Questi sono giorni decisivi per le trattative relative alll’attribuzione degli incarichi di vertice dell’Unione Europea (UE). Palazzo Chigi ritiene che l’Italia per peso e storia (è Paese fondatore) abbia diritto ad un portafoglio di “peso” nella prossima Commissione Europea. La domanda decisiva da porsi riguarda il criterio in base al quale sono scelti i Commissari in UE.
Rispondervi rimanda, necessariamente, alla natura dell’UE. Questa, sebbene la cosa sia spesso mascherata da coltri ideologiche “unitariste”, è semplicemente un’organizzazione internazionale. Pertanto, è fondata su Trattati tra Stati sovrani, che tali rimangono. Esattamente come lo sono il Fondo monetario internazionale (FMI), la NATO, la WTO per il commercio, a ben vedere lo stesso MES, ecc.
Quindi è prioritariamente un rapporto tra gli Stati membri. Rapporto inevitabilmente asimmetrico perché lo è il peso economico/politico reciproco tra Stati stessi. Che, difatti, dipende dai diversi rapporti di forza. Tuttavia l’UE tiene anche conto, senza però alterare la propria natura, dei rapporti tra le famiglie politico/partitiche dell’Unione. Di conseguenza, per la nomina della Commissione l’Europa istituzionale lega assieme due diversi criteri.
Questi, secondo il disegno dell’ordinamento giuridico dell’Unione, prevedono che la formazione della Commissione risponda al contempo a due principi. Il primo criterio è quello del rapporto tra Stati, fondato prioritariamente sulla Realpolitik dell’interesse nazionale espresso dalle istituzioni statali. Il secondo al contrario viene fatto dipendere dalle culture politiche dei partiti e dalle relative alleanze. La norma vuole che entrambe le “voci” si raccordino. Di conseguenza Presidente e Commissari debbono affrontare il passaggio della fiducia da parte del Parlamento a Strasburgo.
Accade perché l’Europa politica ha un duplice volto: da un lato protagonista è la diplomazia statale; dall’altro, espressione della fictio comunitaria dell’ideologia europeista, nel processo decisionale hanno un peso ugualmente importante i rapporti tra le forze politiche. Tutto fila liscio quando sia i governi che il Parlamento a Strasburgo sono dominati dalle oligarchie politiche tradizionali. Viceversa, tendono ad emergere difficoltà, come ora, se dalle urne emergono nuove oligarchie sfidanti le precedenti.
Infatti è un po’ quello che è successo, e che succede, dopo le recenti elezioni europee. Lo si vede con una certa chiarezza col “caso Italia” dove emergono apparenti contraddizioni. Esse rilevano due diverse dinamiche politiche. Quella partitica manifestatasi nell’opposizione in aula della famiglia politica di FDI alla candidatura della Presidente von der Leyen; mentre l’altra, l’istituzionale, vede il governo Meloni, leader dei FDI medesimi, trattare per un Commissario di peso per l’Italia. Trovare la quadra sarà il punto. D’altra parte le urne hanno esposto la politica europea anche ad altre persino più radicali tensioni: dai cosiddetti “sovranisti” (come se l’essere sovrani sia una scelta invece che una condizione) alle tensioni istituzionali in Francia.
Ciò posto, merita precisare che il voto di Strasburgo sulla Commissione ha una sua logica. Nel senso che quest’ultima, sebbene il potere legislativo sia condiviso da Parlamento e Consiglio Europeo, ha facoltà di iniziativa legislativa (rafforzata dal Trattato di Lisbona) nei confronti del Legislativo dell’UE. Si tratta di atti normativi che, precedentemente quando “proposte”, necessitano del vaglio di Consiglio e Commissione. Insomma, è la stessa procedura legislativa ad indicare la particolare dinamica politica dell’UE.
Significa che il voto sulla Commissione del Parlamento Europeo è cosa altra e diversa dalla logica tipica del rapporto fiduciario tra Assemblee elettive/governi di una democrazia parlamentare. Quindi, come precedentemente osservato, il voto in aula per la Commissione somma al criterio statuale quello tra gruppi politici. Il problema oggi per l’Italia sta in questa duplice partita.
Il fatto è che pensare la Commissione come fosse un governo è un errore. Difatti è, pur con capacità di proposta, un organo politico/amministrativo di esecuzione di decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio. Pertanto, il giudizio del Parlamento Europeo, cui essa deve sottoporsi, è, come detto, altro dal classico rapporto fiduciario caratterizzante i sistemi parlamentari.
Piuttosto l’Aula a Strasburgo è sede di una valutazione politico/tecnica sia del Presidente che dei singoli Commissari, a loro volta espressi dai singoli Stati ma senza per questo averne la rappresentanza (sia per vincoli oggettivi che come fictio politico/formale). Non a caso Strasburgo valuta anche i curricula dei Commissari candidati. Ancora un’altra differenza dal tipico rapporto fiduciario parlamento/governo. Al massimo richiamante il ruolo del Senato degli Stati Uniti (manca la fiducia esecutivo/governo) rispetto alle indicazioni della Casa Bianca ad importanti uffici.
È questo il terreno, già evidenziato dal voto contrario alla Von der Leyen, dove ora l’on. Meloni gioca la complessa partita delle nomine dei Commissari (i “top jobs”) in UE. Il quesito irrisolto è se in materia, la nostra Presidente del Consiglio tratterà, prioritariamente, come inquilina di Palazzo Chigi oppure da leader di un partito parte dei Conservatori Europei. Come accadrebbe per la scelta dei ministri in un Parlamento nazionale.
Merita quindi chiedersi se, nelle trattative per le nomine in UE, sia in gioco primariamente il peso politico dell’Italia o se il vero confronto vedrà prevalere, data la relativa atipicità della maggioranza di governo in Italia, i rapporti tra le famiglie politiche del Parlamento Europeo. Specie se a dominarlo restano le famiglie politiche classiche (popolari, liberali, socialisti, al massimo verdi) presenti da tempo sulla scena politica tradizionale dei singoli Paesi membri dell’UE. Così potrebbero emergere in queste oligarchie, sia spinte all’integrazione che, per istinto di autoconservazione, pulsioni alla chiusura considerando i “nuovi” solo come parvenu. Una sfida per l’on. Meloni.
Come detto, il gioco si complica se dalle urne europee, come dalle nazionali, emergono nuove forze politiche “altre” rispetto al gioco politico tradizionale. Certo, le trattative tra Stati, che restano il perno dell’UE, devono tenere conto anche delle famiglie partitiche. Ma quanto? Il rischio per gli Stati i cui governi sono estranei agli equilibri tradizionali (in parte l’italiano) è quello di incontrare difficoltà. Questo spiega quelle che sembrano oscillazioni della Presidente del Consiglio sul votare o meno la von der Leyen. Evidenziando il doppio ruolo imposto ad una “diversa” leadership nata dalle elezioni e così esposta alla sfida tra antagonismo tradizionale e integrazione. Comunque a vincere o perdere sarà il Belpaese, come dovrebbe capire anche l’opposizione.
Sullo sfondo l’atipicità di quella particolare organizzazione internazionale con aspetti latamente confederali che è l’Unione Europea.
L’articolo Top jobs, little Italy proviene da ytali..