Michele Bellini, Salviamo l’Europa. Otto parole per riscrivere il futuro, Marietti 1820, Bologna, 2024.
Salviamo l’Europa. Questo indirizzo politico dà il titolo ad un recente saggio scritto da un giovane dirigente del Partito Democratico italiano, Michele Bellini, responsabile politica estera del PD della Lombardia ed ex assistente di Enrico Letta quando era segretario nazionale. Si tratta di un testo serio che affianca ad una riflessione sulla politica (Politics) anche una sulle politiche (Policies). Questa attenzione alle politiche – scritto per inciso – è da reputarsi molto positivamente in un contesto dove spesso ci si dimentica della scienza delle politiche per rimanere attestati ad una analisi politologica tradizionale confinata ai sistemi istituzionali o elettorali. La trattazione segue un ordine organizzato attorno a dei termini chiave. Quattro parole (Geopolitica, Allargamento, Sovranità, Democrazia) per la politica e quattro parole per le politiche (Sostenibilità, Immigrazione, Convergenza, Tecnologia).
Vorrei seguire da vicino la trattazione di Bellini, per discostarmene con osservazioni, appunti e riflessioni indotte, utilizzandola come strumento per far risuonare pensieri sedimentati o analisi abbozzate che spesso sono il lascito di una memoria che si occupa di politica, sebbene non in maniera totalizzante come si dovrebbe.
Parto dal primo termine, geopolitica. Geopolitica è una parola che è già dentro una logica di competizione? Indubbiamente utilizzare questo termine induce a pensare al quadro concettuale e di pensiero da cui è sorta, un quadro di trappola tucididea che impegnava la Germania come sfidante di un ordine internazionale da mettere in discussione, un termine da età degli imperi, da imperialismo desiderato e praticato. E tuttavia se ciò può non convincerci perché ci obbligherebbe a pensare dentro uno schema competitivo, indubbiamente ha il merito di mettere in evidenza la condizione che oggi in qualche maniera viene indicata dagli studi di politica internazionale. Ad esempio in un testo analitico sull’Africa uscito recentemente, l’Africa geopolitica di Giovanni Faleg, emerge chiaramente la nuova condizione internazionale multipolare per la quale la tradizionale corsa all’Africa mette in evidenza un Occidente sempre meno egemone e comunque non più dominus incontrastato, ma anzi in difficoltà per l’emergere di altri attori politici a tutto campo, in primis la Cina, ma non solo. Pertanto si potrebbe dire che l’utilizzo di questo termine sia un indizio di approccio realistico alla politica e alle relazioni internazionali. Sintomatico a tale livello un giudizio un po’ unilaterale, forse, su Kant. Il filosofo tedesco è considerato un utopista, ma in realtà leggendo attentamente gli scritti di filosofia della storia e Per la pace perpetua il filosofo di Königsberg propone una filosofia della storia più complessa e più concreta di quello che sembra.
Certamente potrebbe essere visto come un esponente dei sostenitori della visione irenica dell’interdipendenza economica e del commercio, ma in realtà riesce a pensare il conflitto sotto una luce che permette una prospettiva d’azione pratica e sostiene la pratica razionale per superare la situazione di conflitto e di competizione distruttiva. Non solo, bene o male, fornisce una interpretazione della storia che permette esattamente uno spazio maggiore per una società civile mondiale che possa rappresentare un attore critico e pratico contro la dinamica di potenza degli Stati. Non è la sede per sviluppare qui una considerazione sul pensiero di Kant approfondita ma indubbiamente l’utopismo kantiano è uno strumento ancora rilevante e fecondo da utilizzare.
Fatto questo appunto su Kant, e ritornando sui punti rilevanti della trattazione della geopolitica, possiamo segnalare come emerga a questo livello il problema dell’assenza per la UE di una politica strategica all’altezza della situazione, ossia adeguata per un attore globale. Gli Usa hanno una strategia della sicurezza, mentre la UE no, e per questo Bellini indica con forza almeno tre obiettivi da perseguire: 1) servirebbe per l’Europa istituzionalizzare l’unità dell’Europa; 2) servirebbe un esercito comune europeo; 3) servirebbe una politica che operi per la sicurezza economica, in analogia con quella USA (analogia o in stretto e coordinato collegamento?). Il problema è la fase multipolare competitiva, in cui emerge la questione della sfida tucididea e della bipolarizzazione sullo sfondo tra USA e Cina, su cui un testo da consigliare sarebbe indubbiamente quello di Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide? Per l’Europa sarebbe l’ora di un forte cambiamento di fase, ossia, seguendo l’esempio e la politica statunitense si dovrebbe operare per una uscita dal rischio di dipendere tecnologicamente in rapporto a determinate filiere produttive e industriali dalla Cina o da altri paesi, non in linea con i valori occidentali. Insomma la lettura che si propone potrebbe intendersi in ordine a differenti schemi interpretativi come il superamento della globalizzazione in chiave di crescita competitiva di poli politico-culturali-industriali o come il riproporsi più consapevole di un imperialismo che percepisce lo scontro con i nuovi imperialismi. In ogni caso in questa fase politica non è sufficiente proporre una logica puramente economica, di tutela e promozione del libero mercato o del mercato e dell’integrazione economica mondiale.
