Cosa vuole Biden dall’Ucraina, o dalla Russia, o dall’Europa o dal mondo dopo oltre due anni e mezzo di guerra che ha provocato centinaia di migliaia di morti tra i due eserciti, decine di migliaia di civili uccisi, milioni di sfollati, e il terrore quotidiano che attanaglia le popolazioni delle città e dei villaggi sotto i bombardamenti russi, la distruzione delle infrastrutture e della economia del paese che ormai sopravvive solo grazie agli aiuti forniti dai generosi alleati?
Riavvolgiamo il nastro di questi due anni e mezzo di guerra per capire come è andata e come sarebbe potuta andare altrimenti per capire le intenzioni del maggiore sostenitore militare dell’Ucraina — gli Stati Uniti (il contributo europeo è superiore ma è soprattutto finanziario) e cercare una risposta alla domanda: come e quando finirà?
All’inizio, negli ultimi mesi del 2021, quando la Russia aumentava le sue minacce verbali contro l’Ucraina perché non entrasse a far parte della Nato e contemporaneamente ammassava truppe ai confini occidentali per renderle credibili, gli Stati Uniti avvertirono che presto ci sarebbe stata un’invasione, nonostante gli ucraini cercassero di minimizzare per evitare di farsi trascinare in una situazione che prevedevano disastrosa per il proprio paese. In quei mesi lo stesso Zelensky ebbe a dire che “non era più tanto entusiasta all’idea di entrare nella Nato”.
Poi, a fine febbraio del 2022, l’invasione ci fu davvero, un’invasione che gli esperti militari giudicarono abbastanza anomala perché le scuole di guerra insegnano che non si invade un paese di quaranta milioni di abitanti con poco più di 150.000 soldati e una colonna di carri armati in fila come ad una parata, soprattutto senza avere fatto precedere l’invasione da una campagna di bombardamenti per distruggere le difese aeree e colpire i centri di comando militari e civili. (L’esempio di scuola è l’invasione americana dell’Iraq del 2003 in cui furono schierati 400.000 soldati che entrarono in azione dopo due settimane di massicci bombardamenti su Baghdad.)
Il consenso comune degli esperti è che si trattò di un catastrofico errore di Putin e dei suoi servizi di intelligence che gli avevano fatto credere che sarebbe bastata una “operazione militare speciale” che puntasse direttamente su Kiev per far cadere il governo Zelensky e sostituirlo poi con un governo fantoccio di cui erano già pronti i membri.
Anche l’intelligence americana cadde nello stesso errore (evidentemente gli anni di stretti rapporti con l’opposizione antirussa prima e, dopo la rivolta di piazza Maidan del 2014, con i vari governi ucraini non li avevano sufficientemente edotti), al punto che, iniziata l’invasione e temendo che il governo ucraino sarebbe crollato in poche settimane, gli Stati Uniti proposero a Zelensky di fuggire in Polonia per costituirvi un governo in esilio. Nelle stesse settimane si incominciò a parlare di aiuti militari all’Ucraina, ma di armi leggere — pistole, fucili, mortai — per organizzare la resistenza al colpo di stato russo il cui successo veniva dato per scontato.
Lo stesso Biden, a invasione iniziata, ebbe a dire che se gli obbiettivi della Russia fossero stati “limitati” (l’occupazione di parte del Donbas, si presume) anche gli Stati Uniti avrebbero risposto con limitazione, come peraltro avevano fatto nel 2014 di fronte all’occupazione della Crimea cui Barack Obama reagì limitandosi ad una “ferma condanna”. Sta di fatto che Zelensky non accettò la proposta americana (di fatto un invito alla capitolazione), non fuggì all’estero e si mise a capo di una resistenza che in quei primi mesi appariva disperata con i soldati ucraini che combattevano con i lanciarazzi a spalla contro i carri armati russi.
Due giorni dopo il portavoce della sicurezza nazionale americano smentì il proprio presidente, disse che era stato interpretato male e iniziò un’altra storia, una storia che dura tuttora. Da quel momento gli Stati Uniti sono diventati il capofila di una vasta coalizione di paesi, prevalentemente occidentali, ottenendo in pochi mesi la condanna della Russia alle Nazioni Unite (non nel Consiglio di sicurezza dove la Russia dispone del diritto di veto); organizzando e finanziando l’invio di armamenti per centinaia di miliardi di dollari (non più armi leggere, ma ogni sorta di armamenti sempre più sofisticati e letali) e convincendo gli alleati europei, inizialmente riluttanti, a schierarsi decisamente con gli Stati Uniti attraverso la Nato e l’Unione Europea.
