Quando fu avviato l’iter legislativo per modificare il Titolo V della Costituzione, che si sarebbe concluso con la legge costituzionale 3/2001, noi “politici di provincia” ci affidammo ai molti e autorevoli esperti giuristi (di centrosinistra) che avevano lavorato al nuovo testo costituzionale.
Non riuscivamo a immaginare che il risultato sarebbe stato un mostro ingestibile, portatore di altre mostruosità.
L’idea del federalismo o di un regionalismo forte, in verità, non era solo un modo per cercare di occupare un terreno della Lega, ma anche un modo per ascoltare le richieste del territorio: questa era l’idea di fondo; i tecnicismi dovevano essere affrontati e risolti dagli esperti.
Certo, non doveva essere l’unico modo per ascoltare il territorio; c’erano altri temi sui quali la sinistra era (e sarebbe rimasta) piuttosto indietro, a partire dal tema della sicurezza e dell’immigrazione, questioni che, come si sa, generalmente si scaricano sulle periferie e su determinate categorie sociali, come gli anziani e le fasce meno abbienti della popolazione.
Non fu colpa da poco, vista con la sensibilità di oggi, quella di avere accettato a occhi quasi chiusi la proposta che veniva dall’alto del centrosinistra. Oggi le cose sono molto cambiate, e molti – anche agli alti livelli – non credono più nell’autonomia differenziata, ma non possono prendersela con l’art. 116 che vollero allora, e quindi lo fanno con la legge-quadro di Calderoli, da poco varata dal Parlamento, al punto da aver raccolto le firme per un referendum abrogativo.
Ma torniamo all’inizio.
Quella legge costituzionale del 2001, che aveva modificato radicalmente i rapporti tra Stato e Regione, venne poi confermata da un referendum al quale partecipò il 34% degli elettori; il Sì alla modifica della Costituzione ottenne il 62% dei voti: l’unico referendum costituzionale risoltosi positivamente.
Quella legge aveva vari punti di forza, ma per restare al tema dell’autonomia differenziata, individuava le competenze esclusive della Stato, quelle concorrenti (nelle quali lo Stato indicava i principi fondamentali e la Regione legiferava, su quella base) e quelle esclusive della Regione.
Inoltre prevedeva (art. 116) che potessero essere concesse alle Regioni richiedenti ulteriori forme di autonomia.
Negli anni successivi, però, non vi furono sviluppi nel senso dell’autonomia differenziata; al contrario, vi furono varie tensioni tra Stato e Regioni, con ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale.
Non contenti del nuovo Titolo V, nel 2006 a destra tentarono un’ampia riforma costituzionale in senso devoluzionista, che, in realtà per certi aspetti, anticipava l’attuazione quanto già previsto dall’art. 116 del 2001 e, per altri, era più centralista; in ogni caso, questa riforma venne bocciata dal secondo referendum costituzionale.
Intanto ancora poco o nulla accadeva in relazione alle “ulteriori forme di autonomia”; per questo motivo, nel 2017 tre Regioni (Emilia Romagna, Veneto e Lombardia) avviarono il processo, sia pure in modo diverso: l’Emilia Romagna con una risoluzione dell’Assemblea regionale e le altre due Regioni con un referendum.
Nel 2018 (governo Gentiloni) si giunse alla firma degli Accordi preliminari tra il Governo e le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, in attuazione dell’art. 116 della Costituzione.
Successivamente a questi primi accordi, altre Regioni manifestarono ufficialmente la volontà di accedere ad “ulteriori forme di autonomia”.
Solo più tardi è prevalso l’orientamento di far precedere la stipula delle intese dall’approvazione di una legge-quadro per definire le modalità di attuazione dell’articolo 116: recentemente approvata dal Parlamento, la cosiddetta “legge Calderoli”.
