1. Il diritto dei morti
È da mesi che sto cercando di orientarmi tra libri, articoli e interventi che diano un senso agli sviluppi della guerra tra Israele e Gaza. Non sono un esperto del Medio Oriente, anche se temo che davanti a ciò che sta accadendo in quel fazzoletto di terra non so più chi possa definirsi esperto. Il mio punto di osservazione sono gli Stati Uniti e le loro università. È ancora difficile prevedere fino a che punto la guerra in corso inciderà sulle elezioni presidenziali di novembre. Gli animi sono divisi anche tra coloro che hanno sempre sostenuto Israele, mentre le proteste in favore di Gaza nei campus universitari, affievolitesi al termine del semestre primaverile, probabilmente ricominceranno in occasione della Convention democratica di Chicago del 19-22 agosto. Si discute di diritti umani e di valori universali, ma mai come in questo caso bisogna chiedersi se queste espressioni abbiano ancora un senso.
Zadie Smith, in un articolo intitolato Shibboleth, apparso sul New Yorker del 5 maggio 2024, si è posta la stessa domanda. La conclusione non mi ha convinto fino in fondo, il che non significa che io possa dare una risposta migliore della sua. Cercherò, per cominciare, di riassumere la sua argomentazione.
Per prima cosa, sostiene Zadie Smith, c’è il dovere etico di esprimere solidarietà con i deboli in ogni situazione che coinvolga un potere oppressivo. Ma chi è il debole? Colui che ha meno potere o colui che soffre maggiormente? O una combinazione dei due casi?
Nei campus americani, e non solo, si è creato un problema di disequilibrio tra differenti forme di debolezza. Il principio secondo il quale le università devono essere degli “spazi sicuri” (safe spaces) per tutti gli studenti è stato messo seriamente in discussione. Uno studente ebreo non può sentirsi sicuro mentre attraversa una tendopoli di altri studenti che gli gridano sionista o nazista. Non importa quale sia la sua posizione politica o morale, perché è del principio della “sicurezza universale” che stiamo discutendo. In quella particolare situazione, chi è il più debole? Ma allora la vera domanda è se l’etica del movimento contro la guerra a Gaza abbia un fondamento universalistico oppure se sia contingente. E l’etica dello “spazio sicuro” è a sua volta universale, oppure è legittimo che ad alcuni non venga riconosciuto il diritto di sentirsi al sicuro? Strappare dai muri le fotografie degli ostaggi israeliani, come è accaduto in America e altrove (e nessuno è più debole di un ostaggio), di sicuro non allarga la “zona etica di interesse”, come la chiama Zadie Smith (e mi sento di aggiungere che le fotografie sono state rimosse dalle stesse persone che considererebbero disumano chiunque strappasse la foto di un cane che si è perso).
E d’altra parte, sostiene Smith, gli studenti si sono dimostrati più razionali dei loro governanti, negli Stati Uniti come altrove. Che cosa c’è infatti di più sensato? Chiedere il cessate il fuoco immediato oppure indulgere nel pensiero magico di chi parla di bombardamenti chirurgici, operazioni militari controllate, vittoria totale o soluzioni diplomatiche sempre dietro l’angolo?
Ma non si può mantenere una prospettiva etica se per accedere al dibattito sono necessari degli shibboleth, se insomma per poter essere ascoltati bisogna utilizzare formule come: dal fiume al mare, minaccia esistenziale, diritto alla difesa, uno stato, due stati, decolonizzazione, sionismo, colonialismo, imperialismo, razzismo, terrorismo. Con le parole d’ordine non si fa etica; si giustifica qualunque cosa, da una parte come dall’altra. La richiesta del cessate il fuoco, che è l’unica veramente etica, e come tale impolitica, non ha più valore se deve passare attraverso queste forche caudine.