Si è trattato di una impresa diplomatica e organizzativa davvero imponente per cementare questa rinnovata “coalizione dei volenterosi” (il richiamo è a quella solo parzialmente riuscita messa in campo da George Bush ai tempi della guerra irachena) di cui l’amministrazione americana e lo stesso Biden ripetutamente e a buon titolo si vantano; un’impresa i cui obbiettivi dichiarati sono stati fin dall’inizio “la difesa dell’integrità territoriale di uno stato sovrano”, nell’ambito della più ampia “lotta della democrazia contro il totalitarismo” e per “la difesa dell’ordine liberale internazionale”.
Ma come si arrivò in quei primi mesi dall’inizio del conflitto a questa svolta, dalla prudenza iniziale alla difesa senza se e senza ma e con le armi in pugno di questi principi “sacri” del diritto internazionale? Principi che tuttavia — è bene ricordarlo — gli Stati Uniti, al pari di tanti altri paesi, europei e non, molto spesso hanno violato e violano in nome della Realpolitik, dell’equilibrio di potenza, dei propri interessi economici e di sicurezza. Quale congiuntura internazionale, quale convergenza di interessi o minaccia esistenziale ha richiesto che sulla vicenda ucraina si decidesse di concentrare tutto il capitale morale e una parte consistente di quello economico del cosiddetto mondo libero, cioè essenzialmente dei paesi occidentali (quelli del Sud globale — un tempo chiamati non allineati — sono rimasti per lo più a guardare quando non hanno espresso simpatia per la Russia)?
La risposta non sta solo nella doppiezza o nell’ipocrisia connaturata alla politica estera di qualunque stato. Va ricercata nella specificità degli Stati Uniti e del suo presidente. Joe Biden è un uomo anziano che si è formato nei decenni della guerra fredda, un’epoca contrassegnata dalla minaccia sempre presente di una guerra nucleare, che non poteva essere combattuta senza andare incontro allo sterminio di gran parte dell’umanità. Il che voleva dire che gli scontri tra le due superpotenze dell’epoca — Stati Uniti e Unione Sovietica — o andavano combattuti per interposta persona (le tante guerre “per procura” in Africa, Asia e America latina) o, se diretti, andavano gestiti con prudenza e moderazione.
Quando i sovietici cercarono di installare missili nucleari a Cuba a poche decine di miglia dalla Florida, Kennedy mise l’isola sotto embargo e minacciò di bombardare le rampe di lancio, ma allo stesso tempo si accordò segretamente con Kruscev perché in cambio della rimozione dei missili sovietici venissero rimossi anche i missili atomici americani dalla Turchia. Durante la guerra del Vietnam, una guerra dichiaratamente per fermare l’espansionismo comunista, l’Unione sovietica non intervenne direttamente pur rifornendo di armi il Vietnam del Nord e i Vietcong; quando nel 1953 i servizi segreti britannici e la CIA organizzarono un colpo di stato per rovesciare il governo iraniano del socialista Mohammad Mossadeq, i russi non intervennero; e quando nel 1979 i sovietici invasero l’Afghanistan per mantenerlo nella propria orbita gli americani si limitarono a finanziare e armare la guerriglia dei mujaddin. Prudenza quindi da ambo le parti sia nel non intervenire nelle altrui zone di influenza, sia intervenendo in modo “coperto” così da poter negare di averlo fatto. Non il migliore dei mondi possibili, ma non il peggiore.
Uno dei cardini della politica internazionale negli anni della guerra fredda fu l’implicita accettazione delle zone di influenza. Se organizzi un colpo di stato nella tua io ti condanno, protesto a gran voce, ma in sostanza ti lascio fare. Così avvenne nel 1956 quando l’Unione Sovietica invase l’Ungheria, nel 1968 quando represse la Primavera democratica di Praga, nel 1978 quando impose la legge marziale alla Polonia per impedire il rovesciamento del regime di generale Jaruzelski. Ancora nel 2014, dopo l’occupazione e l’annessione della Crimea e l’occupazione di parte del Donbas da parte della Russia, la “comunità internazionale” e gli Stati Uniti condannarono la violazione del diritto internazionale, ma accettarono il fatto compiuto.
Naturalmente in tutti questi anni gli Stati Uniti non furono da meno dei loro avversari comunisti: la guerra del Vietnam, i bombardamenti della Cambogia, i colpi di stato e il finanziamento dei contras in America latina, il colpo di stato dei colonnelli in Grecia, e varie altre operazioni segrete imbastite dalla CIA e dal dipartimento di stato americano in vari paesi europei (anche in Italia) per impedire che scivolassero nell’orbita comunista.
