La pittura di Patrizia Pegoraro costruisce un’immagine della realtà in cui aleggiano la sofferenza e il limite che questo impone non tanto al fare, ma all’essere. Lo raccontano i dodici ritratti realizzati dall’artista per il bel calendario 2024 dell’associazione veneziana Hemove, che si occupa di malattie reumatiche e disabilità correlate. I personaggi corrispondono ad altrettanti artisti – sei donne e sei uomini – che hanno avuto affezioni di carattere reumatologico, in prevalenza o, comunque, un qualche problema limitante che non ha impedito loro di vivere una vita artistica di grande spessore e di realizzare opere d’arte di notevole valore. C’è Lavinia Fontana, pittrice del Cinquecento, affetta da artrite, Michelangelo, sofferente di gotta e di seri problemi al ginocchio, Renoir, sofferente di artrite reumatoide, Paul Klee, colpito dalla sclerosi sistemica progressiva, la brasiliana Tarsila do Amaral, tutti colpiti da qualche male che ne limitava le funzioni. I disegni a matita hanno tenerezza espressiva come volessero mettere in risalto la loro condizione umana e senza chiedere una qualche speciale indulgenza, perché lo stato di minorità è assolutamente incompatibile con lo spessore artistico di ognuno di loro. E se l’artista parla di sé è solo per dire chi è, non per chiedere agli altri che gli dicano come è.
È il modo con il quale Patrizia Pegoraro convive con la propria aprassia del linguaggio, è una condizione di vita che la comprende, la realtà nella quale vive, in cui e da cui dialoga con sé e con gli altri, che cerca di definire per sé, di renderla familiare. È il posto nel mondo a lei riservato, esiste, è reale ed è necessario dargli un nome, un segno che lo renda raggiungibile. E se il compito dell’artista è quello di dare visibilità formale alla realtà in cui vive ed è persona, non soltanto biologia, con il ricorso di accenni e riferimenti appropriati, di proporre, eventualmente, suggerimenti anche orientativi, come sostiene Konrad Fiedler, ebbene, questo è il percorso che Patrizia Pegoraro frequenta con un pratica espressiva che raggiunge livelli artistici significativi. L’artista cerca di appropriarsi, di rendere leggibile e familiare ciò che la riguarda, le modalità dell’essere delle cose che definiscono la propria realtà ferita, come detto, dalla sofferenza, anche per dominarla, per renderla parte integrante e dignità del proprio essere.
È appunto quanto fanno le arti e la riflessione filosofica soffermandosi sulla cosa, un albero rigoglioso o affaticato, una piuma che riporta alla leggerezza, un piacere o un’angoscia senza forma e senza nome, come il desiderio o una sensazione, tanto reali, quanto indeterminti e invisibili. L’artista cerca e si cerca con un suono, una parola, un segno, desidera dare consistenza all’ente incerto con cui si trova a convivere, vuole raggiungere la sua natura e in tale slancio compie il gesto per renderla intelligibile. I colori intensi, i tratti molto leggeri ed esili, le figure che sembrano far parte di qualcosa che non è esclusivamente in loro, gli occhi sbarrati dei volti, che caratterizzano la sua pittura, dicono di un’entità misteriosa, in parte minacciosa, ma anche presenza reale, dicono di fragilità, di accettazione, di consustanziale esistenza precaria.
Le linee che danno profilo ai corpi sono fili esili che rimandano ad atmosfere carezzevoli, hanno il tratto deciso della limpidezza e della fragilità dell’essenziale. Le figure proposte da Patrizia Pegoraro sono in prevalenza femminili e sembra che si guardino allo specchio come volessero verificare una loro condizione speciale, – si tratti di una voluminosa capigliatura o di uno sguardo intenso – appurare che tutto è in ordine. Nelle loro pose non appare una qualche ostentazione alla ricerca di un complimento. Tra le figure maschili, mi piace segnalare la grande forza espressiva dell’uomo con il cappello e la barba, per il modo essenziale – il corpo allungato ribadito dalla lunga barba, il volto scarno dominato dal cappello – con cui esprime il vissuto.
Molto interessanti sono la quattordici incisioni della Via Crucis, per la fissità ieratica con cui l’artista propone l’impotenza/limite del Cristo. Tra tutti, sono specialmente significative le immagini della prima stazione dove Cristo appare nel Sinedrio: il suo è l’atteggiamento di colui che vive il proprio destino con la dignità corrispondente; si tratta di un tema ben sviluppato dall’artista anche nella decima stazione dove Cristo viene spogliato dalle vesti per ritrovarsi in una nudità che non mostra vergogna, ma la compostezza di chi è padrone di se stesso anche se le circostanze tendono a negarlo. È quanto ripropone l’ultima stazione della deposizione, dove il garbo della sofferenza segna l’atmosfera anche nel momento più tragico del dolore di coloro che depongono il corpo senza vita di Cristo.
Nell’opera di Patrizia Pegoraro non manca la vitalità del gioco infantile in cui è evidente il senso di tenerezza che caratterizza l’approccio dell’artista con un mondo in formazione.
Volendo guardare la pittura di Patrizia Pegoraro da un altro punto di vista, si potrà trovare in essa l’attenzione sensibile verso la differenza, un desiderio di definire il valore paritetico delle cose proprio perché l’artista ne cerca il senso dall’interno, dalla dignità della loro stessa condizione. Quando il disegno diventa pittura, come accade per le visioni veneziane, il tratto delicato, senza sbavature della matita, diventa macchia, corpo e densità, elemento sacro e perciò intangibile come le linee fragili, come Venezia. La densità è allora il tempo che consegna e concede soltanto un sé che cerca la comunione.
(Giovedì 6 giugno, ore 18,00, Patrizia Pegoraro espone le proprie opere presso lo Spazio Micromega Arte e Cultura, Campo san Maurizio. 2758)
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