[© una città]
Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, ha insegnato Filosofia politica all’Università La Sapienza di Roma. È stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino. È membro della Grüne Akademie della Böll Stiftung di Berlino. Ha pubblicato, tra l’altro, Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coscienza europea, Donzelli, 1993; Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Donzelli, 2013; Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca (con P. Ciocca), Donzelli, 2017.
Alla fine del 2022 (“Una città”, n. 289) abbiamo fatto il punto sulla Germania e sull’Europa. Oggi come vedi la situazione?
Io oggi vedo il rischio serio che l’Europa salti, non solo perché Macron ha detto: “Notre Europe peut mourir” – ai francesi piacciono queste frasi enfatiche; lo stesso presidente tedesco Steinmeier l’altro giorno, nel corso di una conferenza a Bruges, dove c’è la scuola per la formazione di dirigenti europei, ha detto anche lui che c’è un rischio serio per l’esistenza dell’Europa.
Dopo l’invasione di Putin, il problema era come avrebbero reagito l’Europa e l’Occidente. Bisogna dire che abbiamo reagito un po’ meglio di quello che si temeva. Il problema è che mentre i politici in qualche modo hanno fatto il loro lavoro, la gente normale non ne vuol sentir parlare. Noi tutti ci riempiamo la bocca della società civile, della politica corrotta, ma una parte degli europei sta molto comoda come sta, e di intervenire non vuol sentire parlare… una situazione di tranquillità che ricorda quella dell’Europa del 1939. “Mourir pour Dantzig?”. Morire per Danzica? E perché?
Però sappiamo com’è andata a finire l’altra volta…
Il fatto è che chi aveva quella memoria non c’è più. Non c’è più chi ricorda cos’hanno significato quelle decisioni, la solitudine inglese contro Hitler, la scelta degli americani; non ci sono più nemmeno esponenti politici che ricordino questo, invece l’Europa l’ha fatta gente che ricordava la guerra, che aveva combattuto in nome dell’antifascismo e dell’antitotalitarismo.
Oggi la gente è convinta che basti lo Stato, che è considerato una sorta di bancomat, che sia tutto normale così. L’altro giorno in un bar c’erano questi due ragazzi che parlavano del lavoro e uno se n’è uscito: “Il posto fisso? Ma che significa, che allora il pomeriggio non è mai libero? E come si fa?”. È una battuta, però… cioè, noi potevamo sentirci più di destra o di sinistra, però per tutti noi l’idea di un impegno era presente, impegno anche gratuito; ecco, questo non c’è più.
Oggi in Germania, soprattutto all’Est -ci torneremo- c’è una frangia composta da filo-putiniani, filo-nazisti e gente legata a questo nuovo movimento di Sahra Wagenknecht che ricordano una componente di Weimar, i rossobruni, i nazibolscevichi. Questi cosa propongono? Uno stato sociale senza limiti e senza vincoli, e pace: perché dobbiamo spendere soldi per dare armi all’Ucraina? Tutto ciò mette in grandissima difficoltà l’Spd, il partito socialdemocratico. Come fa un partito socialdemocratico a dire: trasformiamo gli aratri in armi? Perché poi è questo che bisognerebbe dire. Per una sinistra moderata è una fatica immensa.
Lo stesso discorso vale per Macron, lui ci ha provato e infatti sta perdendo. Va anche detto che c’è un odio contro Macron; lì non c’è solo la sinistra di Mélenchon e la destra di Le Pen; in Francia c’è anche un elemento antiparigino, cioè la provincia profonda francese odia Parigi e Macron è proprio il simbolo di questa aristocrazia amministrativa, di quest’idea monarchica del potere. Lì c’è la componente proprio francese. Però in generale possiamo dire che oggi l’Europa, che è nata sull’alleanza franco-tedesca, soffre della crisi di questa alleanza, che attualmente è fatta di due debolezze. Se pensiamo a De Gaulle e Adenauer, a Mitterrand e Kohl… Adesso sono due debolezze che devono cercare di uscirne, ma non so come e se ce la faranno.