Ora il termine che segue a “Geopolitica” è “Allargamento”, un termine che potrebbe perfino essere collegato, in maniera non poco sinistra, alla nozione tipica della geopolitica di matrice tedesca – quando fu proposta come disciplina specifica – di “spazio vitale”. Ovviamente non è questo l’approccio, ma se consideriamo i punti di attrito geografici con altri attori politici internazionali e i conflitti oggi in atto si potrebbe certo mettere in relazione allargamento e spazio vitale. Sull’allargamento l’autore tematizza la possibilità e la necessità, anche a partire dai differenti e tortuosi, a volte, processi in corso, di valorizzare se non percorsi di entrata nell’Unione europea, almeno procedure differenziate di collegamento e avvicinamento. Insomma si tratta di favorire una sorta di crescita di un campo gravitazionale con cerchi concentrici di relazione e vicinanza e coinvolgimento regionale, tali da far sì che appunto il centro sia l’Unione europea. Per tale ragione si valorizzano forme anche progressive e flessibili di avvicinamento e di gestione delle relazioni più strette, e questo, credo, potrebbe perfino rendere attuale e auspicabile cooperazioni rafforzate all’interno della UE: insomma si tratterebbe di valorizzare praticamente le molteplici forme di integrazione differenziata possibili in rapporto alla UE, anche ad esempio mediante lo strumento della Comunità politica europea (CPE).
Questo tipo di approccio, di un federalismo flessibile e variabile, graduale, secondo l’autore comunque dovrebbe prevedere una governance legata ai valori e un allargamento che si fa in termini veri e propri però commisurato a riforme che rafforzino il nucleo della UE: questa discussione sulle forme di allargamento mette in campo ovviamente la natura di corpo politico sui generis della UE. Da questo punto di vista il passaggio centrale che Bellini opera è quello di trattare il tema della sovranità, tema classico della statualità e della sua crisi. Anticipo, rispetto alla trattazione sulla sovranità, che probabilmente però la questione europea può essere non solo considerata, come lo si fa, in termini di valorizzazione, ma anche, piuttosto, con il misurarsi di un limite, ossia in questo momento la mancanza di una eticità comune – per dirla hegelianamente. Insomma si tratta di un corpo politico che può definirsi uno “Stato”, oppure di un organismo politico-amministrativo privo di una intima identificazione da parte dei propri cittadini (e qui uso il senso di Stato e di eticità in termini idealistici)? La risposta sembra facile a prima vista, e cioè no, ma è anche vero che l’eticità che sorregge la UE è una eticità più ampia e già in parte molto consolidata in termini di valori e cultura occidentale comune. Insomma si potrebbe dire che al fondo del nostro “io” vi sia un “noi” occidentale (neoidealisticamente). Paradossalmente in questo senso ciò che sarebbe avanzato in termini di maturazione nelle coscienze individuali dei cittadini d’Occidente non lo sarebbe a sufficienza nelle forme politiche. Una tesi questa su cui riflettere e discutere e che potrebbe però, almeno in parte, essere smentita dai prossimi risultati elettorali delle elezioni europee alle porte. D’altro canto la polity, ossia la cittadinanza attiva politicamente, nelle moderne democrazia liberale, o poliarchie, è per sua definizione pluralistica e attraversata da divisioni e conflitto.
