Da ritenersi un libro esemplare La chiesa e il monastero di Santa Caterina a Venezia, e questo perché è un libro di quel genere che appassiona molto nel tenere assieme storia, arte e devozione dal XIII al XIX secolo. È un genere (la storiografia nella sua accezione più stimolante) in cui lo storico va oltre la specificità della singola disciplina e nel farlo esamina e analizza più cose, mosso da quanto diviene domanda, perplessità, ipotesi per nuovi e diversi studi attorno a quel che accadde realmente a proposito di questo e di quello. Succede, e succede ogniqualvolta lo storico, se dotato di conoscenze molteplici e di un certo lato fecondo di immaginazione, è in grado di sbrogliare la storia. O meglio, alcune pagine e momenti della storia, anche i più intricati e sedimentati, ma che inevitabilmente si presenteranno alle sue riflessioni, durante le pause delle sue ricerche, ridotti a un filo che, se sfilato pazientemente, nel risalire lungo la matassa( in breve, la storia) consentirà il dipanarsi del “gomitolo”, per quanto questi possa apparire impenetrabile.
Di qui lo stupore di una conclusione, quella ottenuta dall’aver finalmente voltato pagina: lo storico è giunto a capire e pertanto a scoprire quel che ha da essere, d’ora in avanti, la versione autentica, o abbastanza autentica, di una determinata storia. Una più che lodevole storica inglese, Eileen Power (1899-1940), stimatissima per le sue lezioni e scritti di storia economica, pubblicò nel 1924 Vita nel Medioevo, che conobbe un lungo successo, ed è in quelle pagine che possono essere intesi il valore e il senso del lavoro dello storico. Nel capitolo dedicato a Madama Eglentyne, l’indimenticabile superiore e monaca dei Canterbury Tales di Chaucer, la brillante storica impartisce quel che va letta come una sua irrinunciabile ammonizione:
Per molto tempo gli storici hanno scioccamente creduto che re, guerre, assemblee parlamentari e sistemi giuridici fossero i soli oggetti della loro ricerca; si dedicavano alle cronache e agli atti dei parlamenti, ma non li sfiorava nemmeno l’idea che si potessero cercare nei polverosi archivi vescovili i grossi libri nei quali i vescovi registravano le lettere che scrivevano e tutti i complicati affari relativi al governo delle loro diocesi. Ma quando gli storici si decisero a compiere queste ricerche, trovarono una miniera di informazioni preziose su quasi tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa.
Esattamente così hanno proceduto i tre storici “poweriani” Leonardo Mezzaroba, Alessandro Milan, Roberto Zago: vale a dire cercando tra il già noto e l’inedito, tra antiche pubblicazioni e sconfinati archivi, tra testamenti e iscrizioni, tra epigrafi quasi dissolte e biografie di artisti e mecenati, tra carte e manoscritti un tempo custodite nei monasteri e le incursioni violente di storie pubbliche e private, quasi sempre a danno di chiese e patrimoni d’arte, ovvero di chiese e monasteri ormai scomparsi o sostituiti con diverse necessità sociali. E questo in un libro disposto su più capitoli lucidamente connessi tra loro: “A ciascuno il suo ritratto, sul vero soggetto di un discusso busto di Alessandro Vittoria” (Milan); “Il monastero e la chiesa di Santa Caterina de’ Sacchis: le voci di monache e laici” (Zago); “Antologia dei documenti“ (Zago); “Il Santa Caterina: da monastero a liceo convitto” (Mezzaroba).
Sufficiente il nome di Alessandro Vittoria, tra i più motivati, riconoscibili, basilari scultori del Rinascimento, per intendere che il Santa Caterina-Liceo Convitto Foscarini ha avuto a che vedere nei secoli con l’arte e con le straordinarie e assai spesso travagliatissime vicende che solitamente hanno reso particolare la storia dell’arte veneziana, tanto più trattandosi nel nostro caso di Vittoria, Veronese, Tintoretto, Palma il Giovane, eccetera. Ecco perché a riguardo (sul come praticare la storia dell’arte) è prezioso il pensiero di Rona Goffen (1944-2004), indimenticata storica dell’arte per ricerche, per la sua capacità di mettersi a interrogare l’opera, per il suo spirito critico d’avventura nell’avvicinarsi a capolavori “del Bellini e del Tiziano sia esplicitamente che implicitamente, sia da un punto di vista iconografico… che visivo”. In prefazione al suo Devozione e committenza, Goffen scrive:
Così, questo è un libro in parte di storia dell’arte veneziana e in parte di storia francescana, in parte di storia veneziana e in parte di storia familiare. Ma, a Venezia, queste sono un’unica e medesima cosa.