Tali parole d’ordine vengono ripetute non perché siano “vere” o veramente credute, ma per farle diventare vere. Non descrivono ciò di cui parlano; descrivono chi le pronuncia, rendendolo parte della comunità di coloro che le pronunciano. Una volta che si esce dall’etica impolitica, oppure si decide di non entrarci nemmeno, tutto il resto è uno shibboleth, ti mette subito tra i Galaaditi che sanno pronunciare il suono “sh” o tra gli Efraimiti che non lo possono pronunciare e che per questo vengono riconosciuti e uccisi (Libro dei Giudici, 12, 5-6). Ti mette tra coloro che minimizzano gli stupri del 7 ottobre o coloro che non vogliono sentir parlare di genocidio, tra coloro che negano l’uccisione dei neonati israeliani o coloro che glorificano la potenza autonoma dei droni, tra coloro per i quali dire ebreo e colonialista è la stessa cosa e altri per cui dire palestinese e terrorista è ugualmente la stessa cosa. I punti di vista personali sono irrilevanti, conclude Zadie Smith. Quello che non è irrilevante sono i morti.
È una conclusione etica, ma è anche insoddisfacente. Perché se solo i morti sono rilevanti, non è sufficiente capire “per quale ragione” sono morti. Una ragione per uccidere qualcuno la si trova sempre. Si può benissimo uccidere anche per far rispettare il comandamento che dice di non uccidere. La questione appartiene invece al diritto. Si tratta di capire all’interno di quale struttura giuridica i morti sono morti. O, in altre parole: chi sta commettendo crimini contro l’umanità? Chi sta commettendo un genocidio? L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 contro cittadini disarmati, con conseguente rapimento di ostaggi, è un atto di violenza rivoluzionaria, di decolonizzazione, o è un delitto contro il genere umano? E la risposta di Israele è un atto di guerra, una pulizia etnica o peggio ancora?
2. Siamo tutti uguali quando siamo nella merda
Il 6 giugno 2024, sulla New York Review of Books, è apparso un articolo di Aryeh Neier intitolato Is Israel Committing Genocide? L’autore è nato a Berlino nel 1937 da una famiglia ebraica che lasciò la Germania nel 1939. Cresciuto negli Stati Uniti, negli anni Sessanta è stato un militante della SDS (Students for a Democratic Society) e negli anni Settanta direttore della ACLU (American Civil Liberties Union). Successivamente, è stato presidente dell’OSI (Open Society Institute, organizzazione filantropica fondata da George Soros) e tra i fondatori e promotori, fin dal 1978, di HRW (Human Rights Watch), organizzazione che nel 1997 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Se ho riassunto il suo curriculum, è per far capire meglio il peso che possono avere le sue parole.
Secondo il diritto umanitario internazionale (IHL o International Humanitarian Law, che non è una vera e propria dottrina giuridica ma un corpus di norme mutualmente accettate da vari paesi, il cui scopo è la limitazione dei danni causati dai conflitti armati), il genocidio è “l’intenzione di distruggere, interamente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” (Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, 9 dicembre 1948). A parere di Aryeh Neier e di Human Rights Watch, dopo la Seconda guerra mondiale si sono verificati almeno tre genocidi: il massacro dei Curdi iracheni ordinato da Saddam Hussein nel 1988, il massacro dei Tutsi ad opera degli Hutu in Ruanda nel 1993, e il massacro dei Rohingya ad opera dell’esercito di Myanmar (Birmania) nel 2016-2017, che non può dirsi ancora concluso. A questi episodi Neier aggiunge la pulizia etnica ordinata da Slobodan Milošević nel 1992 contro la popolazione della Bosnia, in particolare quella musulmana.
Fino a pochi mesi fa, Neier non si era unito a coloro che accusavano Israele di genocidio. Riteneva che Israele fosse responsabile di crimini di guerra per via dell’alto numero di civili uccisi da bombe di potenza devastante (la cui fornitura è stata interrotta dal Presidente Biden l’8 maggio, per impedire che venissero usate su Rafah), ma riconosceva che la responsabilità iniziale del conflitto spettava ad Hamas, la cui dirigenza, pur sapendo benissimo quale sarebbe stata la risposta all’attacco del 7 ottobre da parte del governo più estremista mai salito al potere in Israele, aveva coscientemente esposto la popolazione civile alla vendetta israeliana.
Ma col passare del tempo Neier si è convinto che Israele abbia veramente iniziato una politica di genocidio contro i palestinesi di Gaza. Non per i bombardamenti a tappeto (che comunque andrebbero contro la Convenzione di Ginevra adottata nel 1977), ma per la sistematica ostruzione degli aiuti umanitari.
