Mai come ora, il mondo ha bisogno di speranza. Mai come ora, la “Ville Lumière”, la città dei lumi, intesi come intelletto, e delle luci, emblema del progresso tecnologico, può donargliela. Si aprono domani le Olimpiadi, trentatreesima edizione, in un Paese scosso da una crisi socio-politica senza precedenti e in un pianeta in balia di ogni genere di conflitto. Non ci piace l’idea che alcuni atleti, quello russi e bielorussi per l’esattezza, siano costretti a partecipare praticamente alla stregua di apolidi: nessun campione merita di essere etichettato in base alle sue idee politiche né, tanto meno, di essere accostato al despota che tiene in ostaggio la sua nazione, anche perché, a dire il vero, suona particolarmente ipocrita, dato che a Parigi gareggeranno fior di fuoriclasse provenienti da contesti tutt’altro che democratici e rispettosi dei diritti umani.
Bando alle polemiche, però. Lo sport è un linguaggio universale, un sogno che accomuna i popoli e ci consente, almeno per quindici giorni, di mettere da parte tutto il resto. E allora godiamoci i nostri azzurri, innanzitutto, per cui alcuni osservatori preconizzano un risultato superiore alle quaranta medaglie conquistate a Tokyo: sarebbe un record assoluto, talmente significativo che preferiamo non farci illusioni per non subire, poi, eventuali delusioni. Ma pensiamo anche ai fenomeni americani e cinesi, alla classe dei velocisti africani nell’atletica e alle emozioni che ci regaleranno scherma e nuoto, da sempre serbatoi di medaglie per l’Italia ma anche sport nei quali potremo ammirare il talento di rivali che non avranno nulla da invidiare ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze.
Certo, ci mancherà Jannik Sinner nel tennis: non vorremmo che il primo posto nel ranking, giunto forse troppo presto rispetto alla tabella di marcia, potesse arrecargli qualche problema, magari ponendo sulle sue spalle una pressione che, pur essendo un uomo di ghiaccio, dal carattere di ferro, non è semplice gestire a ventitré anni non ancora compiuti. Spetterà, dunque, a Jasmine Paolini e agli altri alfieri della racchetta difendere i nostri colori in una disciplina che sta diventando egemone in un Paese finora calciocentrico e, invece, a quanto pare, adesso innamorato di uno sport aristocratico come pochi ma attualmente capace di regalare gioia e passione come nessun altro. La stessa gioia e la stessa passione che il rissoso calcio, che persino alle Olimpiadi non sta dando il meglio di sé, per usare un eufemismo, sembra non saper più trasmettere. Non è, tuttavia, questo il momento di sollevare polveroni. Ora bisogna solo lasciarsi travolgere dalla magia dello sport, dalle sue storie, dai suoi protagonisti e, più che mai, dai suoi tanti gregari: atleti meno noti, che forse non saliranno mai alla ribalta ma senza i quali nessun fenomeno avrebbe mai potuto vincere alcunché. Perché la verità è che non esistono sport individuali: nessuno lo è. Dietro ogni trionfo di un singolo, infatti, c’è sempre una comunità che lo supporta, che ne cura i malesseri, fisici e soprattutto psicologici, e che lo incoraggia quando le cose vanno male. Possono sembrare riflessioni scontate, ma non lo sono affatto, specie in quest’epoca caratterizzata dal vincismo e dall’esaltazione dei più forti a scapito della collettività: l’opposto dello spirito olimpico e dei valori che una competizione del genere dovrebbe incarnare.
In conclusione, è ammirevole che Parigi, benché colpita in passato dalla furia terroristica, abbia scelto comunque di non aver paura, confermando la cerimonia prevista, con la sfilata di barche sulla Senna, e rispondendo con fermezza a coloro, non pochi, che avrebbero auspicato maggiore prudenza. Se l’Occidente può avere ancora un futuro, nonostante tutto, è perché qualcuno, per fortuna, si oppone a ogni forma di terrore: che sia di matrice jihadista o che provenga da quei settori della politica e della società che rifiutano l’apertura e il multiculturalismo, ossia i cardini del nostro stare insieme nel Ventunesimo secolo.
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