Da osservatore non giurista, ho ricordato alcuni passaggi politici che mi sembrano rilevanti, ma uno mi sembra fondamentale, anche in relazione all’attuale richiesta di referendum per l’abrogazione della legge Calderoli: il fatto che con il governo Gentiloni si sia addivenuti alle Intese tra lo Stato e tre Regioni, sta a dimostrare che la legge-quadro non è necessaria, in quanto non prevista dalla Costituzione, che già definisce le procedure di approvazione delle richieste di ulteriori forme di autonomia: intesa tra Stato e Regione richiedente e approvazione del Parlamento a maggioranza assoluta.
Questo procedimento venne chiaramente individuato dalla Corte costituzionale quando autorizzò il referendum consultivo del Veneto: il “procedimento prestabilito all’art. 116 Cost., (…) richiede l’approvazione di una legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, con voto favorevole delle Camere a maggioranza assoluta dei propri componenti e sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione stessa.”
Certamente sarebbe interessante passare ad una analisi della legge Calderoli e delle modifiche proposte dal Centrosinistra, ma poiché stiamo parlando di un referendum integralmente abrogativo della legge, non ha più senso entrare in questo merito.
Del resto, l’impressione che ho maturato in questi anni, è che la contrarietà vera sia in merito ai contenuti dell’art. 116, più che in relazione alla recente legge-quadro.
Interessante, a questo proposito, l’intervista rilasciata dall’On. Martella al Corriere, laddove afferma che
La strada giusta sarebbe stata un’altra, seguendo la nostra proposta di un progetto cooperativo tra Stato e Regioni escludendo prerogative nazionali come scuola, energia, grandi reti di comunicazione; l’On. Martella sembra prescindere dal fatto che quelle prerogative nazionali, che secondo lui dovrebbero rimanere in capo allo Stato, in verità sono oggetto di possibile devoluzione proprio ai sensi dell’art. 116, e poiché (come si è visto) non serve una legge-quadro per arrivare all’approvazione di una intesa tra Stato e regione, potremmo arrivare all’assurdo che mentre la legge-quadro nega una possibilità, quella possibilità venga percorsa grazie al dettato costituzionale.
D’altro canto, che valore potrebbe avere una legge ordinaria che limitasse i diritti previsti dalla Costituzione?
Quindi, ribadisco, il problema vero è l’art. 116, ma nessuno ha il coraggio di dire che bisogna modificarlo.
Quello che invece si potrebbe fare, è lavorare sulle funzioni; ad esempio le nove materie devolvibili senza aspettare la definizione dei Lep si articolano in 202 funzioni, all’interno di queste 202 funzioni, si possono individuare quelle da mantenere nella competenza esclusiva dello Stato centrale.
Ma non posso (innanzitutto perché non ne ho le competenze) addentrarmi in questioni tecniche, per altro di difficile comprensione per il cittadino medio; del resto non sono pochi i “tecnici” che prevedono una sostanziale inapplicabilità di questa legge-quadro sul piano istituzionale-costituzionale e sul piano economico e finanziario.
Ma il cittadino medio, che ha difficoltà a capire i meccanismi istituzionali ed economico-finanziari dell’autonomia differenziata e della legge Calderoli, sarà comunque chiamato a votare per un referendum, sempre che sia dichiarato ammissibile.
E allora, a questo cittadino bisognerebbe innanzitutto dare un’informazione corretta, non tramortirlo di slongan, informazione corretta che parte dall’ammissione di come questo referendum non riuscirà ad abrogare l’autonomia differenziata.
L’ho già detto e lo ripeto:
1. che sia ammesso o non ammesso dalla Corte costituzionale;
2. che si raggiunga o non si raggiunga il quorum;
3. che vinca il Sì o che vinca il No,
l’art. 116 della Costituzione (che prevede l’autonomia differenziata) resterà in vigore.
Ma c’è di più, l’art. 116 prevede già il procedimento per giungere all’autonomia differenziata della Regione richiedente: non serve alcuna legge-quadro.