E se per la storica dell’arte americana il suo libro sui Frari è in parte di storia francescana, eccetera, per i nostri tre studiosi il loro libro è in parte di storia delle monache Agostiniane e, ovviamente, di storia dell’arte, di storia veneziana e di storia familiare, che a Venezia “sono un’unica e medesima cosa”. Insomma, un gomitolo tutto da sbrogliare.
Dunque, a ciascuno degli autori la sua parte. Alessandro Milan:
Nella Guida per Venezia del 1815 l’abate G.A. Moschini scrisse – e in seguito confermò più volte – che nella chiesa dell’ex monastero delle agostiniane di Santa Caterina, il busto in marmo firmato A. Vittoria posto sopra il portale maggiore, è il ritratto di ‘Francesco Bocchetta Veneziano’. Finora di lui si sapeva soltanto che era un sacerdote, cappellano delle monache, sepolto in una delle due tombe a parete ai lati del portale. Più tardi, si pensa nel 1873, fu realizzato da ignoti un calco in gesso per immettere l’originale nel mercato antiquario. La tesi di Moschini, ancora oggi largamente condivisa, non convince l’autore di questo studio.
Alla luce di quanto Milan è riuscito a documentare e quindi a scoprire, va ammirato quel garbo molto prossimo a una riservata ironia (e lo stesso dicasi per gli altri due studiosi) con cui si dice che la tesi di Moschini “non convince l’autore di questo studio”, e ciò richiama alla memoria di un antico frequentatore delle aule del Liceo Foscarini il sottile istruire dei professori cafoscarini, così almeno negli anni Cinquanta del secolo passato, che si faceva ancor più sottile – quella maniera di istruire – quando, dinanzi alle palesi carenze dell’allievo, i docenti mai rinunciavano al gusto di una paziente e glaciale obiettività. Nel corso delle loro ricerche, i tre studiosi hanno rinvenuto “una miniera di informazioni preziose su quasi tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa” quale si ebbe per via di un “contenitore” che fu determinante nel costruire e regolare le origini e gli sviluppi di un’area di Venezia altrimenti “inesistente”. E di quel “contenitore”, monastero e chiesa di Santa Caterina, ha scritto Roberto Zago:
Insediatesi nel 1289, le monache Agostiniane vi restarono fino al loro allontanamento nel 1807. Iniziarono subito una intensa attività di bonifica e di espansione, contribuendo insieme con i laici all’antropizzazione di questa parte settentrionale della città, che venne a costituire ‘l’insula dei gesuiti’. Notevole fu l’impegno profuso dalle religiose nell’abbellire il monastero e la chiesa con l’intervento di illustri artisti.
Ove non si fosse capito l’urbanizzante merito delle Agostiniane, si leggano queste righe del saggio di Zago:
Fin dal loro insediamento e per almeno i tre secoli successivi, le monache si impegnarono ad allargare l’area del loro complesso mediante bonifiche di terreni paludosi o sottraendo alla laguna superfici rese via via edificabili. Con le donazioni e gli acquisti, l’area del monastero si accrebbe sempre più fino alla sua massima estensione. Tale indefessa attività mostrò la tenacia e l’abilità delle monache nel perseguire i loro obiettivi pur con qualche abuso, d’altronde non ignoto alle autorità di governo che generalmente erano tolleranti in considerazione della provenienza nobiliare delle religiose e del fatto che la loro opera sul territorio non contrastava con il disegno di sistemazione di quell’area della città.
Donne, per lo più appartenenti a famiglie aristocratiche che le avevano destinate ad una esistenza conventuale, seppero dimostrarsi per davvero “classe dirigente”, innanzitutto a vantaggio del proprio ordine monastico ma anche a formidabile incremento del complessivo sviluppo della città, per altro governata dalle loro stesse famiglie di appartenenza. In breve, donne doppiamente imprenditrici in quanto operarono in sincronia fra il piano religioso e quello politico. Negli stessi anni in cui le monache Agostiniane di Santa Caterina fondavano una buona parte della “nobile città che l’uomo dice Vinegia”(Martino da Canale), lontanissimo da quella che al suo ritorno diverrà la casa dei Polo a Cannaregio, il giovane Marco viaggia nello sconfinato pianeta cinese, lo conosce, lo studia, e in una certa misura lo “governa” condividendo i desideri visionari di Kublai Khan.
