È un lampo ad aprire il coro di voci femminili finemente orchestrato da Isabella Adinolfi e Lucetta Scaraffia nel loro ultimo volume collettaneo, La natura nel pensiero femminile del Novecento, di recente apparso per i tipi de il melangolo: “Il mondo è nato; vento, soffia perché duri!”, scrive Simone Weil nella poesia Lampo. Uno sprazzo di luce che filtra, obliquo, nella massa fin troppo compatta, a tratti tetra, del pensiero novecentesco, appannaggio quasi esclusivo, a ben vedere addirittura esclusivistico, di un mondo maschile, e che di esso ripete e perpetua gli stilemi, i movimenti e le ossessioni. Qualcosa di diverso, invece, tentano di disegnare i saggi delle studiose qui convocate: una sorta di geografia del margine, insulare e periferica, che sappia finalmente fare spazio alla liminare e pure decisiva presenza delle donne nella storia del pensiero, filosofico come poetico, letterario non meno che artistico. E da una precisa angolazione, forse la più adeguata per meglio comprendere la novità, radicale e inaspettata come folgore, da esse apportata, che è quella della natura. A tale sfera, infatti, il pensiero maschile ha sempre relegato la condizione femminile, trasformando quasi la femminilità in una immagine paradigmatica della naturalità, un suo surrogato immediato. Cosa accade invece nel Novecento, nel secolo lunghissimo e tragico, quando le donne, guadagnata la sfera della cultura, possono così liberamente riflettere, attraverso quelle categorie intellettuali che prima erano loro precluse, proprio sulla natura?
Questo l’interrogativo, mi pare, dal quale il pensoso volume si diparte, e sul quale ininterrottamente riviene, in un’indagine collettiva e minuziosa alla quale non manca certo, quale genuina cifra ermeneutica, l’empatia di chi sappia appunto provare nei confronti dell’autrice studiata un sentimento di compartecipazione. Sentimento certo impegnativo, quasi invadente, come sottolinea Laura Boella nel suo saggio su Sylvia Plath, ma che pure permette una diversa attenzione che mai non oggettifica, che mai si perde nell’aridità del case study. Di questo modo diverso di guardare, con uno sguardo che, pur vedendo le stesse cose che vede l’uomo, si sofferma attraverso un difficile esercizio di attenzione su particolari differenti, con intensità abissalmente lontane l’una dall’altra, danno conto i saggi più specificamente letterari della raccolta.
Antonella Salomoni restituisce al lettore italiano un prezioso ritratto di Zinaida N. Gippius, autrice tanto importante (che influì sui più grandi del secolo, basti ricordare Blok, Achmatova e Mandel’štam) quanto poco frequentata, per la quale nella poesia, da subito qualificata come preghiera, si ha da ricercare la possibilità di costruire una nuova comunità – libera, misericordiosa, giusta – che si riconosca tale a partire dalla comune partecipazione alla natura e ai suoi simboli. Forse, nella misteriosa leggenda del lago Svetloe, riecheggia l’eco antica, mai sopitasi, di una speranza che spera oltre la speranza, che chiede l’eliminazione di tutte le differenze, anche quelle che più sembrano (e a torto) naturali, ma che hanno come unico risultato quello di abbruttire l’umanità, separandola dalla natura da cui invece prende forma, e che cerca pertanto di distruggere. Di tale colpa, di tale peccato si fanno carico, trasfigurandola, scrittrici come Elsa Morante (sulla quale con acribia si sofferma Ricciarda Ricorda) e Anna Maria Ortese (il saggio è di Wanda Tommasi), non diversamente dalla poetessa e mistica Cristina Campo, l’“imperdonabile” folgorata con accento lirico da Maria Concetta Sala.
Pur nella loro irriducibile diversità, vive e respira nel pensiero poetante delle tre autrici italiane una comune aspirazione all’assoluto, all’assolutamente altro che, nel mondo umano, prende forma e simbolo nella natura, nelle sue continue metamorfosi. I gatti della Morante potrebbero, per seguire il suggerimento che suggella Aracoeli, non essere altro che nascondigli di quella verità che l’umanità non ha mangiato nell’Eden, e senza difficoltà li immaginiamo, con tenero o stizzito miagolare, acciambellati sui divanetti stile Impero che dovevano riempire le ampie stanze di Villa Putti, nell’infanzia della Campo.