La Francia storicamente ha sempre boicottato l’Europa. Per due motivi, perché si ritiene ancora una grande potenza coloniale e imperiale e perché pensa di essere il modello della guida dell’Europa. Nel 1953 ha fatto cadere l’idea di darci una difesa comune. Nel 2005 ha bocciato il progetto di costituzione. Ricordiamoci poi che l’antisemitismo nasce in Francia, non in Germania. La Francia profonda è un mix di posizioni di antisemitismo, di nazismo, ecc. E poi non ha mai amato l’Europa. Prima ci si è avvicinata, male, con De Gaulle, l’Europa delle Patrie, poi si è aperta sperando in questa alleanza, ma comunque ha molto faticato. Per la Germania invece l’Unione rappresentava il suo motivo esistenziale: poteva sopravvivere e trovare anche la propria unificazione nazionale solo grazie e con l’Europa. La Germania, tra l’altro, è l’unico stato nazionale europeo che ha il progetto europeo in costituzione. Dopo la guerra doveva uscire dalla tragedia e l’Europa era il contenitore grazie al quale poter far rinascere lo stato nazionale tedesco. Oggi questo consenso filoeuropeo si è indebolito, anche se i tedeschi, a differenza dei francesi, non attaccano direttamente l’Europa, ma indeboliscono le forze europeiste, per esempio votando Sahra Wagenknecht.
C’è un ulteriore elemento su cui dovremmo tornare a ragionare. Nel famoso discorso tenuto alla Knesset nel 2008, la Merkel disse che l’esistenza di Israele era componente essenziale della ragione di stato tedesca, Deutsche Staatsräson. Nel momento in cui tra la gioventù tedesca monta di fatto un antisemitismo, crolla uno degli antemurali spirituali su cui si è formata la nostra generazione, nata nel dopoguerra: la lotta per cambiare la Germania in nome della lotta contro la Shoah. Se oggi dei giovani credono che il nuovo genocidio lo stiano facendo quelli che lo hanno subito, beh, questo mina uno dei punti cardinali del dopoguerra spirituale tedesco. Il calo dei Verdi, un partito sostanzialmente di giovani, si spiega col fatto che una parte di loro ha votato per i nazisti proprio a causa del venir meno di questo vincolo spirituale legato alla colpa storica della Shoah.
Puoi parlarci del movimento di Sahra Wagenknecht?
La Wagenknecht è una donna intelligente che sa usare molto bene i media e soprattutto la televisione. È moglie di Oscar Lafontaine, e cioè di uno dei nipotini di Willy Brandt. Dopo che Kohl, il cancelliere dell’unificazione, nel 1998 fu mandato a casa, lui divenne ministro delle finanze di Schröder. Quest’ultimo, che certo si è comportato malissimo per quanto riguarda Putin, all’epoca però fece una scelta radicale dicendo che, vista la situazione, bisognava mettere mano a riforme, anche dolorose, ma necessarie. Su questo Lafontaine ruppe e formò quella che sarebbe diventata la Linke, la sinistra, che negli anni ha vivacchiato, senza grandi opportunità, con un pochettino di rappresentanza nei Lander della Germania orientale, perché raccoglieva anche i voti degli ex comunisti.
A un certo punto, quando arriva la guerra e va in crisi quel modello economico portato al grande successo sotto il governo della Merkel, fondato su un export finanziato e aiutato dall’energia a basso prezzo di Putin, chiudendo non uno ma due occhi sul Nord Stream, quando, cioè, la forza economica della Germania comincia a vacillare e si rende inevitabile riformare lo stato sociale, Wagenknecht comincia ad agitarsi, col vantaggio di potersi presentare, a differenza dei nazi comunque stigmatizzati, come una persona storicamente di sinistra, quindi non accusabile di essere una fascista nel giocare le carte di una radicalizzazione dei temi sociali (occupazione, salari, eccetera), della polemica sull’immigrazione, giocata sul risentimento di strati popolari e, infine, del pacifismo.