Non è quindi un caso che Bellini prosegua nella sua analisi affrontando il termine di Sovranità. Su questo punto l’autore sviluppa alcune osservazioni: la prima legata alla differenza tra libertà negativa e libertà positiva, laddove la prima esprimerebbe la logica del sovranismo, una sorta di libertà amputata, non costruttiva, in definitiva non effettuale. La discussione su libertà positiva o negativa ci condurrebbe lontano, ad esempio porterebbe a discutere Constant e la differenza tra antichi e moderni, oppure la logica controdemocratica recentemente proposta, come schema teorico, da Rosanvallon. Questioni che non sembrano sedimentate nell’analisi di Bellini, molto rilevanti e complesse, ma in ogni caso per seguire la logica del discorso di Bellini è evidente che il sovranismo sarebbe una forma di autolimitazione della concreta libertà (ancora sullo sfondo si potrebbe evocare l’eticità statuale come forma più avanzata dell’eticità della società civile). Bellini accettando il punto di riferimento del soggetto valutante e calcolante, secondo una logica economica, introduce come suggerimento l’utilizzo di uno strumento analitico in grado di sorreggere le ragioni di una reale valutazione di una vera e concreta sovranità. Per questo la proposta è quella di operare un’analisi trade-off (una sorta di sviluppo della tesi funzionalista che diede origine alla Ceca) dei pro e i contra garantita da una parvente – a questo punto – cessione di sovranità, al tagico (ironico) prezzo di acquistare nei fatti una maggiore sovranità, ossia una minore dipendenza da altri soggetti politici. Questo criterio fornisce le argomentazioni difensive, le retoriche, ma soprattutto le analisi che superano un europeismo acritico che rischia di essere indifeso rispetto alla retorica sovranista. L’interesse nazionale italiano coincide con la difesa della prospettiva europea, e con il suo miglioramento. È evidente che questa proposta teorica ha la qualità di essere realistica e di condurre su un piano di analisi e tuttavia allo stesso tempo, rimanendo dentro questo criterio, è impossibile fare il salto “nell’eticità” necessaria all’Europa. È un criterio intimamente utilitaristico e quindi pericolosamente intergovernativo, tuttavia, va ripetuto, “realistico” e “difensivo”.
La parla chiave che successivamente è discussa è “Democrazia”: l’Europa non è una democrazia, ma pone il problema di un corpo politico democratico sui generis. L’architettura istituzionale è complessa e mette in evidenza come un problema centrale lo squilibrio e l’asimmetria tra parlamento e Consiglio della UE. Il terreno della questione europea aprirebbe indubbiamente l’occasione per riflettere sulla democrazia, su nuove forme di democrazia federalistica, sullo stesso federalismo, in un’età che è stata anche per un periodo definita come un’epoca della crisi o della fine dello Stato. Penso qui non soltanto agli studi di Rosanvallon sulla “Controdemocrazia” e le forme democratiche di governo, ma anche alle riflessioni del Gruppo di ricerca sui concetti politici nato a Padova sotto la guida di Giuseppe Duso. Per rimanere però al testo in esame, l’ultimo paragrafo dedicato a questo concetto chiave di democrazia è interessante laddove descrive una prospettiva di democrazia orizzontale e innovativa come futuro per l’Europa, mettendo in campo delle proposte specifiche. Ci sono quattro proposte: 1) l’istituzione di referendum consultivi; 2) l’indizione di primarie tra i patiti per designare il front runner del proprio gruppo politico; 3) l’ampliamento del peso del Parlamento europeo; 4) nuove forme di coinvolgimento per riempire di partecipazione il tempo che trascorre tra una elezione europea e l’altra. L’esempio è quello della “Conferenza sul futuro dell’Europa”. Sulla scorta della mia breve ma non brevissima esperienza di studio e ricerca nel campo delle forme di democrazia deliberativa e partecipativa sarebbero molti gli strumenti potenziali per animare in maniera strutturale sia un ascolto attivo sia uno spazio deliberativo di proposta e intervento dal basso (si pensi alle cellule di pianificazione, alle giurie dei cittadini, appunto alle conferenze sul futuro ecc.). Rimando ad una mia ricerca del passato: Politiche di partecipazione. Dalla filosofia politica alla scienza delle politiche: politiche deliberative, partecipative e di rendicontazione, Cleup, Padova 2012. Qule che si potrebbe osservare in relazione a questa prospettiva è che vi è uno spazio ancora molto ampio da colmare per promuovere e favorire la nascita di soggetti politici e non solo di scala europea, insomma sarebbe fondamentale costruire soggetti politici tout court europei.