È probabile che anche di fronte all’invasione dell’Ucraina la prima reazione di Biden sia stata quella di prenderne atto secondo la logica della guerra fredda. Ed è sicuramente quello che devono avere pensato Putin e il suo entourage: dopotutto l’Ucraina è cosa nostra, gli occidentali protesteranno per un po’, ma poi accetteranno il fatto compiuto come hanno fatto con la Crimea. Putin l’aveva anche scritto un paio di anni prima in un saggio spesso citato: l’Ucraina non è una vera nazione e quindi non può essere un vero stato.
Entrambi (Biden e Putin) hanno fatto così un clamoroso errore. Perché la guerra fredda è finita da oltre un trentennio e la sua logica di “moderazione” non vale più. A partire dagli anni ’90 gli Stati Uniti sono diventati l’unica superpotenza globale e tali vogliono rimanere a fronte dei concorrenti emergenti che si chiamino Russia neoimperiale o Cina espansionista. Per questo Biden è stato “corretto” dai suoi più giovani consiglieri (il ministro degli esteri Blinken, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan) che non si sono formati negli anni che richiedevano prudenza e autolimitazione, ma che al contrario sono probabilmente convinti che per mantenere il primato americano bisogna contrastare a muso duro chiunque lo minacci avanzando pretese che non collimano con i suoi interessi ovunque nel mondo, oggi in Ucraina e a Taiwan.
Quanto a Biden, sembra avere subito la “maledizione del colomba” (secondo l’espressione della politologa Elizabeth Saunders della Columbia University): per non sembrare debole ed essere attaccato dai suoi avversari in patria ha smesso gli abiti della colomba, ha deciso per l’impegno militare ma non abbastanza da assicurarsi la vittoria; con la conseguenza che questi due anni di guerra sono stati contrassegnati dal continuo spostamento di “linee rosse” con l’invio di armamenti fino al giorno prima considerati proibiti e poi accettati, senza però che la situazione sul campo venisse modificata sostanzialmente.
Per parte loro i suoi più giovani consiglieri, che nell’attuale situazione di deterioramento fisico del presidente sembrano dettare le decisioni di politica estera del paese, sono in procinto di cadere nella sindrome opposta, che la Saunders chiama “la disavventura del falco”, anch’essa molto comune tra gli artefici della politica estera americana: consapevoli della propria ineguagliabile potenza militare e persuasi del potere risolutivo della forza armata, si buttano a capofitto in dis-avventure militari dalle quali usciranno solo molti anni dopo… spennati (vedi il Vietnam, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia).
Dopodiché agli errori iniziali si sono aggiunti altri errori e tutti hanno portato alla tragedia che abbiamo sotto gli occhi e che non accenna a finire. Gli americani e gli europei hanno applicato “durissime sanzioni punitive” alla Russia che avrebbero dovuto mettere in ginocchio la sua economia, ma questo non è avvenuto; hanno riempito di armi sempre più letali e sofisticate l’Ucraina convinti che questo avrebbe provocato una svolta nei rapporti di forza, ma non sembra che questo sia il caso; hanno creduto e sperato che la popolazione russa si sarebbe ribellata al regime putiniano in nome della pace e della democrazia e lo avrebbe rovesciato, magari con un colpo di palazzo, ma anche questo non è successo (ed è improbabile che succeda).
Quello che è successo è che i morti hanno continuato ad accumularsi da ambo le parti provocando immani distruzioni che da qualche giorno coinvolgono anche il territorio russo rendendo l’ipotesi di un ulteriore allargamento e inasprimento del conflitto sempre più probabile e minaccioso. Da una parte il fronte “occidentale” appare molto compatto e determinato a liberare tutta l’Ucraina; dall’altra non vi sono segnali di “stanchezza” da parte dei russi per una guerra che, a torto, la maggior parte della popolazione considera giusta. Né l’economia russa dà alcun segno di essere in procinto di collassare, anzi spinta dalle commesse belliche è cresciuta molto più di quelle dell’Unione Europea.
Contrariamente a quello che possono pensare molti russi la guerra di Ucraina, l’invasione dell’Ucraina, è una guerra ingiusta in base al diritto internazionale e in base ai più elementari principi di umanità. Ma è una guerra come tante e come tutte dovrà finire. Dopo tutti gli errori di valutazione che sono stati commessi da tutte le parti in questi oltre due anni e mezzo di morti e distruzioni, sarebbe arrivato il momento che i soggetti responsabili della sua continuazione si domandassero: per quali obbiettivi, a quale prezzo ancora, e fino a quando?
L’articolo Biden e “la maledizione della colomba” proviene da ytali..