Una visionarietà, in fondo non tanto diversa da quelle delle monache imprenditrici con il loro saper estendere Cannaregio tra canali, paludi e laguna, solo che la fascinazione agevolata dai racconti del mercante e viaggiatore veneziano, per chiunque vi si infervorasse, fu una visionarietà percepita come possibile e realizzabile, dando in tal modo una spinta fantastica ad un immaginario che nel suo essere potentemente nuovo, rese visionariamente moderna Venezia e con Venezia l’intero Occidente. Infatti : “Se messer Marco conobbe come nessun altro le particolarità di quelle contrade, la ragione ne è ch’egli esplorò più di qualunque uomo che mai nascesse , quei remoti paesi e ch’egli attese con maggior cura a procurarsi quelle cognizioni” (citazione da Vita nel Medioevo). Come a dire che il moderno, inteso come visione del futuro, viene dalla conoscenza, viene dal “procurarsi quelle cognizioni”, che è quanto si procurò Marco nel farsi pulviscolo nell’immenso pulviscolo dell’Oriente, e lo stesso fecero le Agostiniane di Santa Caterina: assimilarono le cognizioni indispensabili per poter governare il disfarsi delle paludi sostituendole con la loro città. Nelle parole di Roberto Zago l’energia rivelata nella conquista di nuove frontiere da donne veneziane e monache, e questo nello splendore di un gigantesco e diffuso cambiamento conosciuto come il Medioevo di Venezia. Ciò avvenne “lungo il margine settentrionale di Venezia”, che in seguito darà luogo all’insula dei Gesuiti:
Il territorio dell’insula fu uno spazio suddiviso tra insediamento religioso , costituito dal convento e dalla chiesa – quella esterna aperta ai laici e quella interna riservata alla clausura – e le attività produttive e imprenditoriali insieme con le presenze abitative patrizie, cittadinesche e popolari d’affitto, conseguenti al processo di sviluppo e di edificazione delle Fondamenta Nuove (…). La sua floridezza economica e finanziaria permise al Santa Caterina di continuare a consolidarsi e diventò ben presto considerevole il patrimonio monetario e immobiliare gestito dalle suore dando loro modo di estendere i confini in gran parte dell’insula e anche di acquisire ulteriori proprietà fondiarie nella terraferma.
Non per niente, in una nota per il suo saggio a Zago non sfugge quanto scritto da Elisabeth Crouzet-Pavan nel terzo volume della Storia di Venezia:
Lo studio dello spazio urbano nel XIII secolo si organizzava attorno ad alcuni fenomeni maggiori. Un’espansione massiccia, continua, caratterizzava in quel periodo Venezia come una città in movimento. Il sito veniva rimodellato, la terra avanzava a spese degli acquitrini e delle paludi. I grandi proprietari privati, i ‘vicini’ delle contrade, i monasteri e in seguito i nuovi conventi mendicanti guidavano la bonifica su ogni frontiera , interna ed esterna. Gradualmente, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, il comune tentava di controllare, di dirigere più direttamente questa formidabile crescita. A S. Marco, a Rialto, sul porto, nelle calli, sulle banchine e sui ponti si aprivano grandi cantieri. Il tempo dell’espansione era anche quello delle sistemazioni urbanistiche.
Una città in movimento la Venezia medievale, e ciò avvenne in forza del realismo visionario di monasteri quali il Santa Caterina e di mercanti instancabili nel dilettarsi “di udir cose nove, e de i costumi, e delle usanze degli uomini e condizioni delle terre” quale fu Marco Polo, come si legge in una edizione del Milione del 1954. La lunga storia del monastero e della chiesa di Santa Caterina, approdata infine alla nascita del Liceo e convitto Marco Foscarini, è l’argomento cui si è rivolto Leonardo Mezzaroba.