Dopo la parte sulle parole della politica che, in termini illuminanti, si conclude necessariamente con un salto verso le politiche per poter determinare le riforme necessarie all’Europa, si affrontano le quattro parole chiave delle politiche. La prima delle politiche è quella relativa alla “Sostenibilità”: “il peccato originale del Green Deal è stato sottovalutare l’importanza del nesso tra protezione ambientale e giustizia sociale” (p. 160). Bellini va al cuore dell’obiezione crescente oggi in Europa contro il Green Deal, strumentalizzata dai partiti sovranisti e dell’estrema destra. Coinvolgimento e partecipazione sono imprescindibili, direi in altri termini che non solo gli strumenti della governamentalità ma anche quelli del pastorato (qui utilizzo delle categorie di Foucault) sono da mettere in campo per questa transizione. È importante valorizzare la consapevolezza che anche in queste politiche sarebbe necessario un mutamento di paradigma, servirebbe un approccio che abbandoni la logica del mercato libero, servirebbe una logica di politica industriale che non rinunci ad il controllo delle filiere industriali che sono strategiche e fondamentali. Da questo punto di vista l’Europa come mercato e non come attore politico è il bias principale della UE. Vi è il tema, posto da Bellini, sulla scia di un saggio di C. Ciaccardi e M. Magatti, Supersocietà, che al sottoscritto evoca Hans Jonas in Prinzip Verantwortung, se nella nuova società non vi possa essere una risposta più efficiente da parte di meccanismi di verticalizzazione del potere tali da mettere a rischio la democrazia liberale. In effetti la gestione di una transizione ecologica, in condizioni di emergenza, induce a riflettere sulla necessità di un governo forte e sorretto da una profonda identificazione sociale e solidarietà civile. Ritorna quindi la sfida di una eticità pubblica continentale all’altezza delle sfide dei tempi. Una sfida che aggrava il rischio di una impotenza della democrazia liberale sarebbe infatti oltre a quella della sostenibilità anche quella dell’immigrazione.
Sulle politiche dell’immigrazione non si può infatti che constatare un fallimento: prevale in forma più o meno moderato la logica della Fortezza Europa, logica sulla quale non possono che prendere un vantaggio strategico i sovranisti, ma questo approccio non può che essere dannoso per la UE: per ragioni demografiche ed economiche evidenti a tutti gli esseri razionali e ragionevoli. Si propone qui la logica di Fratelli tutti di Papa Francesco. Serve una politica della fraternità. Bellini, richiamando anche Carlo Maria Martini, pone la questione della costruzione di un consenso per intersezione che dia una comunanza di valori e un perimetro di condivisione ad una società sempre più differenziata e articolata – una sfida ma anche un realtà effettuale tipica delle società pluralistiche democratiche (si pensi alle ultime riflessioni di John Rawls in Liberalismo politico). In questa fase di passaggio e di costruzione di una nuova società mi viene da pensare che la Chiesa cattolica possa essere una risorsa fondamentale per i suoi rapporti con l’Africa e la sua presenza “etica” nel paese (seppure declinata e declinante).
Un’altra politica rilevante è quella della coesione interna della UE, ossia quella della “Convergenza”: anche in questa dimensione politica (o meglio di politiche) servirebbe un cambio di passo, come peraltro la pandemia ha dimostrato. Serve una politica industriale della UE. “Il futuro dell’eurozona … si gioca sulla capacità di trovare una nuova sintesi tra stato e mercato, continuando a perseguire la solidità dei conti, ma senza sacrificare la necessità di investimenti pubblici e interventi in caso di crisi” (p. 205). Bisognerebbe uscire da una impostazione neoliberale e ordoliberale germanica. In quest’ottica Bellini riprende Mario Draghi: “La spesa e l’indebitamento federali condurrebbero a una efficienza maggiore e a uno spazio fiscale maggiore, perché i costi aggregati di indebitamento sarebbero inferiori. Le politiche fiscali nazionali potrebbero a quel punto essere più mirate, concentrarsi sulla riduzione del debito e sulla costituzione di riserve per i tempi peggiori” (parole di Mario Draghi citate a pp. 205-206). Da questo punto di vista il nuovo patto di stabilità ha segnato una inversione negativa rispetto all’apprendimento istituzionale della fase del lockdown e indubbiamente si tratta di un riforma che non sorride all’Italia. Certamente però il problema della convergenza non è solo un problema di impostazione europea, ma anche e soprattutto di modernizzazione della qualità del governo, del sistema giudiziario, dell’ecosistema normativo, delle strutture di vigilanza ecc. Su questi aspetti l’Italia sconta una arretratezza. Tornando però al livello europeo, è importante sottolineare che servirebbe sviluppare sempre di più la dimensione sociale dell’Europa, insomma più Delors e meno Thatcher. Si tratta di sostenere politiche per una economia sociale di mercato. Per questo è da ritenere importante la direttiva sul salario minimo ed il riconoscimento della contrattazione collettiva. La qualità della democrazia si misura anche attraverso la sua dimensione sociale. Se pensiamo all’indebolimento della democrazia liberale è evidente che vi è un nesso anche con la questione sociale, sebbene non vada sottovalutata la questione non solo cognitiva, ma a questo punto etica, nel senso di una nuova eticità pubblica da conquistare e promuovere.