I fatti che ricostruisce partono dal 9 ottobre 2023, quando Yoav Gallant, Ministro della Difesa israeliano, dichiarò un assedio totale, affermando che a Gaza non ci sarebbe stata più elettricità, né cibo, né carburante. Nei mesi successivi gli ingressi degli aiuti umanitari sono stati spesso rallentati, se non impediti, in parte dall’esercito e in parte da israeliani estremisti. Sono stati uccisi circa duecento operatori umanitari palestinesi, molti dei quali facevano parte dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency). Il 1° aprile 2024 un attacco israeliano ha distrutto il convoglio del WCK (World Central Kitchen) uccidendo sei operatori internazionali e l’autista palestinese. In questo caso si è trattato quasi certamente di un errore. Nel caso precedente, Israele si è giustificato affermando che l’UNRWA è seriamente infiltrato da Hamas. Il 22 aprile, un rapporto firmato dalla Ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna, ha concluso che Israele non ha fornito prove a sufficienza per giustificare le sue accuse e che l’UNRWA resta indispensabile per procurare aiuti a Gaza (aggiungo solo che non mi sentirei di mettere la mano sul fuoco per nessuna delle due asserzioni).
Il primo risultato è stato quello di scoraggiare le agenzie umanitarie che avessero intenzione di intervenire a Gaza. Il secondo è stata la carenza di cibo, già denunciata il 10 aprile da Samantha Power, amministratrice di USAID, durante un’udienza alla Commissione Affari Esteri della Camera dei deputati americana. Il 3 maggio Cindy McCain, direttrice del WFP (World Food Program), ha ripetuto durante un’intervista alla NBC che la zona a nord di Gaza soffriva di una grave carestia. Già in febbraio, l’UNICEF sosteneva che il numero dei bambini in condizioni di malnutrizione erano raddoppiati rispetto al mese precedente. Da allora la situazione è solo peggiorata.
Neier specifica che la fame non colpisce minimamente i militanti di Hamas, i quali sanno dove trovare il cibo e hanno le armi dalla loro. (Certamente non è nell’interesse di Hamas lenire le sofferenze della popolazione di Gaza ora che possono presentarsi al mondo come l’archetipo della vittima. E le cifre dei morti fornite dal Ministero della Sanità di Gaza sono troppo fantasticamente precise per essere prese alla lettera. Dopotutto, ci sono voluti anni prima che in Italia si potesse arrivare a una stima dei caduti sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ma i morti, i feriti e i mutilati ci sono e allo stato attuale delle cose se fossero diecimila in più o in meno non farebbe nessuna differenza.)
A parere di Neier, sia la dirigenza di Hamas sia lo IDF (Israel Defence Force) dovrebbero essere portati davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja; Hamas per avere programmato l’attacco del 7 ottobre, e l’esercito israeliano per le tattiche di guerra che hanno causato un numero sproporzionato di vittime civili e per aver ostacolato l’apertura dei corridoi umanitari. (Si potrebbe aggiungere che Hamas andrebbe messo sotto processo non solo per il 7 ottobre ma per aver condotto la sua guerra mimetizzando i propri miliziani tra la popolazione civile e creando installazioni militari, come le rampe di lancio dei missili, sul tetto di abitazioni civili, cosa anch’essa espressamente negata dalle convenzioni umanitarie.)
In data 20 maggio Karim A. A. Khan, Procuratore capo della Corte Penale Internazionale, ha chiesto al tribunale di emettere mandati di cattura nei confronti dei capi di Hamas, di Netanyahu e di Gallant per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Neier ne parla ancora come di una possibilità, evidentemente ha scritto l’articolo prima del 20 maggio, ma proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se Israele fosse davvero accusato, in una sede legittima, non solo di crimini contro l’umanità ma proprio di genocidio. Da quel momento in poi ogni ebreo sulla faccia della terra avrebbe un motivo in più per sentirsi minacciato, e non importerebbe nulla la sua posizione personale nei confronti del conflitto. Nemmeno il più severo critico del governo Netanyahu potrebbe sfuggire a una marea di antisemitismo di dimensioni inaudite, trovando finalmente quella giustificazione suprema che dalla Shoah in poi gli è mancata.
