L’attentato fallito al candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, richiama l’attenzione sul rapporto che lega democrazia politica e violenza. Relazione particolarmente evidente in Usa, da Lincoln a Kennedy, dove questo è solo l’ultimo di una lunga sequenza di tentativi, riusciti o meno, di uccidere il vertice politico. Ma riguarda tutti, dall’italiano Moro (caduto il 9/05/ 1978) al presidente d’Egitto Anwar Sadat (l’attentato fu del 6/10/1981); dall’omicidio del premier svedese Olof Palme (28/ 02/ 1986) per giungere all’assassinio dei primo ministri d’Israele Yitzhak Rabin (colpito il 4/11/1995) e del Giappone Shinzō Abe (caduto l’8/07/2022). Questo solo per stare agli episodi più eclatanti. La realtà mostra che l’ombra della violenza politica è spesso la stessa ombra dei passi della democrazia.
Naturalmente la violenza politica può assumere molte forme, fino a veri e proprio connotati di azione militare, detta terrorismo (ricorso a forze limitate ma capaci di massimizzare i danni umani e fisici), che si è manifestata con forza nel cuore stesso delle metropoli dell’Occidente. Tuttavia, questa tipologia di azione violenta appartiene più al campo delle relazioni internazionali. Essa infatti, sempre presente in vari luoghi e con le più diverse motivazioni, è stata particolarmente attiva nel dopo guerra fredda. È l’effetto dell’aggiungersi di nuovi protagonisti compresi soggetti non-statali: dalla criminalità organizzata, alle forze terroristiche per giungere all’offerta legale di sicurezza privata. Tuttavia, il rapporto tra democrazia e violenza va colto osservando quella che viene dall’interno dei sistemi democratici stessi.
Il ragionamento vale soprattutto per la democrazia dei moderni, quella rappresentativa, sebbene questa provi ad esorcizzarla confinando l’uso della violenza all’illecito. Viceversa la “democrazia degli antichi”, la greca in particolare, pur considerando il conflitto civile terribile, vi vedeva una manifestazione propria del politico. Tutto cambia con la filosofia politica moderna. Qui la tesi emergente è che la guerra civile può arrivare a negare la stessa sopravvivenza di soggetti, i cittadini liberi e proprietari, visti come le nuove pietre miliari del contratto sociale. Un patto totalmente immanente, infatti esclude l’idea della radice trascendente del potere, tutorio dal pericolo della violenza. Pertanto, i cittadini si garantiscono la sopravvivenza, come postula il filosofo Hobbes, associandosi politicamente. Anche al prezzo di rinunciare a parti della propria libertà.
È una sorta di assicurazione sulla vita che dovrebbe, finché può, circoscrivere lo spazio, prima liberale, poi con l’avvento delle libertà positive (welfare) anche democratico, respingendone fuori il mostro della guerra civile. Qui il rischio possibile, che apre alla violenza, è quello di depoliticizzare l’idea di democrazia riducendola a sole procedure vuote e riempibili di qualunque contenuto. Una sorta di supermercato ideologico dove si prende ciò che si vuole. Sarebbe il frutto patologico del diritto come pretesa assoluta. È l’idea di democrazia di individui (la società non esiste, diceva la Thatcher) senza comunità. Uno sprofondo. Condizione necessaria ma insufficiente per espungere la violenza dallo spazio pubblico è riconoscere allo Stato democratico il monopolio della forza. Solo così le democrazie possono provare ad esorcizzare la violenza ai margini estremi della politica.
Lo dimostrano gli Stati Uniti dove l’idea di monopolio statale della violenza trova forti limiti di attuazione. Col risultato dell’esistenza lì di forti componenti armate civili e al conseguente paradosso della superpotenza che fatica a controllare il proprio stesso territorio. Questo spiega pure la diffusione epidemica della violenza. Alla base di tutto c’è il II° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America che concepisce il “diritto alle armi” richiamando ai precetti di antiche idee sul tirannicidio fondate sulla filosofia giuridica del diritto naturale. Ciò posto, va detto che parte della violenza che così si sprigiona è prepolitica e pertanto estranea a queste righe. Escluso il fatto che la stessa democrazia americana, esorcizzando questa come ogni altra forma di violenza, nega ogni rapporto tra sé e quest’ultima. Ma è solo un pericoloso gioco di specchi con sé stese.
