Non parliamo questa volta degli antenati di Johann Sebastian. Innumerevoli. Tutti musicisti (o quasi), che hanno occupato per oltre un paio di secoli ogni “posto fisso” nelle corti, nelle chiese, nelle municipalità della Germania settentrionale. Organisti, violinisti, maestri di cappella, insegnanti. Tutto.
Talmente numerosi da porre un problema biologico (una modifica “musicale” del DNA?), sociologico (una lobby onnipotente?), ma anche linguistico. Mi spiego: in tedesco la parola “Bach” significa “ruscello”, “torrente”. Ma studi recenti (G. Kraft) rivelano che il vocabolo Bach, con le sue varianti Bachen, Pach, Baach e Baachen, nel dialetto di molte località dell’Europa orientale e specialmente tra le popolazioni nomadi zingare, indicavano e indicano il musicante girovago.
Quindi Bach sarebbe solo un attributo del nome che nel tempo si trasforma in cognome. Come Sarti o Barbieri. Meno poetico, ma forse più realistico.
Nel nostro caso, l’“altro Bach” è Wilhelm Friedemann, uno dei discendenti del sommo Johann Sebastian, la musica del quale Goethe arrivò a dire che fosse “Un dialogo di Dio con sé stesso, prima della creazione”.
Wilhelm Friedemann era il primo dei figli maschi (la primogenita dei sette figli avuti con la cugina Maria Barbara era Catherina Dorothea). Giovanni Sebastiano avrà altri tredici figli dal secondo matrimonio con Anna Magdalena Wilcke. Ma Wilhelm rimarrà il figlio amatissimo, il prediletto.
Non c’è alcun dubbio che la figura del padre abbia reso non facili le vite artistiche dei suoi figli, alcuni dei quali sono stati musicisti di grande statura. Oggi tuttavia sopravvivono solo i nomi di Carl Philipp Emanuel e Johann Christian, precursori del classicismo viennese.
La personalità e la produzione musicale di Wilhelm Friedemann rimarranno invece per oltre due secoli trascurati e ignorati dalla comunità musicale, nascosti sotto una coltre di superficialità di giudizio, di accettazione acritica di facili luoghi comuni (difficoltà di scrittura e di esecuzione, bizzarria e narcisismo compositivo, discontinuità).
Wilhelm Friedemann era, come abbiamo detto, molto amato e stimato dal padre, che gli dedicò una delle sue opere didattiche principali, il Klavierbüchlein. A giudizio di molti contemporanei, il giovane Bach era il più grande organista tedesco, e un ineguagliabile improvvisatore. Ma, allo stesso tempo, veniva spesso giudicato come “difficile”, sfuggente, narcisista.
Solo da pochi anni è iniziata una faticosa opera di rivalutazione (vedi l’importante lavoro di David Schulenberg, The music of W. F. Bach, The University of Rochester Press, 2010), faticosa anche per la difficoltà di trovare documenti. Gran parte della sua produzione musicale è rimasta manoscritta, e buona parte dei manoscritti è andata a finire sotto le macerie e le fiamme dei criminali bombardamenti inglesi e americani su Dresda della Seconda Guerra Mondiale.
Un Bach “enigmatico”, come lo vuole definire Schulenberg, con un evidente rapporto conflittuale con le istituzioni; coltissimo, matematico professionista, capace di abbandonare una cattedra a Berlino e scegliere una difficile strada di finanziamento indipendente della sua attività musicale che, come poco più tardi per Mozart. lo porterà praticamente alla miseria.
Ma lo stile empfindsamer (ovvero lo stile “sensibile”), la coerenza con le principali caratteristiche dello Sturm und Drang musicale, all’interno del quale si è tentato di definire e cristallizzare la produzione del nostro Bach, non esauriscono la comprensione della sua prorompente originalità.
Nella figura di Wilhelm Friedemann sembrano scontrarsi, come in alcuni bracci di mare, due correnti opposte potentissime, la prima quella della grande civiltà barocca tedesca, sapiente, coerente, polifonica, oggettiva, ma ormai declinante, e dall’altro la marea del soggettivismo montante, la rivalutazione della centralità della melodia, il piacere per l’insubordinazione ai vecchi schemi, insomma il “giovane Werther” in musica.