Non credo che Neier si sia fatto molti amici con quell’articolo della New York Review of Books. Ma ne aveva persi anche prima, precisamente nel 1977, quando come direttore della ACLU aveva difeso la famosa marcia dei cosiddetti “nazisti dell’Illinois”, cioè del National Socialist Party of America nella cittadina di Skokie, Illinois, peraltro abitata da molti ebrei e sopravvissuti alla Shoah. Due anni dopo ci scrisse anche un libro, Defending My Enemy, nel quale sostenne che la libertà di parola e di manifestazione concessa a tutti, senza la minima discriminazione, andava a vantaggio anche degli ebrei. Per questa sua tesi, sospesa tra difesa della libertà di espressione e libertarismo estremo, ricevette più critiche che lodi, ma per valutarne la paradossalità dobbiamo tornare al tema dello “spazio sicuro”.
Il 12 agosto del 2017, a Charlottesville, in Virginia, si è tenuto lo Unite the Right Rally, un raduno di alcune centinaia di suprematisti bianchi che sfoggiavano croci e bandiere sudiste insieme a bandiere naziste. Durante la giornata, a poca distanza dalla manifestazione, un suprematista bianco spinse la sua automobile contro un gruppo di contromanifestanti, uccidendo Heather Heyer, 32 anni, e ferendo trentacinque persone. Il Presidente Trump minimizzò l’accaduto affermando che in quella circostanza “c’erano brave persone da entrambe le parti”.
Non so quale sia stata la reazione di Neier. Ignoro se i fatti di Charlottesville gli abbiano fatto ripensare alla sua difesa dei nazisti dell’Illinois. A Skokie nel 1977 non era successo nulla di grave. Quarant’anni dopo, a Charlottesville, una persona è rimasta uccisa al grido paranoico: “Gli ebrei non ci sostituiranno!” (sono il 2,4 per cento della popolazione americana; non possono sostituire nessuno). Sette anni dopo i fatti di Charlottesville, nel 2024, nei campus americani si è gridato: “Uccidete tutti i sionisti”. Nessuno l’ha fatto, ma cos’è che ti fa sentire più sicuro? Qualcuno che ti dice “Tu non mi sostituirai” o qualcun altro che ti dice “Ti uccido”? Gli ebrei sono stati odiati fino all’impossibile anche quando non avevano potere, non avevano soldi, non avevano terre e tantomeno colonie. Fino a quale inimmaginabile livello d’odio potrebbe arrivare l’antisemitismo se il mondo finisse per decidere che Israele è colpevole di genocidio? Se Hamas è responsabile di crimini contro l’umanità, e contro i palestinesi stessi per averli usati come scudi umani, il governo Netanyahu è responsabile, tra molte altre cose, di avere spezzato la fiducia di milioni di ebrei di poter contare su una terra dove non abitavano, ma della quale potevano dire che apparteneva anche a loro.
Lo sa Raz Segal, ebreo americano, professore di storia alla Stockton University del New Jersey. Gli era stata offerta la posizione di direttore del Centro di Studi sul Genocidio e la Shoah all’Università del Minnesota, ma dopo cinque giorni l’offerta è stata ritirata. Qualcuno, infatti, ha ripescato un suo articolo pubblicato su jewishcurrents.org il 13 ottobre 2023, sei giorni dopo l’attacco di Hamas, in cui Segal definiva la risposta di Israele contro Gaza “un caso esemplare di genocidio” (A Textbook Case of Genocide (jewishcurrents.org)). Ora, che cosa spinge un rinomato studioso ebreo della Shoah ad accusare Israele di genocidio nemmeno una settimana dopo l’attacco di Hamas, se non che si è aperta una voragine storica di dimensioni ignote, e che un patto durato nei millenni della diaspora si è spezzato? Gli ebrei, come popolo transnazionale, sono sopravvissuti a tutto. Ma possono sopravvivere, come popolo transnazionale, se a parere dei loro stessi intellettuali la propria “nazione” ha mancato al denominatore comune dell’umanità?
