica abbiano già superato il numero di diecimila. Anche queste politiche rischiano di essere controproducenti (a fini elettorali), se non attuate.
Certamente, data la situazione, Sunak non rischia la leadership del partito: nessuno vuole sostituirlo per diventare la faccia di quello che si prevede essere un tracollo disastroso. Anzi, ben 78 deputati (fra cui vari notabili del partito) hanno già annunciato che non si ripresenteranno. Fra questi, ad esempio, Michael Gove (alfiere della Brexit e più volte ministro), la cui rielezione era già vista a rischio contro il candidato liberal-democratico, e Andrea Leadsom (giunta seconda nella corsa alla guida del partito nel 2016).
L’articolo L’exit di Rashi Sunak proviene da ytali..