Povero Santos! Per la prima volta nella sua ultracentenaria storia, uno dei club più prestigiosi al mondo sarà costretto a giocare nell’equivalente della nostra Serie B. Basterebbe questo per comprendere la crisi nella quale versa il calcio brasiliano e, diremmo, l’intero Paese. Il Santos, infatti, è stato il club di Pelé: il più grande campione che si ricordi, il mito capace di condurre il Brasile per tre volte alla conquista della Coppa Rimet, l’attrattiva globale che, in un calcio ancora provinciale, consentiva alla società di guadagnare soldi un po’ ovunque, organizzando prestigiose amichevoli che attiravano folle desiderose di vedere da vicino la leggenda carioca. Tutto questo è svanito da tempo. Oggi il Santos condivide le amare sorti del pallone latinoamericano, con le compagini più prestigiose costrette a vedere i propri talenti emigrare in Europa ancora giovani, se non giovanissimi, e nazionali ormai prive dell’antico fascino, imarbarite ed europeizzate al punto che non esiste più alcuna distinzione fra il gioco dei verdeoro e quello dei tedeschi.
Addio alla Ginga e alla poesia del calcio “bailado”, quando i fuoriclasse imparavano a giocare scalzi nelle favelas e vedevano in una palla di stracci la propria opportunità di riscatto. Addio a Pelé, Garrincha e Vavá, addio alla magia dello squadrone che ci sconfisse nel ’70, addio persino a Romario, Ronaldo e Ronaldinho, addio al Brasile dell’arte povera ma bella, addio alla purezza, addio al Novecento, semplicemente addio a un universo valoriale che non esiste più. C’è ancora la miseria, anzi è aumentata, al pari delle disuguaglianze, ma non c’è più la fantasia: quella sagacia che, in passato, è sempre venuta in soccorso agli infelici mentre oggi non è più così.
La retrocessione del Santos, per intenderci, equivale a una retrocessione sul campo dell’Inter o della Juve. Se non si fosse materializzata davanti a noi, non ci avremmo creduto. Ora che è avvenuta, ci rifiutiamo di accettarla, anche se dobbiamo imparare a fare i conti con una realtà in cui non c’è più alcun rispetto per la storia, la tradizione, la passione dei tifosi e tutto ciò per cui un tempo amavamo questo sport. Adesso bastano i petrodollari di un qualche sceicco per fare la differenza. Ecco, dunque, che anche squadrette senza passato e, probabilmente, senza futuro, ahinoi, egemonizzano il presente.
Quanto a Pelé, se avesse giocato oggi, a sedici anni se lo sarebbe accaparrato il Real Madrid o qualche squadra inglese, lo avrebbe coperto d’oro e gli avrebbe consentito di vincere una messe di palloni d’oro. A suo tempo, il governo brasiliano lo dichiarò, invece, patrimonio nazionale, consentendogli di andare a giocare altrove solo a fine carriera, quando ormai aveva ancora poco da dire e da dare e poté accasarsi ai Cosmos di New York, in un campionato, quello americano, poco più che amatoriale. Non rimpiangiamo quei tempi, specie se pensiamo che il Brasile era governato da una dittatura, ma non ci piacciono neanche questi. Lo abbiamo detto e scritto mille volte che non esiste piu un’epica, che è svanito il pathos, che si è persa la meraviglia in ogni ambito e che anche il Dio pallone si è pericolosamente normalizzato. Poi, però, retrocede il Santos e ci accorgiamo, pur trovandoci all’altro capo del mondo, che abbiamo gli occhi lucidi. Al che capiamo che non tutto è perduto ma, più che mai, che non ci si può occupare di calcio se non si capisce la vita.
L’articolo Pelé non abita più qui proviene da ytali..