Al centro di queste due maree il musicista rivendica con orgoglio la propria individualità, a volte con cedimenti alla moda, a volte con ripetizioni delle lezioni ricevute dal passato, ma spesso con guizzi di genio.
In Italia, l’occasione per una “riscoperta” di questo musicista la si deve a Giancarlo Simonacci e alla pubblicazione di un CD della Da Vinci Classics, con le “Twelve Polonaises” (Zwölf Polonaisen, 1765) per pianoforte.
Compositore egli stesso, allievo di Aldo Clementi, Simonacci come pianista ha mostrato nella scelta del suo repertorio, peraltro vastissimo, una predilezione per un filone di musica moderna e contemporanea non incatenata alle elaborazioni teoriche astratte. A Simonacci dobbiamo la pubblicazione dell’opera pianistica completa di John Cage, l’esecuzione di partiture di autori americani (“American Piano Landscapes” con opere di Feldman, Cowell, Beach ed altri), ma anche un’ attenzione particolare per autori italiani o europei soltanto sfiorati dalla notorietà e dalla industria discografica. Ildebrando Pizzetti, Stefano Golinelli, Alfredo Catalani, Giulio Ricordi (si, proprio il grande editore!) e Federico Mompou.
Non sorprende che l’interpretazione di queste dodici Polonaises accentui tutti gli elementi di modernità della scrittura musicale. Per modernità intendo tutto ciò che fuoriesce dagli schemi consolidati della composizione barocca, sia sacra che profana.
La Polonaise ha poco a che vedere con la forma compositiva dell’Ottocento, resa celebre da F. Chopin. Si tratta di una danza in ritmo ternario, nella quale prevale il ritmo dattilo (una lunga seguita da due brevi), dal carattere nobile, altero, anche solenne, vicino allo stile francese. Come tutte le danze delle Suites strumentali di Johann Sebastian, non era destinata ad accompagnare una danza reale.
Si tratta di composizioni generalmente brevi. Le Polonaises in modo maggiore si presentano come virtuosistiche, sorprendenti per la coabitazione di una scrittura contrappuntistica con la nuova concezione “monodica”.
Le composizioni in modo minore sorprendono invece per l’audacia delle soluzioni armoniche, delle modulazioni a tonalità lontane, per il cromatismo accentuato, per le cadenze di inganno ripetute e insistite.
Facciamo un solo esempio:
La Polonaise di questo esempio può essere ascoltata qui di seguito:
La volontà dell’autore di creare un totale “disorientamento armonico” è del tutto evidente. Il Mi bemolle che compare all’inizio della seconda battuta non c’entra nulla con l’armonia che sarebbe attesa secondo gli schemi tradizionali, che si sarebbe adagiata sulle note di una normale settima diminuita e quindi su un Mi naturale. Questa nota non ha l’intento di stupire (destando ammirazione, come in tante modulazioni improvvise e lontane di Scarlatti), ma sembra voler colpire, sovvertire un corso normale degli eventi sonori.
Non è il cromatismo tanto presente nelle opere del grande genitore, al limite della comprensibilità per l’epoca, ma comunque frenato e risolto negli schemi consentiti. Lo stesso “scivolamento cromatico” viene ripetuto alla battuta n. 4 dove il La bemolle svolge la stessa funzione di sorpresa, ripetuta. Per certi versi il procedimento ricorda il cromatismo snervato e sospeso di Gesualdo da Venosa, con l’aggiunta di una sistematica sospensione del ritmo. E infatti è il ritmo, spezzato, tagliato da continue sincopi, con i suoi staccati, a dare il colpo di grazia alla fluidità espressiva della composizione, rendendola enigmatica, irriverente. Possiamo misurare la lontananza dal mondo della melanconia pietistica, il rifiuto della musica come strumento consolatorio.
È quasi un eccesso di soggettivismo, un equilibrio instabile.
Non a caso, nell’arco di pochi anni, arriverà il classicismo di “papà” Haydn a ricomporre una storia della cultura musicale tedesca, assicurandole almeno un altro secolo di grandezza, prima dell’esaurimento. L’opera dell’ “altro Bach” si configura così come una anticipazione del grande disordine, della dissoluzione della civiltà musicale retta dalla tonalità.
L’articolo Un altro Bach proviene da ytali..