Di qui il suo successo. Molti pensavano che avrebbe in qualche modo svuotato o limitato il successo dell’Fda, invece questo non è avvenuto. Lei ha piuttosto svuotato il bacino elettorale della vecchia Linke, che ormai praticamente non esiste più, non ha ottenuto il quorum e ha sottratto voti ai socialdemocratici.
Ora bisognerà vedere cosa succede alle prossime elezioni regionali che si terranno a settembre-ottobre nei Lander dell’Est, Turingia, Brandeburgo e Sassonia. L’Spd perderà clamorosamente. Non è neanche detto che il governo sopravviva, anche se ormai siamo a settembre-ottobre e in Germania è difficile votare d’inverno, per cui è probabile che il governo vivacchi, perché i tedeschi non amano le cose all’inglese o alla francese. Poi hanno la sfiducia costruttiva, quindi sarebbe complicato. E comunque in Germania non si governa con un governo tecnico. Non funziona. È avvenuto solo in due casi nel dopoguerra, il più famoso è quello dell’82, con il governo di Helmut Schmidt, anche lui molto in difficoltà nel partito per via dei missili Ss-20. All’epoca poi c’erano quattro partiti, la Cdu, la Csu bavarese più Spd e Liberali, ancora non c’erano i Verdi, e a quel punto i Liberali si sganciarono dal governo, Schmidt pose la fiducia, non la ottenne, ma la ottenne Kohl, appunto con la sfiducia costruttiva, e però sei mesi dopo indisse le elezioni perché voleva essere legittimato da un voto popolare.
Vedremo se sopravviveranno al voto di autunno. Ora devono anche fare la legge di bilancio. Ebbene, sono in tre al governo: i Verdi che vogliono i soldi per combattere il climate change; l’Spd li vorrebbe per finanziare lo stato sociale, e poi ci sono i Liberali che invece difendono l’ortodossia liberista… è difficile combinare queste diverse istanze, soprattutto quando non c’è un cancelliere forte. La Germania non è una repubblica presidenziale, ma è una repubblica del cancellierato. I cancellieri sono importanti: Adenauer, Brandt, Kohl, Schmidt, Merkel, tutti personaggi che, ognuno a suo modo, sono entrati nella storia della Germania. Un cancelliere debole è una contraddizione in termini nel modello diciamo costituzionale tedesco.
Quindi che succederà? Boh!
Come sempre i popolari, la democrazia cristiana, hanno una loro forza, e sono una base europeista, però da soli non possono fare il governo. Con chi lo fanno? Possiamo ipotizzare un’altra grande coalizione con una Spd praticamente sfaldata, un partito liberale che vivacchia intorno al cinque per cento? E i Verdi? La vecchia idea della Merkel era di fare un governo nero-verde; ce la fanno? Sulla guerra sono d’accordo, perché i Verdi sono anti-putiniani; il punto debole è l’immigrazione e anche l’energia atomica. Quella per i Verdi è dura da mandar giù, è uno degli elementi costitutivi della loro formazione.
Questa situazione sta impattando anche sull’Unione europea. Gli europei sono tanto bravi, però se non c’è un federatore, un egemone, sia pure benevolo, sia pure riluttante, l’Europa non esiste. Se non c’era la Merkel, l’Europa sulla crisi economica si sfaldava, poi lei si è presa molte critiche, i greci la disegnavano come Hitler, ma ha tenuto in pugno la situazione. Insomma, è tutto molto complicato. Sullo sfondo poi c’è un altro discorso: è il modello occidentale a essere sotto attacco, il sistema dei valori occidentale. Purtroppo nelle opinioni pubbliche occidentali prevale un senso di disinteresse. Come disse una volta Norberto Bobbio, la libertà è come l’aria, te ne accorgi quando ti manca, e a quel punto però è troppo tardi.