L’ultima politica richiamata all’attenzione del lettore, ma non certo quella meno importante è quella relativa alla “Tecnologia”, in un contesto peraltro di guerra tecnologica tra USA e Cina. E la UE? Molto attenta e avanzata nella regolazione rischia però di perdere terreno sull’industria e sulla tecnologia. C’è sia un tema di sovranità tecnologica, ma c’è anche un tema di regolazione di una tecnologia che può incidere sulla democrazia – si pensi alla questione della gestione dei dati (la tecnologia può essere infatti sia un mezzo per stabilire nuovi modelli di potere, sia intrinsecamente politica dal momento che richiede che gli esperti per gestirla abbiano posizioni di potere politico). Vi sono rischi, ma anche opportunità di empowerment democratico. Vi è comunque un problema di rapporto con il potere tecnologico, di dominio sulla tecnica: le parole e le indicazioni di Romano Guardini che Bellini, rivelando ancora una volta il suo background cattolico, fa proprie sull’Europa e le sue peculiarità culturali in questo senso sono molto interessanti e vale la pena richiamarle del tutto: “Non sbaglio certo se penso che all’Europa autentica è estraneo l’ottimismo assoluto, la fede nel progresso universale e necessario. I valori del passato sono ancora in essa così viventi che le permettono di sentire che cosa sta in gioco. Essa ha già visto rovinare tanto di irrecuperabile; è stata colpevole di tante lunghe guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma anche il rischio, anzi la tragedia dell’umana esistenza. Nella sua coscienza c’è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il fuoco dall’Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede né a garanzie per il cammino della storia, né a utopie sull’universale felicità del mondo. Essa ne sa troppo”. Si tratta di un passo tratto da Europa. Realtà e compito, discorso fatto dal teologo italo-tedesco in occasione nel 1962 del conferimento del Premio Erasmus. L’Europa con la sua cultura, con i suoi apprendimenti, la vecchia Europa, o l’antica Europa, la matura Europa può dare un contributo importante in questa fase di crisi e di passaggio di epoca, e lo può fare a favore di tutto il mondo. Guardini nella stessa conferenza suggerisce che questa consapevolezza nella gestione del nuova potenza della tecnica – ma attenzione la tentazione nazionalistica non è affatto morta, e nemmeno quella imperialistica – possa essere anche affiancata da un compito di costruzione di una intercultura europea, promuovendo una cultura dell’empatia e della conoscenza delle culture dei popoli europei in una dimensione di inter-relazione e considerazione correlata. Si tratta quindi di promuovere un lavoro di traduzione e considerazione sinottica dei differenti punti di vista culturali. Un fatto, questo, sempre più a portata di mano e sostenuto anche da quella cultura comune che sopra abbiamo sottolineato, ma che allo stesso tempo va curato e protetto dai rischi connessi alle forme di pregiudizio e di stereotipo o di fraintendimento che possono essere alimentate da una cattiva opinione pubblica. D’altro canto allenarsi a questo esercizio significa anche poterlo fare in una dimensione protesa verso tutto il mondo. I processi di unificazione mondiali hanno bisogno di consolidamenti regionali ma in linea di principio possono estendersi in maniera globale, senza necessariamente perdere la ricchezza culturale prodotta dal genere umano. È chiaro che vi sono poi – dal punto di vista dei criteri di selezione dei repertori culturali maggiormente adattivi ed efficaci – dei problemi comuni globali che possono indubbiamente fornire il “non-io” ineludibile in grado di produrre la grande unificazione di un noi che va oltre l’Europa. Sono fatti, problemi e compiti. E finché il genere umano avrà la capacità di usare la propria intelligenza collettiva con sufficiente lucidità la speranza avrà diritto di parola e potenza di ispirazione. E allora verrebbe da dirsi che non si tratta solo di salvare l’Europa.
L’articolo L’Europa, la salvi chi può. Noi proviene da ytali..