Curiosamente, nessuno richiede prove di umanità da Hamas, Nessuno francamente, ritiene Hamas capace di prove di umanità. In questo, coloro che hanno gridato di gioia dopo l’assalto del 7 ottobre non sono stati meno “razzisti” di Yoel Gallant, che ha definito i militanti di Hamas come “animali umani”, perché è per la loro ferocia “animale” che sono stati celebrati.
Che dire allora? Ha ragione la Madame Rose di Romain Gary, la vecchia prostituta ebrea che in La vita davanti a sé dice: “Siamo tutti uguali quando siamo nella merda, e se gli ebrei e gli arabi si spaccano la faccia è perché non bisogna credere che sono diversi dagli altri”? Ma forse ci si deve porre una questione ancora più grave. Che è poi questa: dove sta l’umanità? E, se esiste, può davvero sperare di condividere dei diritti universali?
3. Legge naturale e legge divina
Tahar Ben Jelloun ha scritto su Repubblica del 23 maggio 2024 che il diritto dice: “Ogni vita ha lo stesso valore. Non ci sono vite più importanti di altre”. Che, aggiunge, è la stessa cosa che dice la morte. Parlando con ammirazione del movimento pro-Palestina nei campus americani ed europei, Ben Jelloun ha affermato che la causa palestinese, che pareva dimenticata, grazie a quei giovani non lo è più: “Oggi di quella causa si sono appropriati i giovani in cerca di un obiettivo. Una vita vale una vita. Questo dicono le proteste degli studenti in tutto il mondo”.
Ma se una vita vale una vita, e se la causa palestinese è una causa universale, davanti a tale universalismo prepolitico e pregiuridico anche il diritto retrocede per lasciare di nuovo il posto all’etica. Opportunamente, Ben Jelloun cita Gideon Levy che su “Hareetz” del 14 gennaio 2024 ha scritto: “Se Israele non sta commettendo un genocidio o qualcosa di simile, allora di che cosa si tratta? Come chiamiamo quello che sta accadendo?” D’un tratto, perfino la parola genocidio non sembra più che una parola. “Per chi muore sotto le bombe,” continua Ben Jelloun, “per le decine di migliaia di gazawi uccisi in modo metodico, non ha molta importanza quale parola si usa”. Siamo tornati all’etica di Zadie Smith, che pareva così spicciola: tutto è irrilevante tranne i morti.
Tutti i morti? Se una vita vale una vita, una morte vale una morte. Dunque l’unica risposta possibile di chi non è coinvolto nel conflitto sarebbe una pietà che vuole presentarsi come un atto politico? Secondo l’articolo di Antonio Scurati su Repubblica del 19 maggio 2024, sembrerebbe che sia così: “No, nessuna velleità da ‘anime belle’. Nutrire il nostro sentimento democratico è un esercizio di ragion pratica. Coltivare in noi l’umanità, educare il nostro cuore alla pietà per i bambini di Rafah sono atti politici”. Nulla da obiettare, se non fosse che Scurati dice anche altro: “Personalmente, ho considerato l’attacco del 7 ottobre un crimine contro l’umanità (vale a dire, ne sono consapevole, contro l’idea di umanità coltivata dall’umanesimo europeo)”.
Un momento, un momento. Come si fa a “coltivare l’umanità” sapendo che quell’umanità è solamente quella “coltivata dall’umanesimo europeo”? Cosa gliene importa agli abitanti di Gaza di tutta queste coltivazioni? Esiste in qualche altra parte del mondo un’altra idea di umanità non coltivata dall’umanesimo europeo e che magari è più giusta, meno compromessa con una storia di violenze e più inclusiva di quella generata dall’Europa? Se esiste, dove si trova? E perché non la adottiamo subito, senza perdere tempo, visto che ci sarebbe certamente più utile di quella zavorra europea che ci portiamo dietro?
La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789 è stata formulata da maschi bianchi europei, ma allora perché gli schiavi di Haiti si misero a cantare la Marsigliese davanti all’esercito di Napoleone venuto a soffocare la loro ribellione? La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata dall’ONU il 10 dicembre 1948 era chiaramente eurocentrica; estendeva all’intero pianeta il sistema liberale europeo e nordamericano fondato sui diritti soggettivi, e tra gli stati che non la firmarono ci furono l’Unione Sovietica e il Sudafrica. Immaginiamo il perché, ma saremmo disposti ad ammettere come valide le loro ragioni? Oppure potremmo riferirci alla Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo, proclamata all’UNESCO il 19 settembre 1981? O magari alla seconda Dichiarazione Islamica, pronunciata al Cairo il 5 agosto 1990, diversa dalla prima in alcuni punti anche importanti, ma non dissimile nell’impostazione generale?