Tu sostieni che per ricostituire l’Europa bisogna partire dai paesi dell’Est. Puoi spiegare?
Intanto secondo me noi abbiamo fatto un grande errore, forse inevitabile, quando abbiamo parlato di allargamento: allargamento di che? Cioè l’Unione doveva essere un’altra cosa, non noi che accogliamo dei poveracci a casa nostra. L’Europa andava rifondata tenendo conto di quello che era avvenuto dopo la caduta del Muro di Berlino, approfittando dell’entrata dei fratelli orientali che noi ci eravamo dimenticati. Kundera su questo aveva ragione quando parlava dell’Occidente rapito.
Voglio aggiungere una cosa; la butto lì: ma come mai in tanti anni, abbiamo giustamente fatto la battaglia contro l’antisemitismo, abbiamo istituito il Giorno della memoria, abbiamo letto Primo Levi, benissimo, ma com’è che nessuno ha mai parlato di quello che Lemkin, un ebreo polacco, aveva definito un genocidio, cioè quello appunto dell’Ucraina? Niente, silenzio! Noi non abbiamo riconosciuto a loro nessuna sofferenza. Nessuno di noi ha detto: abbracciamoci perché pure voi avete sofferto. Anzi, si sono sentiti tanti mugugni: “Eh, ma Stalin ha fatto la lotta antifascista, antinazista…”.
Detto questo, l’Unione europea è nata in un contesto preciso: dopo una guerra, con il mondo diviso. Ricordo sempre che all’epoca si diceva che la Nato e l’Ue erano nati con tre obiettivi: mantenere i tedeschi giù, i russi fuori e gli americani dentro. Ora gli americani se ne vanno, i russi sono tornati e i tedeschi stanno facendo un macello!
Io penso che come una guerra fece nascere l’Europa, questa guerra forse porterà a una nuova Europa oppure chissà… Tra l’altro, si parla sempre di Europa, anch’io cado in questo errore. No, bisogna dire: “Unione europea”, perché l’Europa c’è sempre stata e ci sarà anche dopo di noi. Ben disse la prima ministra inglese, ai tempi della Brexit: “Guardate che noi non usciamo dall’Europa, noi siamo l’Europa, usciamo dall’Unione europea…”.
Purtroppo questa è un’unione un po’ stiracchiata, abbiamo recuperato il referendum negativo francese e olandese con il trattato di Lisbona che non era una Costituzione, ma qualcosa di simile, ma alla fine poi abbiamo prevalentemente un’unione economica, in parte finanziaria. Abbiamo rinunciato a ogni progetto di unione politica, anche perché ora non passerebbe mai. In questo momento non vedo come si possa rifondare questa Europa.
Tra l’altro, se entra, l’Ucraina è più grande della Francia. Non solo, ha un’economia agricola che fa saltare tutte le regole e i compromessi che hanno tenuto insieme l’Unione.
Esiste uno spirito costituente di questa Europa? Io oggi non lo vedo. Vedo grandi difficoltà e, per la prima volta, temo che il progetto nato dopo il 1945 sia messo seriamente in discussione. Poi, voglio dire, una soluzione si trova sempre, la vita continua; certo che se penso che l’unico governo forte oggi è quello della Meloni…
Da tempo esprimi scetticismo sull’idea degli “Stati Uniti” d’Europa.