Il tracollo di un mondo (quello dell’arte nelle sue varie espressioni e quello dei patrimoni monumentali e spirituali creati nel corso dei secoli dalle reti devozionali), all’indomani del collasso Serenissimo colpì in modo devastante quanto aveva rappresentato la civiltà di Venezia. Subito dopo il costituirsi del napoleonico Regno d’Italia, scrive Mezzaroba:
Con decreto 8 giugno 1805 il sovrano francese avviava la soppressione, nel Regno, di numerosi conventi e monasteri, incamerandone i beni senza alcuna intesa con la Santa Sede (…). Il 30 marzo 1806… il viceré Eugenio di Beauharnais disponeva la demaniazione di tutti i beni appartenenti ai monasteri e ai conventi… poco dopo che, con un’azione a sorpresa (per non dare il tempo ai religiosi di far sparire qualche bene mobile), i funzionari del Ministero delle Finanze si erano presentati alla porta
eccetera , eccetera. Mezzaroba:
Giunse dunque il 15 settembre 1806, un lunedì, alle otto in punto, prefetto e direttore demaniale, erano al monastero di Santa Caterina dove le monache, radunate, ascoltarono la lettura… dell’ordinanza che imponeva loro il trasferimento.
E qui lo storico non si astiene da un più che dettagliato accenno all’ineffabile episodio sul gran “dispetto” mostrato dalle nobili ultime eredi delle magnifiche donne e monache medievali:
Partite le monache, il direttore Dossi prese a ispezionare l’interno del monastero; lo spettacolo che gli si presentò ‘ai piani superiori’ fu sconcertante ed egli ne diede immediatamente conto al prefetto: ‘Non posso tacerle, Signor Prefetto la mia sorpresa avendo riscontrato questa mattina, che le Monache di Santa Caterina hanno levato tutti i serramenti ed infissi, devastando sensibilmente il Locale, e lasciando esposti i Terrazzi alle piogge, quindi al certo loro deperimento.
Non si sa se nel tollerare o nell’incoraggiare la devastazione di quella che le monache ritenevano essere la loro casa, ci sia stato o meno il consenso della badessa di Santa Caterina, certo è che la badessa si chiamava Maria Eletta Widmann. Un cognome che rimanda all’aristocrazia veneziana, o meglio, ad una famiglia in cui non poche furono le donne, durante alcuni secoli, che vollero essere Agostiniane. Insomma, come si è detto, donne e monache che ritennero giusto lasciare “i segni” della loro protesta per il danno che stavano subendo. Un rifiuto che le spinse a gesti propri di una rabbia identitaria e proprietaria, maturata nello smarrimento di una compieta non più preghiera ma lamento di una solitudine incomprensibile, come accade di fronte ad ogni inaccettabile espropriazione.
Frammenti di storia uno dopo l’altro allora, dato che conviene seguire il percorso tracciato da Mezzaroba dopo la scomparsa delle Agostiniane. È noto che a fuoriuscire dal “ventre molle” dell’ex Serenissima non poche le qualità, le capacità, le ambizioni individuali oppure attive in aggregazioni culturali e sociali, che non solo sopravvissero ma riuscirono ad imporsi nell’arcobaleno( non sempre splendido) delle Venezie democratiche-napoleoniche-austriache, infine monarchiche con i Savoia eccetera, eccetera. Senza mai dimenticare però l’eroica e brevissima stagione della Repubblica del 1848.
Tra quegli emergenti (così procede la storia, per fortuna), una figura come quella di Antonio Maria Traversi:
Nacque a Venezia il 21 febbraio 1765… la sua era una famiglia di estrazione modesta (…). Fu probabilmente la precoce e non comune predisposizione agli studi, a indirizzare Antonio Maria alla vita ecclesiastica (…) con l’ordinazione sacerdotale.
Dalla teologia alle scienze matematiche e filosofiche, passaggi spesso preziosissimi e frequentissimi nella Venezia-Veneto tra Seicento e Settecento. Mezzaroba, sul sacerdote in ascesa, scrive:
Tanto che nel 1796 il Senato veneto gli assegnò la cattedra di logica e metafisica in una delle scuole di chierici previste al di fuori del seminario, quella di San Marco. Scomparse queste istituzioni con la caduta della Repubblica, Traversi si volse all’insegnamento privato, fondando un collegio maschile, denominato Traversi.
In un’epoca segnata da un diffuso opportunismo camaleontico nei vari circuiti politici, il sacerdote nato dalle parti di San Tomà tenne sempre la barra dalla parte della chiesa, dell’insegnamento, della scienza e ancor di più di quanto lo legava al papato. Di pagina in pagina con Mezzaroba:
Il Collegio (o Ginnasio) Traversi superò indenne il passaggio dalla prima dominazione austriaca alla seconda dominazione francese, anzi acquisì ulteriore prestigio grazie alla pubblicazione, iniziata nel 1806, di un imponente corso di fisica, compilato dallo stesso Traversi, molto apprezzato per la sua chiarezza espositiva e per la sua ‘modernità’, intitolato Lezioni di fisica moderna teorico esperimentale.