Anche in quegli occhi, la “mistica per necessità” avrebbe certo avvertito, come lo sapeva avvertire nei paesaggi che tanto le erano cari, l’“attimo di maturità” che rende mistica l’unione tra uomo e natura, sovrapponendone indelebilmente i destini in un comune fato. Sono invece gli occhi del “piccolo puma” a dischiudere, nell’ardua, “povera e semplice” prosa della Ortese una dimensione inesplorata, inaccessibile al mero pensiero calcolante, e nella quale, ciò nonostante, vive la vita vera in quanto partecipe di un unico “corpo celeste”. A una destinazione più alta e ardua, che passi attraverso e che comprenda come suo momento essenziale un rapporto giusto ed equilibrato nei confronti della natura, accennano anche, forse soprattutto, le tragiche e al contempo luminose esperienze di Rosa Luxemburg e di Etty Hillesum: così diverse, così vicine, in un comune carico di morte sopportato e trasfigurato dall’intima consapevolezza (che altrimenti non si potrebbe dire se non “mistica”) che il sole si fa più splendente e caldo, si deve fare più splendente e caldo per vincere il fango di Westerbork, così come il canto delle cingallegre deve continuare a risuonare anche sulla tomba della “rosa rossa”, come ci ricordano nei loro contributi Lucetta Scaraffia (per Rosa) e Anna Foa (con Etty).
Sulla ricerca di un equilibrio nel rapporto uomo-natura, rievocando l’indimenticabile immagine egizia della bilancia, si sofferma, col suo pensiero esperto di contrariertà, Simone Weil, la pensatrice di Isabella Adinolfi: una riflessione in divenire, come ben mostra il saggio, che finisce tuttavia per trovare la sua formulazione definitiva nella legge spirituale dell’amore che “si sottrae a ogni contatto con la forza perché mai la patisce né esercita”. Ma se con Weil siamo nel momento forse più esatto e compiuto, cioè razionale, del rapporto pensiero-natura, non certo dimenticata è la prorompente carica istintuale, addirittura sensuale nella sua irrazionalità, che è da sempre connessa alla natura. Ce lo ricordano i documentati saggi di Loredana Bolzan e di Bruna Bianchi, incentrati sulle scrittrici Colette e Mary Webb, per le quali la natura è tanto sentita da rappresentare una sorta di ritorno alla terra da parte del pensiero, che qui solo può trovare, se la può trovare, la sua verità.
Nicola Golea, Trasfusione di pensieri, 120 x 90 cm., olio su tela, 2021; La ragazza in quarantena, 120 x 90 cm., olio su tela, 2021, Aspettando l’ora legale, 120 x 90 cm., olio su tela, 2021; La storia è rimasta sola, 120 x 90 cm., olio su tela, 2022
Filigranano e impreziosiscono il ricco volume le opere pittoriche di Serena Nono e di Nicola Golea, nelle quali quasi si rispecchiano, ciascuna col suo proprio e peculiare timbro, le voci convocate e fatte rivivere nell’arduo cenacolo: l’Albero dipinto dall’artista veneziana, scelto anche come immagine di copertina, richiama la profonda corrispondenza, che è anche sempre tensione e tentativo, non risolta né facilmente risolvibile compenetrazione, tra il mondo naturale – qui svettante com’è, nella folta e fruttuosa fronda – e il mondo altro, quel cielo velato da una appena percettibile coltre di nubi. Vive, accanto e nella natura, un profondo mistero, che parla di lontananze immaginabili, forse addirittura intentabili; anche se cresce, come cresce, l’oscurità (pensiamo allo splendido Notturno della Nono, non insensibile alla lezione di Henri Rousseau), sempre resta un filo e una traccia di luce da seguire, per uscire e vincere il buio. Le voci di donne qui raccolte ce lo ricordano, e ci invitato a percorrere diversamente questo sentiero.
Immagine di copertina: Serena Nono, Albero, 80 x 100 cm., olio su tela, 2021
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