Non a caso, nel 2018 (governo Gentiloni, Sottosegretario con delega Bressa) erano già state approvate le pre-intese tra il Governo e le Regioni Emilia Romagna, Veneto e Lombardia.
Del resto, nell’ammettere il referendum consultivo veneto sull’autonomia differenziata, la Corte costituzionale scriveva:
Occorre osservare che non vi è alcuna sovrapposizione tra la consultazione popolare regionale e il procedimento di cui all’art. 116, commi terzo e quarto, Cost., che pertanto potrà svolgersi inalterato, nel caso in cui fosse effettivamente attivato.
Infine, ecco la sorpresa che sta nella scatola del referendum abrogativo: anche se viene abrogata la legge Calderoli, nulla vieta che si possa giungere a un’Intesa tra Stato e Regione, seguendo il procedimento definito dalla Corte; e in questo caso, paradossalmente, non sarebbe nemmeno necessario aspettare l’approvazione dei Lep. Quei Lep che il centrosinistra ritiene elemento basilare di giustizia sociale, di equa distribuzione e godimento dei servizi.
Ma allora, se non è un referendum per eliminare l’autonomia differenziata, che referendum è?
Ha una valenza sostanzialmente politica; serve per “cementare” il cosiddetto campo largo, visto che – mancando gli elementi costruttivi – per il momento l’unità viene basata sulla strategia referendaria. Serve per mettere in difficoltà il governo, che dovrebbe dimettersi (ma io non credo) se i referendum bocciassero la Legge Calderoli e la riforma costituzionale del Premierato.
Il referendum però (ben più di quello costituzionale sul premierato), una volta ammesso dalla Corte costituzionale, inciderà sul tessuto politico-sociale e rischia – qualunque sia il risultato – di accentuare le fratture in un Paese già spaccato.
Tuttavia, anche il tema dell’ammissibilità presenta qualche sfaccettatura.
Se la Corte dovesse ammettere il referendum abrogativo, confermerebbe l’idea che l’attuazione dell’art. 116 non ha bisogno di una legge-quadro; se invece non lo ammettesse, crollerebbe l’impalcatura dell’opposizione politica al governo.
Senza dire che il centrosinistra sta mettendo in gioco il suo ruolo e la sua credibilità al Nord; in effetti è impossibile dimenticare che la riforma del Titolo V della Costituzione nel senso del “regionalismo forte” è stata voluta proprio dal centrosinistra, che il Pd si è espresso a favore del referendum Zaia del 2017 e che Gentiloni era Presidente del Consiglio quando vennero firmate le pre-intese: il voltafaccia di questi mesi risulta difficilmente comprensibile.
Riassumendo, la questione centrale mi pare essere questa: da un lato l’eventuale abrogazione referendaria della legge Calderoli non boccia l’autonomia differenziata, visto che l’art. 116 resterà in vigore e, come ha confermato la Corte costituzionale, prevede al suo interno il procedimento di approvazione delle intese tra Stato e Regione. Dall’altro non si capisce che visione dell’autonomia differenziata abbia il centrosinistra e come immagini l’applicazione dell’art. 116 (a meno che non ne preveda il cambiamento, ma nessuno lo ha mai lasciato intendere).
Oltre a questa, si apre, però, una più complessa questione politica che non gioca sui tempi brevi della crisi di governo (ammesso e non concesso che l’operazione riesca), ma mette in gioco il rapporto tra il centrosinistra e il nord dell’Italia, dove il tema dell’autonomia è più sentito e radicato.
Se poi la Corte costituzionale non dovesse ammettere il referendum o se, una volta ammesso, non si raggiungesse il quorum, per la Sinistra sarebbe una vera catastrofe.
Ma lasciamo che sia il tempo a darci le risposte.Nel frattempo, anche noi elettori non esperti di diritto vogliamo partecipare a un dibattito vero; e questa è l’idea che mi sono fatto: da semplice cittadino che, questa volta, cerca di capirci qualcosa.
L’articolo Autonomia differenziata. Un referendum per cosa? proviene da ytali..