La dichiarazione dell’ONU si fonda sulla tradizione del giusnaturalismo (le leggi morali universali sono inscritte nella natura) mentre in quella islamica i diritti sono stabiliti direttamente da Allah. Ora, queste non sono solo due differenti visioni del ruolo dell’uomo nel mondo. Descrivono proprio due “umanità” diverse. E nessuna delle due descrizioni è universale. Sono incompatibili? Non necessariamente, ma hanno bisogno di molta “politica”, nel senso più alto della parola, per poter convivere. L’Occidente non può rinunciare alla laicità, alla legge naturale. Il mondo islamico non può rinunciare alla shari’a, alla legge divina. Ed è giusto che sia così, a patto di riconoscere che nessuno dei due ordinamenti giuridici è “manchevole” rispetto all’altro.
Ma per la morte non ci sono vite più importanti di altre, ha scritto Ben Jelloun. In altre parole, per la morte non ha importanza se credi nella legge naturale o nella legge divina. E allora, quando Scurati scrive che l’attacco del 7 ottobre è un crimine contro l’umanità – ma solo contro il concetto di umanità inteso dall’umanesimo europeo – sta forse dicendo che secondo un altro concetto non europeo di umanità quello di Hamas non sarebbe un crimine? Durante la loro ribellione, gli ex schiavi di Haiti massacrarono migliaia di francesi, stuprando poi le donne e uccidendo i loro figli. Ma non credo che Scurati intenda riferirsi a questa applicazione letterale del concetto di violenza rivoluzionaria. E dunque?
Sembra di essere tornati per la seconda volta a ciò che ci lasciava insoddisfatti nel ragionamento di Zadie Smith, cioè che solo i morti non sono irrilevanti, ma ciò che allora appariva come insufficiente ora, pur senza aver compensato la sua insufficienza, appare come necessario, ed è di questa necessaria insufficienza del concetto di umanità come mortale che dobbiamo farci carico.
Il concetto di umanità mortale è insufficiente perché non può tenere conto della storia, delle colpe pregresse, della rabbia, delle ideologie e delle religioni che decidono l’indirizzo del pensiero e dell’azione degli esseri umani mentre sono in vita. Al concetto di umanità mortale non può interessare se chi muore viene da una razza o da una cultura che hanno oppresso altre razze e altre culture, se chi muore si è reso colpevole di prevaricazione o se l’ha subita. Durante la vita possiamo essere colpevoli di tutto; dopo la morte siamo solo granelli di polvere spazzati via dal vento. E sì, al concetto di umanità mortale andrebbe affiancato quello di umanità natale, dell’essere umano che viene al mondo né colpevole né innocente, così come non è né innocente né colpevole il morto che lui stesso eventualmente sarà. Ma, una volta espressa questa verità tanto sublime quanto banale, che cosa resta da difendere a chi è ancora vivo? Poiché, nonostante tutto, non siamo più ai tempi della rivoluzione di Haiti, che argomento può opporre colui che è vivo per non essere catturato come ostaggio o fatto a pezzi da una bomba intelligente?