L’idea degli Stati Uniti d’Europa in realtà viene prima di Spinelli, Colorni, ecc. Risale al 1925, al congresso della Spd, quando Rudolf Hilferding, uno dei suoi massimi teorici, quello che ha scritto Il capitale finanziario, parlò appunto di “Stati Uniti d’Europa”. C’era ancora la Repubblica di Weimar. Il programma di Ventotene viene dopo e per certi versi è un testo molto radicale, a tratti è leninismo puro: bisogna agire alle spalle, non dire niente a nessuno, via con i colpi di stato, dominare…
Ovviamente bisogna anche considerare la temperie: c’era la guerra, la morte. Dietro c’era la vecchia tesi, presa da autori come Stefan Zweig e da altri scrittori mitteleuropei, per cui siccome gli stati nazionali erano stati la causa del nazionalismo, e quindi della guerra, andavano aboliti. Gli scrittori austro-ungarici avevano visto come le varie nazionalità avessero fatto saltare l’equilibrio dell’impero austro-ungarico e soprattutto quella coesistenza di popoli di diverse religioni, per primo quella ebraica. Pare che alla notizia dell’attentato di Sarajevo, in una caserma austro-ungarica, i croati cominciarono subito a sparare contro i serbi. È anche la storia della ex Jugoslavia. Quella degli “Stati Uniti” è pure la formula che fu citata nel discorso di Zurigo da Churchill, cioè da colui che non voleva farne parte.
Comunque il fatto è che le nazioni esistono. Le nazioni europee non sono solo nazionalismo, sono cultura, lingua, tradizione. Soprattutto sono forme complicate di organizzazione della società. Il ruolo che ha la famiglia in Italia, come compensazione dello stato sociale, in Svezia è impensabile. Ogni storia economica è una storia di compromessi. Gli italiani per oltre il 70% sono proprietari di case. I tedeschi non si comprano le case: vanno in affitto e si mangiano i soldi con le vacanze! Lo stato sociale viene declinato come vengono declinate le lingue europee. Questo non significa che è impossibile trovare un accordo, però appunto bisogna trovarlo. Si parla sempre del “momento hamiltoniano” (in riferimento alla mutualizzazione dei debiti realizzata negli Stati Uniti nel 1790). Beh, quando si cita questa grande amicizia tra gli Stati bisognerebbe ricordarsi che hanno avuto una guerra civile che gli è costata più morti delle due guerre mondiali. Secondo, quello è un paese senza storia, o meglio, la storia che c’era l’hanno cancellata. Sono nati sulla liquidazione delle culture locali. E poi c’è il modello federale. Gli europei accetterebbero che, come è avvenuto con Trump, la Clinton perda benché abbia preso due milioni di voti in più? Da noi sarebbe impensabile! “Eh, ma è perché la Val d’Aosta ha votato per Trump…”.
Da questo punto di vista, anche l’idea di ridurre il potere del Consiglio europeo, perché lì c’è l’egoismo degli Stati, per dare più potere al Parlamento, mah. Se la maggioranza di un parlamento simile decidesse di entrare in guerra, siamo sicuri che un padre italiano, in base a un voto europeo, sarebbe d’accordo a mandare i figli a morire? Mi sembra difficile… Secondo me quello che noi dobbiamo costruire è un’opinione pubblica europea in cui viga un rapporto di mutua fiducia tra europei che credono di stare assieme dalla stessa parte della storia. Ma questo è ancora lontano da raggiungere. Insomma, io non credo a questa retorica degli Stati Uniti d’Europa. La Corte Costituzionale tedesca ha un’autorità che la Corte italiana non ha. Noi, su pressione delle istituzioni europee, abbiamo messo in Costituzione il vincolo di bilancio e tutti zitti.
Invece la Corte Costituzionale tedesca ha fatto due obiezioni. La prima (che in Italia nessuno ricorda) è che il Parlamento europeo non funziona secondo il principio “una testa un voto”, perché la testa di un cipriota vale dieci volte la testa di un tedesco. Questo si spiega perché se non ci fosse questa rappresentatività decrescente, la Germania sbancherebbe. Ma questo è un meccanismo previsto negli Stati federali accanto a un Parlamento che vota. In Germania il Lander di Brema, che è una città, conta due voti, mentre il Lander dell’Essen, dieci volte più grande, ha solo tre voti. Perché c’è una perequazione, a proposito delle discussioni che si fanno adesso sull’autonomia differenziata, che è giusta, perché altrimenti tutti i soldi andrebbero alla Lombardia e al Molise zero. Però c’è il Parlamento, dove ogni cittadino vota. Allora, la Corte Costituzionale tedesca ha detto che la rappresentanza democratica del Parlamento europeo è limitata. In secondo luogo, ha fatto presente che l’Unione europea oggi rappresenta una via di mezzo tra una semplice confederazione di Stati e uno Stato federale, definendola una “unione federata di Stati nazionali”. Quindi molto di più di una confederazione di Stati che stanno per sé, ma di meno di uno Stato federale, come sono, per esempio, la Germania o la Svizzera.