Perché la democrazia deve riconoscere la violenza che l’attraversa (vive di conflitti) per darle forma controllabile. In altri termini essa, in quanto sistema politico, deve distribuire/regolare i rischi sociali. Ossia la competizione politica che le caratterizza si sostanzia nell’assegnazione agonistica dei valori di sicurezza. Emerge con chiarezza dalle priorità (dal diritto penale al welfare sociale) dei vari governi. Cui si accedè un adattamento rispetto al mito fondativo della sovranità del demos – per gara tra elites politiche (le oligarchie organizzate in partititi). Detto altrimenti: la competizione elettorale è funzionale per garantire la successione al potere riducendo al minimo il grado di violenza.Di fatto è un’alternativa alla guerra civile.
È poco rispetto alla narrazione mitica del demos? Si. Nondimeno il valore della sicurezza è la premessa generale della tenuta di una democrazia. Se in dubbio, la democrazia subito barcolla. Lo si vede chiaramente negli Usa e in Europa. Malauguratamente è diffusa l’opinione che oggi i sistemi politici democratici (o poliarchie competitive nella definizione della dottrina politologica neoclassica) vivano forti crisi di legittimità. Infatti ai bordi del campo elettorale premono oligarchie nuove altresì di dubbia convinzione liberal-democratica. Tutto ciò riattualizza le tesi della Commissione Trilaterale che, anticipando di cinquant’anni l’oggi, leggeva la situazione critica di quel tempo delle democrazie vedendone la causa in “sovraccarico da domanda”. Per fortuna allora, sebbene con molti traumi e difficoltà, la democrazia tenne.
Quindi in quella occasione la competizione evitò di degenerare in guerra civile perché la “scommessa democratico/elettorale” riuscì a tenere ai margini dell’agenda pubblica la violenza negandole un ruolo protagonista. Funziona sempre? No. La storia è piena di regimi costituzionali caduti per il radicalizzarsi dei conflitti. Accade quando lo scontro politico verte su beni ritenuti assoluti e non-trattabili. Fattori questi ultimi che danno il senso e la pericolosità degli assalti al Congresso degli Usa e del Brasile dopo la sconfitta di Trump e di Bolsonaro. L’allarme democratico è dato dal fatto che lo spazio dell’opinione pubblica – la primigenia risorsa di sostegno di una democrazia – è spaccato in campi ideologici opposti. Alla base il mancato pieno riconoscimento del vincitore sancito dalle urne che evidenzia la cesura dell’anima di una nazione in parti reciprocamente aliene.
Il recente film statunitense Civil War narra appunto di questo collasso identitario. Per fortuna è opera di fantasia; però è vicino a pezzi di realtà. Se collassasse la cultura civica statunitense, com’è nell’ipotesi del regista, è logico che possano sparare le armi. Drammaticamente l’attentato a Trump ricorda che già parte dell’opinione pubblica degli States vive in un’allarmante condizione di guerra civile fredda. La qualcosa preoccupa quantomeno perché la tenuta delle libertà in Usa è la garanzia di tenuta per le altre dell’Occidente. La malattia democratica ha un nome facile da indicare ma difficile da curare. Si chiama fine del “patriottismo costituzionale” (espressione coniata dal political scientist Dolf Stenberg nel 1979 e ripresa dal sociologo/filosofo Habermans) intesa come quadro valoriale di riferimento di tutti.
L’espressione significa che una democrazia liberale è più di una procedura, per quanto essenziale. È una cultura in cui le élite si ritrovano pur se elettoralmente avversarie. Conseguentemente, chi perde le elezioni sa che nessuno né minaccia la sicurezza né i valori primari. Quindi non teme e evita la violenza. Il motivo è che i valori per massima parte sono condivisi, di certo accettati, dai vincitori come dai perdenti le elezioni. In Usa in particolare ciò corrisponde al rito del riconoscimento/legittimazione della vittoria avversaria. Viceversa, se il quadro culturale/valoriale si balcanizza, gli opposti elettorati divengono parti ostili di comunità rispettivamente afone e sorde. In questo caso evitare esplosioni violente diviene difficile.
Le democrazie dal dopoguerra hanno funzionato da un lato perché la crescita economica ammortizzava le tensioni sociali e permetteva il funzionamento dell’ascensore sociale; e dall’altro perché nessuna forza che contasse negava l’omogeneità culturale di fondo (patriottismo costituzionale) in Occidente. La ruota ora gira un po’ come fece nei tempi che vanno dalla crisi energetica del 1971 alla presentazione del già ricordato rapporto della Trilaterale (1975). Oggi peraltro la sfida è più complessa per la frammentazione culturale delle società del Nord del mondo. La domanda è semplice: le capacità egemonizzanti e integrative delle democrazie reggeranno alla balcanizzazione multiculturale delle società che le ospitano? O verranno travolte? Sullo sfondo, al peggio, la pellicola Civil War.
Immagine di copertina: Un’America di Ar-15 (da Mother Jones; Unsplash)
L’articolo Il potere e la canna del fucile proviene da ytali..