Sostenevano i Vangeli che “nessuno è profeta in patria”. Di solito è vero, ma non quando c’è di mezzo un fuoriclasse come Marcelo Vieira da Silva, meglio noto come Marcelo, già funambolico terzino sinistro del Real Madrid plurivincitore di tutto, ora tornato in Brasile nelle file del Fluminense, la società che aveva contribuito a lanciarlo quando era ancora un ragazzo. E così, questo mito senza tempo, dopo aver incantato per tre lustri l’esigente pubblico del Bernabéu, conquistando la bellezza di venticinque trofei, tra cui cinque Champions League, arrivando a superare persino una leggenda come Francisco Gento, ha deciso di abbandonare l’Europa per far ritorno nella terra natia, là dove i sogni e le speranze profumano ancora d’infanzia, d’ignoto e di conquista. Ne aveva abbastanza, evidentemente, di essere un esule di lusso. Voleva regalare alla sua gente la felicità che non aveva mai conosciuto, e neanche a dirlo ci è riuscito. Battendo nella finale di Copa Libertadores il ben più titolato Boca Juniors, il Fluminense si è aggiudicato un titolo che forse, senza di lui, non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare. Non è più un ragazzino, certo, non ha più l’esplosività dei primi anni a Madrid, quel talento cristallino misto a un’impressionante velocità d’esecuzione che gli aveva consegnato l’eredità di Roberto Carlos, d’accordo, non può chiedere ancora molto a una carriera già straordinaria, tutto quel che volete; fatto sta che, ovunque vada, il nostro miete successi. Del resto, non c’è da sorprendersi se ha vinto così tanto: basta osservare la gioia con cui tuttora scende in campo, la determinazione che mette in ogni partita, il sostegno psicologico che fornisce ai compagni, la dedizione alla causa che lo caratterizza e il desiderio di spingersi sempre al di là dei propri limiti per rendersi conto che stiamo parlando di una leggenda. E pensare che qualcuno ha avuto persino il coraggio di accusarlo di non saper difendere con la stessa classe con cui attacca, come se una carriera esemplare non fosse sufficiente a mettere a tacere critiche maligne e voci per lo più animate dall’invidia.
È simpatico, invece, il paragone con Garibaldi, l’eroe dei due mondi, capace di battersi per la libertà di tutti i popoli della Terra senza distinzioni. La differenza fra il combattente nizzardo e il terzino carioca è che quest’ultimo non ha ancora deciso di ritirarsi in una qualche Caprera, non ha ancora scelto di abbandonare la lotta, non ha ancora avvertito quel bisogno di quiete che, prima o poi, lo assalirà. E quando accadrà, se un po’ lo conosciamo, sara il primo a dire basta e a regalare un sorriso e un’esibizione d’addio degna della sua grandezza ai milioni di tifosi che l’hanno applaudito in ogni stadio, lasciandosi rapire dalla potenza fisica, dalla corsa e dalle giocate di un personaggio che ha coniugato alla perfezione le necessità tattiche dei suoi esigenti allenatori con lo spettacolo che è doveroso concedere in quest’epoca di social, Play Station e altre diavolerie.
Raramente abbiamo assistito a un personaggio più moderno, dinamico, coraggioso, a tratti addirittura folle, capace di combattere senza darsi pace e di avanzare a testa alta anche nei momenti difficili, di non lasciarsi andare quando le cose andavano male, di rado ma è successo anche a lui, e di non esaltarsi quando saliva sul tetto del mondo, cosa che gli è capitata più volte con indosso la maglia più prestigiosa che esista.
A fine carriera non ha scelto qualche paradiso dorato ma insignificante; ha preferito, invece, l’amato tricolore che lo aveva lanciato, il ritorno alle origini, la fanciullezza vista con gli occhi della maturità, un omaggio insolito alla meraviglia del calcio e dello sport. Marcelo, d’altronde, è fatto così: è un lirico, un romantico, un sognatore in grado di coltivare ideali ormai desueti e passioni che altri considerano inutili. Non è mai stato un mercenario, non ha mai anteposto il guadagno alla sana competizione, non si è lasciato cambiare da un tempo spesso amorale e privo di dignità, non si è arreso all’orrore. Non a caso, uno degli allenatori con cui ha coltivato un rapporto speciale è stato Ancelotti, col quale sorrideva in panchina anche le tante volte che nell’ultimo periodo madrileno non giocava. Perché, in fondo, non contano solo le azioni, le giocate, i trionfi e gli attimi di gloria; contano anche, se non soprattutto, l’anima, la gentilezza, il crederci sempre e il non arrendersi mai. In questo, Marcelo costituisce una figura esemplare. Ha compiuto al contrario il percorso degli antichi “conquistadores”, venendo a dominare in Europa per poi tornarsene a casa con la serenità necessaria per alzare al cielo una coppa che non si limita ad arricchire la sua impressionante bacheca ma rende davvero felice e appagato il bambino che fu. Tutto il resto, a cominciare dalla magia che ci ha donato senza mai risparmiarsi, viene dopo. Prima viene l’uomo, e Marcelo lo è.
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