Io credo che questo sia il modello verso cui inevitabilmente si andrà.
Poi nell’imperativo europeo c’è anche sempre l’idea di fare meglio ma meno. Oggi l’Europa si occupa di troppe cose minute. Perché mi vuoi dare pure le misure della mozzarella? Ma lasciatemi stare! Decidiamo invece sulla guerra, sulle cose importanti. Questo sarebbe anche previsto. Purtroppo anche l’apparato burocratico di Bruxelles tende ad allargarsi in maniera eccessiva.
Comunque, come dicevo, io sono convinto che gli Stati nazionali esistano ancora, ma che non siano più quelli classici, cioè assolutamente gelosi di tutte le loro competenze. Quelli attuali sono Stati nazionali “post-classici”, nel senso che hanno deciso, per motivi strategici, di delegare a un tertium, che è l’Unione europea, una parte della loro sovranità. Attenzione: affinché la loro stessa sovranità, quella che rimane, venga tutelata al meglio. Questa era anche la posizione di Mario Draghi. Per questo le polemiche populiste contro l’Unione sono pretestuose: ciascuno di noi, da solo, oggi è troppo debole per difendere la propria sovranità. Dopodiché ogni Stato mantiene una propria competenza culturale, linguistica.
Anche qui: che lingua parla l’Europa? Come ci capiamo? La lingua conta. Se non puoi affidarti alla retorica per convincere in politica, come fai? Questa è una cosa a cui tengo molto: le lingue europee vanno difese. Nella Ue esiste una legge (che non viene applicata) che prevederebbe per tutti i ragazzi, accanto alla lingua nazionale, lo studio di una lingua di commercio, che poi è l’inglese, e poi una lingua europea da adottare. Può essere il rumeno, può essere il tedesco. Certo, possiamo tradurre tutto, ma se ti piace Dante, lo devi leggere in italiano. Se vuoi leggere Goethe, devi studiare il tedesco, perché le lingue, come lo stato sociale, sono concrezioni di esperienza storica. Infatti i grandi linguisti sostengono che non è possibile tradurre veramente una parola in un’altra.
Jürgen Trabant, professore di linguistica romanza all’Università libera di Berlino, sostiene che ormai parliamo tutti il “Globalesisch”, una lingua che è buona per ordinare le pizze! Ormai succede che a convegni in cui c’è un italiano, un inglese, un tedesco, invece di tradurre, cioè di portare il significato di una parola in un’altra lingua, viene fuori una cacofonia… Sembra un paradosso, ma io in Germania ho assistito a convegni su Hegel in inglese!
Di tutto ciò purtroppo non si discute mai. Questo tra l’altro verrebbe molto in aiuto anche dei paesi dell’Est, che sono molto gelosi della loro recente autonomia. Di nuovo, non è solo nazionalismo. Certo, poi ci sono le degenerazioni alla Orban, che tra l’altro era nato filoeuropeista e oppositore del regime comunista. Anche lì bisognerebbe capire meglio, discutere…
Nell’ultima intervista tu hai molto insistito sul fatto che la Germania ha fatto i conti con il passato e che non dovevamo più preoccuparci di questo…
Invece adesso dobbiamo ricominciare a preoccuparci!
Volevamo appunto chiederti come interpreti i recenti risultati alle elezioni europee.
I giovani manifestano apertamente spinte antisemite e non solo all’Est. D’altra parte se lo slogan è “From the river to the sea”, significa “fuori gli ebrei”.