Dopodiché, a partire dal 1815, gli anni della Restaurazione e della non breve dominazione austriaca, ma fin dal 1807 ciò che conta è l’operosissima presenza di Traversi, “primo provveditore del Liceo Convitto e autentico padre e organizzatore di questo istituto scolastico”, e che sarà chiamato a Roma nel 1832 da un suo vecchio amico diventato papa Gregorio XVI. Di quel prete venuto dagli ultimi anni della Repubblica di Venezia, ci restano, oltre alla memoria di quanto sul piano degli studi e dell’insegnamento seppe realizzare, anche gli strumenti didattici e gli apparecchi della collezione di fisica che tuttora sono il vanto del Museo di Fisica Anton Maria Traversi conservato nell’attuale Liceo Foscarini, e in più il busto scolpito per la sua tomba in Santa Maria Maggiore a Roma da Giuseppe Fabris (1790-1860), un tardo neoclassico appassionato in un certo qual modo di Antonio Canova.
Dopo l’unione del Veneto al Regno d’Italia “il Liceo cambiò nome, divenendo Regio Ginnasio Liceo Marco Foscarini, in onore del doge ‘letterato’ noto soprattutto per la sua opera Della letteratura veneziana libri otto (1752)”. Da qui muove un capitolo di storia veneziana fino a qualche generazione fa conosciuta per meriti didattici indimenticati e non unicamente a Venezia, dato che “il Foscarini mantenne la sua identità di scuola caratterizzata da un grado particolarmente alto degli studi e non solo a livello di docenti (che spesso proprio dalla cattedra di questo Liceo passavano a quella universitaria) ma anche di studenti destinati a raggiungere ruoli brillanti negli ambiti più diversi.”
Alla storia di questo istituto scolastico appartiene quanto – non potrebbe essere diversamente – gli è peculiare o identitario, ma con in più la storia stessa di Venezia dove si intrecciano guerre e rivoluzioni, alluvioni e incendi, i tempi della fame e quelli delle epidemie, l’estinzione delle antiche casate e l’emergere di nuovi soggetti politici ed economici, momenti di gloria e affermazioni inedite sul piano culturale e sociale. Mezzaroba si sofferma in particolare su quanto ha costituito nel corso del tempo l’anima eccellente del Foscarini, ovvero i due momenti per davvero di gloria.
Il primo:
Nel corso della prima metà dell’Ottocento la grande maggioranza dei professori era rappresentata da religiosi, nonostante questo il Liceo Convitto fu coinvolto dagli avvenimenti della rivoluzione veneziana del 1848-1849; un certo numero di studenti partecipò agli scontri per la difesa della Repubblica e alcuni vi persero la vita.
Il secondo:
Ci furono poi gli anni del fascismo; le pressioni del regime furono piuttosto marcate: coinvolsero gli spazi del Foscarini (il Convitto fu nuovamente costretto a spostarsi in un’altra zona di Venezia per lasciar posto ad una sede della Gioventù Italiana del Littorio) e condizionarono docenti e studenti. Il 17 novembre 1938, ad esempio, il giorno stesso in cui entrava in vigore il famigerato Regio Decreto n. 1728, provvedimenti per la difesa della razza italiana, la scuola si affrettò ad espellere degli studenti ebrei, la cui presenza aveva invece sempre accompagnato la storia del Liceo. Va però anche sottolineato che nel periodo della Resistenza, un’intera classe, la III A dell’anno scolastico 1943-44 , manifestò in termini clamorosi i propri convincimenti antifascisti.