4. Oppressori e oppressi, e viceversa
Sentieri selvaggi (The Searchers), diretto da John Ford nel 1956, secondo la lista più recente del National Film Registry occupa il dodicesimo posto tra i migliori cento film americani. Non credo di rovinare nulla a nessuno se lo riassumo per sommi capi. Siamo in Texas nel 1868. Gli Edwards, una famiglia di pionieri, viene sterminata da guerrieri Comanche. La figlia più grande, Lucy, è seviziata e il suo cadavere abbandonato. La figlia più piccola, Debbie (Lana Wood), è rapita e se ne perdono le tracce. Lo zio Ethan (John Wayne), un veterano della Guerra di secessione dalla parte dei Confederati, dedica la sua vita a ritrovarla, una missione per la quale gli occorreranno anni e l’esplorazione di un immenso territorio, geografico, mentale e culturale. Ma Ethan Edwards non vuole trovare Debbie per salvarla, bensì per ucciderla. Se Debbie è ancora viva, è probabile che la tribù l’abbia tenuta con sé per farle sposare uno dei suoi uomini, forse lo stesso capo. Ethan, che non fa mistero del suo razzismo verso i nativi e i mezzosangue (e di sicuro non aveva obiezioni nemmeno contro la schiavitù), non può tollerare che sua nipote sia stata contaminata dal sangue degli indigeni e che possa generare figli di razza mista. Per fedeltà storica, Ford e i suoi sceneggiatori non fanno nulla per attenuare il razzismo di Ethan (al quale non era estraneo lo stesso Wayne). Date le premesse, il personaggio non poteva comportarsi altrimenti. Il pubblico generico non si accorse del subtesto del film, che pure era chiarissimo. Ci voleva una generazione più giovane per coglierne le implicazioni. Martin Scorsese, che vide il film da ragazzo, ammise di essere rimasto sconvolto dall’esplicito razzismo del protagonista. Niente di simile si era mai visto, e senza chiedere scusa allo spettatore. È difficile immaginare che Hollywood possa produrre oggi un film del genere, se non accompagnandolo da un’infinità di accorgimenti tesi a proteggere dal “trauma” il pubblico sensibile.
Ma il film non si ferma lì. Bisogna aspettare gli ultimi fotogrammi per scoprire che Ethan, quando sei anni dopo ritrova Debbie (ora interpretata da Natalie Wood) ed elimina il capo Comanche (Henry Brandon) che l’aveva sposata, non la uccide, la prende tra le braccia e le dice: “Torniamo a casa”.
Due sono le manipolazioni a cui Ford sottopone lo spettatore. La prima è che nella frazione di secondo in cui Ethan decide di non uccidere Debbie, o diciamo meglio che non decide di ucciderla, noi non vediamo né la faccia dell’uno né la faccia dell’altra. La macchina da presa riprende la scena dall’interno di una grotta, così come una delle immagini iniziali era quella della prateria vista dall’interno buio della casa degli Edwards. Debbie è di spalle, terrorizzata dallo zio. Ma quando Ethan la solleva e la stringe tra le braccia noi non vediamo l’espressione di lui. Non è possibile che Ford non abbia pensato lungamente a quell’inquadratura che decide tutto il film. La risoluzione della vicenda non viene decisa dalla bravura degli attori bensì dall’intero campo visivo, dal buio della grotta, dal sole che entra dall’esterno, dalla corsa verso di loro del cugino Martin (Jeffrey Hunter), ancora convinto che lo zio stia per uccidere Debbie. Proprio perché non vediamo il mutamento di espressione sul volto di John Wayne, la cui faccia, quando ricompare, è ormai rasserenata dalla decisione che ha preso (o che non ha preso), quella decisione si proietta a ritroso sull’intero film, facendoci chiedere fino a che punto abbiamo davvero “visto” tutto quello che ci è stato mostrato. La decisione era inconscia, come tale operava fin dall’inizio, e non poteva essere mostrata perché a tal fine sarebbe stato necessario che Ethan Edwards fosse descritto come un eroe esistenzialista e non il convinto veterano di una guerra scatenata per difendere un’economia basata sulla schiavitù.
Ma la seconda manipolazione è ancora più sottile, e non viene risolta da nessuna inquadratura perché non sta nell’inconscio dei personaggi bensì nell’inconscio stesso del film. Debbie adesso è una giovane donna, una delle mogli del capo. In apparenza si è dimenticata della sua origine, veste e si muove come una Comanche. È una moglie giovane, ma col tempo potrebbe acquisire autorità e diventare una delle donne più influenti della tribù. Per questa sua crescita sociale, diciamo così, ha dovuto pagare il prezzo di essere rapita e violentata. Nel West americano questo succedeva, così come a volte accadeva che donne rapite dagli “indiani” decidessero poi di rimanere nella tribù e di non tornare più dai “bianchi”, nonostante l’orrore che i pionieri (i coloni, per essere precisi) provavano all’idea che una donna bianca potesse accettare di avere rapporti carnali con un nativo (si veda in merito il libro che Edward Buscombe ha dedicato a The Searchers, pubblicato dal British Film Institute nel 2000). Ethan non è l’unico a provare questo orrore. Il personaggio di Laurie (Vera Miles), fidanzata del cugino Martin, lo rende ancora più esplicito. Ma noi non sappiamo, dal film, fino a che punto Debbie ha “accettato” la violenza che l’ha portata a diventare una Comanche. Quando fugge dallo zio non lo fa per difendere la sua identità, ma solo la sua nuda vita. E se Ethan non la uccide, non è perché sia venuto a patti con l’identità di una nipote Comanche, ma per portarla “a casa”, una casa che però, per lei, non esiste più.