A me oggi non preoccupano i vecchi nostalgici, ma i giovani. Da tempo c’è tutta una campagna di autori di origine diciamo sud-globale, che hanno rovesciato il ragionamento. Loro dicono: “Non è vero che voi tedeschi avete fatto i conti col passato: state con Israele!”, “State dalla parte di coloro che oggi commettono il genocidio, quindi che volete?”.
Pankaj Mishra, saggista indiano, ha scritto un articolo sulla London Review of Books attaccando frontalmente i tedeschi. Dicendo: voi pensate di esservi lavata la coscienza, ma ce l’avete sporca, perché state con Israele. Questo è un vulnus profondo nella cultura tedesca. Però, devo dire che in Germania almeno di questo si discute. Qualche settimana fa, c’è stato un bel convegno all’Università libera di Berlino sul problema dell’antisemitismo e Israele. C’era anche Cohn-Bendit. Solo che poi mi hanno chiamato gli amici: “Angelo, eravamo tutti vecchi, di giovani non c’era nessuno”.
È proprio in atto un cortocircuito.
Sì, in cui c’è anche tutto un recupero del terzomondismo storico, Frantz Fanon, i dannati della terra, più il terzomondismo degli anni Cinquanta, i paesi non allineati, eccetera, a cui si aggiunge un antioccidentalismo che viene anche dall’accademia francese, eccetera, che sta diventando una componente forte di questa sorta di “lotta contro noi stessi”, che i giovani fanno. Poi se chiedi loro cosa vogliono, ti rispondono: “Basta col colonialismo!”. Ora, i primi a fare la tratta di schiavi erano i capi africani e c’è stata una forma di dominio, di schiavitù, pure nei paesi dell’America centrale. Ma non c’è solo questo. Voglio dire, Seneca amava l’umanità, ma per lui gli schiavi non erano uomini. Prima di arrivare a un concetto di umanità che comprenda tutti, ce n’è voluto. Che facciamo? Bruciamo Seneca? Non lo leggiamo più?
Probabilmente i giovani, come d’altra parte è capitato a noi, dicono anche delle stupidaggini. Non capiscono che rischio c’è oggi per le società occidentali.
Il problema è che la democrazia è una cosa faticosa, lenta, difficile. Putin riesce a mandare al macello centinaia di migliaia di giovani senza problemi e se uno protesta gli danno trent’anni. Per non parlare della Cina.
Ora gli occhi sono puntati anche sulle elezioni americane. Poi c’è l’Ucraina…
È evidente che la guerra in Ucraina dipenderà pure da come si posizionano gli americani, i cinesi… La Russia la guerra l’ha già persa. Perché contava su un intervento lampo e noi tutti zitti. Questo non è avvenuto. Purtroppo ci sono centinaia di migliaia di morti. Noi non sappiamo cosa succederà con l’elezione americana e con la guerra del Medio Oriente. È tutto molto difficile, molto complicato. Nessuno oggi sembra in grado di governare e questo è pericoloso. Prima funzionava la deterrenza. Adesso abbiamo la deterrenza al contrario. Prima la minaccia era un modo per mantenere la pace. Adesso la bomba atomica è un modo per fare la guerra.
Quelli che dicono: “La pace, la pace” non si sono accorti che è cambiato proprio il linguaggio. Oggi di fronte a una potenza revisionista come quella di Putin, che è disposto a far saltare il tavolo, la bomba atomica è diventata uno strumento non di deterrenza, ma di minaccia. Che ti costringe ad accettare le scelte irresponsabili v. Pena appunto la bomba. Questo è il ragionamento sviluppato da Habermas e altri, che si è inviluppato in una specie di pasticcio la cui conclusione è che se interveniamo tiriamo in ballo la bomba atomica. Ma allora come lo fermiamo? Arrendendoci? Mah!
Ringraziamo la direzione di una città per averci consentito
la pubblicazione integrale della conversazione con il prof. Bolaffi
L’articolo Quindi che succederà? proviene da ytali..