D’accordo, è solo la prima partita e bisogna andarci con i piedi di piombo. Daccordo, la Scozia non ci ha dato l’idea di essere una nazionale irresistibile, al punto che in alcuni tratti della gara inaugurale di Euro 2024 ci siamo addirittura domandati se gli scozzesi avessero capito che fossero iniziati gli Europei. D’accordo, eravamo a Monaco di Baviera, nello stadio del Bayern, ossia in un catino infuocato e pensato apposta per incutere timore agli avversari, specie quando a esibirsi, con la maglia dei bavaresi o con la mitica Mannschaft, sono gli idoli di casa. Tutto quel che volete, fatto sta che i tedeschi, all’esordio, hanno rifilato un 5 a 1 ai mal capitati avversari, lanciandosi verso la conquista di un girone composto anche da Ungheria e Svizzera. Non solo: dimenticatevi i “panzer” che hanno caratterizzato la vicenda calcistica tedesca nel Novecento.
Non sono più i tempi di Rahn, Beckenbauer, Müller, Matthäus e altri fuoriclasse che hanno illuminato i vari trionfi di una compagine in grado di conquistare quattro Mondiali e tre Europei. La Germania odierna è multiculturale e multietnica, ha i volti sorridenti dei suoi 2003, i Musiala e i Wirtz, può contare in difesa su una roccia come Rüdiger e a centrocampo sul magistero del professor Kroos, giunto all’ultima competizione della sua inimitabile carriera, e sulla classe di figli del meticciato come Gündogan ed Emre Can, la cui origine turca è più che evidente. Niente arianesimo, dunque, niente capelli biondi e occhi azzurri, niente pangermanesimo e folli teorie su una presunta superiorità razziale; la squadra allenata di Julian Nagelsmann è l’emblema del melting pot, dell’incontro fra culture, dell’Europa come dovrebbe essere e purtroppo non è, a causa dell’ottusità di una classe dirigente che si commenta da sola. Poi c’è la cabala. E questa ci dice che quando un anno termina col 4, la Germania ha serie probabilità di arrivare fino in fondo. Era, infatti, il 1954 quando la formazione allenata da Sepp Herberger e guidata in campo dal capitano Fritz Walter, si impose in rimonta per 3 a 2 sulla Grande Ungheria di Puskás e compagni, allenata da Gusztáv Sebes, al termine di una partita gravata dal sospetto, mai chiarito, del doping, acuito dalla misteriosa epatite che, nei mesi successivi, colpì quasi tutti i giocatori tedeschi.
Quella di Berna fu l’ultima recita dell’Aranycsapat, prima dell’ingresso dei carri armati sovietici nell’autunno del ’56. Fu il mesto crepuscolo di una Nazionale che aveva incantato il mondo, travolto gli Azzurri all’Olimpico nella partita inaugurale dello stadio, umiliato gli inglesi a Wembley e stravinto, pochi mesi dopo, in quella che sarebbe dovuta essere la rivincita dei presuntuosi “Maestri” e invece si rivelò la loro disfatta definitiva, alla vigilia di una Coppa del Mondo che nel ’54, come detto, si disputava in Svizzera e si concluse con l’insperata vittoria della Germania Ovest, sette anni prima che venisse eretto il Muro di Berlino.
Tutt’altra storia nel ’74, quando il Muro esisteva già da tredici anni e i tedeschi dell’Est, nella prima fase a gironi, si erano concessi il lusso di battere i fuoriclasse dell’Ovest grazie a un gol di Sparwasser. Fu un successo simbolico ma dall’incredibile valore storico, la cui importanza si comprende solo nel momento in cui un bambino ci domanda per quale motivo le due Germanie non giocassero insieme. Eppure, anche quell’anno i favoriti erano altri. Il ’74, infatti, era l’anno dell’Olanda di Michels e Cruijff, del calcio totale e della rivoluzione dei tulipani, che si portavano mogli e compagne in ritiro e violavano tabù che fino a quel momento nessuno aveva osato mettere in discussione. Tifavamo Olanda con tutto il cuore, avremmo tanto voluto veder trionfare quella macchina perfetta. E invece, ancora una volta, furono Beckenbauer e compagni ad alzare la Coppa al cielo, grazie alla rimonta in finale firmata Breitner, il comunista del Bayern, innamorato di Mao e di Che Guevara e per nulla incline ad abbracciare il conservatorismo tipico della ricca Baviera, e Müller, attaccante implacabile e autentico incubo per chiunque fosse chiamato a marcarlo. In quell’estate di mezzo secolo fa, non ebbe la meglio la Nazionale più bella ma quella piu solida, quella che seppe crederci fino in fondo e non si lasciò stordire dal vantaggio iniziale degli Orange (Neeskens su rigore). Cruijff ha vinto tanto, quasi tutto, ma gli è mancato il Mondiale: nel ’74 perché l’Olanda fu troppo cicala e nel ’78 perché nell’Argentina di Videla preferì non andare.
Infine, il 2014. Era la Germania di Angela Merkel e del c.t. Löw, solida e a tratti spettacolare, con il portiere Neuer che talvolta si travestiva da libero, l’ultimo, mirabile Klose e un attaccante di ventidue anni, tal Mario Götze, che al centododicesimo minuto di una finale senza sussulti regalò ai tedeschi un successo sostanzialmente meritato, a dimostrazione del fatto che per vincere non bastino la classe e le grandi giocate ma serva anche la tenuta mentale e una discreta solidità del gruppo.
Sono trascorsi dieci anni. I bambini di allora sono i campioni di oggi, i simboli di una Germania forte delle sue diversità e unita intorno allo stesso obiettivo. Basterà per conquistare un trofeo che manca in bacheca da ventotto anni? Staremo a vedere. Questo, però, è un anno che finisce per 4: Francia e Inghilterra sono avvisate.
ytali non è solo una rivista online, è anche libri. Come Sognare ancora. Ritratti di calcio e di sport di Roberto Bertoni. Clicca QUI per acquistarlo. Buona lettura.
L’articolo La Germania e la regola del 4 proviene da ytali..