Il tema segreto di Sentieri selvaggi non sono i tormenti razzisti dello zio, ma che cosa il pubblico debba pensare di Debbie. È una bambina di razza bianca, figlia di coloro che, pur poveri e in cerca di una terra, la trovano sottraendola ad altri che la occupano da millenni. Si sentono deboli ed oppressi, ma sono loro gli oppressori, mentre gli indiani, che agiscono da oppressori, violenti e stupratori, finiranno per essere loro i deboli e di fatto lo sono già. Ma Debbie, figlia di oppressori, e anche se in futuro farà parte lei stessa degli oppressori, è già colpevole quanto loro? Ha meritato, lei bambina, di essere rapita e violentata? Secondo i teorici più estremi della decolonizzazione, la risposta sarebbe affermativa. Le colpe dei padri ricadono sui figli e nessuno può dirsi innocente. (L’attacco di Gaza contro Israele è stato vigorosamente difeso da alcuni nativi americani appartenenti al movimento “Land Back”, che si propone di ristabilire la sovranità indigena sui territori ancestrali sottratti dall’espansionismo dei pionieri, recuperandone il controllo politico ed economico.)
Come archetipo narrativo, Debbie rientra nella categoria dell’oggetto contaminato, quello che gli eroi cercano solo per distruggerlo. È l’arma segreta che non deve cadere nelle mani del nemico, che corrompe chiunque ne entri in possesso e che solo un eroe puro e disinteressato, o magari uno sciocco inconsapevole, può avere il coraggio o l’incoscienza di distruggere. Debbie è l’agente di una contaminazione che attraverso i suoi figli contaminerà a sua volta la razza bianca. Viene salvata, perché Ethan è razzista ma non è inconsapevole, però noi non sappiamo se potrà mai ritrovare la sua identità “bianca”, e nemmeno se lo vorrà.
Sentieri selvaggi lascia l’amaro in bocca. Siamo noi che dobbiamo inghiottire quell’amaro e considerare Debbie come vittima per ciò di cui è veramente vittima, e non in nome di una guerra tra oppressi ed oppressori nella quale lei è solo una comparsa. Se Scout, il capo Comanche (Chief Scar nell’originale), ha anche la minima giustificazione per aver rapito e violentato Debbie, allora i valori universali di cui ci riempiamo la bocca non esistono, e i diritti umani ancora meno. Significa anche, però, che non possiamo accontentarci dell’avvertimento che dice: sì, io credo nell’umanità, ma so benissimo che la mia umanità è solo un costrutto europeo. Perché, se lo sai, come fai a non chiederti in che cosa dovresti credere invece? O forse ti accontenti di crederci per pura appartenenza etnica, geografica o culturale, cosa che rende subito fasulla la pretesa di quel concetto di umanità, e dei relativi diritti umani, di essere vincolante?
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sottoscritta dall’ONU ha i suoi limiti, e universale non è. Oltre a svalutare il ruolo delle religioni, pone l’enfasi sui diritti dell’individuo e non sui doveri del singolo verso il collettivo (questa, almeno, è stata una critica da parte cinese, benché la Cina sia stata tra i firmatari). Non per questo, però, esistono altrove differenti concezioni dei diritti umani che si siano rivelate più inclusive. Nessuna idea di umanità è manchevole rispetto a un’altra, ma tutte sono manchevoli rispetto a un’unità della razza umana che non riescono a rappresentare, perché forse è irrappresentabile.
L’articolo I “sentieri selvaggi” dei diritti umani proviene da ytali..