Se la storia assomiglia ad un cavallo sulla cui groppa si viaggia, da lì sopra, chi sa viaggiare, attraversa e conosce, spesso con molta fatica, i più diversi mondi, da cui, per infiniti aspetti, sono venute o verranno l’età , le epoche dell’ incalcolabile cammino di quel cavallo. Ma colui che “viaggia” in tal modo deve tener conto che dalla severa gualdrappa di quel destriero scendono bisacce. Qui il punto, che il viaggiatore a cavallo della storia non deve trascurare: porre mano in quelle bisacce significa che da viaggiatore si diventa cercatore. Si cerca e si immagina e di nuovo si fruga e si immagina, magari meravigliandosi che nessun altro si fosse ancora accorto che dentro ad una delle bisacce ci fossero considerevoli indizi di “una grande buca, ampia abbastanza da inghiottire un carro”, per dirla con Virginia Woolf. Che essendo la scrittrice che è, sa dove e come rovistare nella storia, anzi, nelle storie di quella “grande buca”.
La Woolf, che trovava molesto ciò che poteva essere ascritto a imprecisione, vaghezza , sbrodolature sentimentali, ha scritto:
Un uomo colto è un tipo sedentario, un entusiasta assorto e solitario che cerca di scoprire attraverso i libri un granello di verità che gli sia particolarmente a cuore. Quando lo prende la passione della lettura, il sapere da lui conquistato vacilla e gli svanisce fra le dita.
Sta dicendo di chi trascorre moltissime “ore in biblioteca” e lo stesso vale per chi “cerca di scoprire attraverso i libri” o frugando negli archivi tra documenti, manoscritti, testamenti, nella speranza di giungere ad “un granello di verità”, nonostante che “ il sapere da lui conquistato vacilla e gli svanisce fra le dita”. E a cercare e rovistare in alcune “buche” scivolate giù dalle bisacce appese alla gualdrappa del cavallo di cui si è appena detto, sono stati quei tre esperti cercatori foscariniani. Ognuno per quanto di sua passione e competenza, e così, trovandomi impiasticciato di già sulle giostre nelle cose dell’arte e delle loro storie, non ho potuto evitare di impiasticciarmi attorno alla “buca” esplorata in particolare da Alessandro Milan.
Il fatto è che da un “granello di verità” all’altro si viene a sapere che l’erudito e benemerito conoscitore delle “belle arti” veneziane, Giannantonio Moschini, nel pubblicare la sua rinomata Guida per la città di Venezia (1815), scrive che nella Chiesa di Santa Caterina c’era il “busto in marmo sopra la porta” di uno sconosciutissimo Francesco Bocchetta. Nient’altro si dice sul Bocchetta e ancor peggio per il silenzio sull’autore di una scultura creata da un artista notissimo a Venezia e in più capitali dell’arte nella seconda metà del XVI secolo: Alessandro Vittoria. L’amico delle belle arti Moschini, quattro anni dopo la prima edizione, pubblica la sua Guida in francese, ma con un granellino di verità in più: l’autore del busto è il Vittoria “di cui l’opera porta il nome”. Emmanuele Antonio Cicogna (1789-1868), storico e scrupolosissimo cercatore di documenti e reliquie di storia veneziana (uno di quei testimoni sapienti che il dio della storia provvede a far nascere negli ardui passaggi tra una civiltà e l’altra), non mancò di visitare alla sua maniera la Chiesa di Santa Caterina e chissà se da quanto ebbe a riscontrarvi non gli vennero ulteriori conferme di ciò che pensava sul Moschini di cui restò sempre amico.
Cicogna:
Anche il padre Moschini si fida troppo sulla fede altrui e non va a confrontare le cose. Se così avesse fatto, non avrebbe detto l’anno dell’iscrizione dedicatoria della chiesa di San Giorgio Maggiore nel 1556, mentre è del 1566;
e sulla scrittura moschiniana non si risparmiò affatto: “stile di scrittura vario, talvolta cattivo, stentato e non pulito”.
Al dunque, il Moschini nel supporre, assurdamente, che il busto in marmo fosse il ritratto di un qualunque Francesco Bocchetta, decise di omettere per un po’ di anni il nome dell’ autore della scultura, e questo perché, se lo avesse scritto, avrebbe dovuto spiegare come mai un artista celeberrimo per davvero, il Vittoria, avesse immortalato nella chiesa delle Agostiniane l’immagine di uno sconosciuto. Impossibile una simile stravaganza , se non altro perché nella biografia e saggio su Alessandro Vittoria Tommaso Temanza (1705-1789) aveva scritto “con somma felicità ha egli scolpito numero grande di busti per i più illustri soggetti, non che di Venezia ma si può anco dire di tutta Italia”. Ma allora di quale illustre soggetto era il busto scolpito dal Vittoria?
Per chiudere sull’argomento, se il Moschini fosse andato “a confrontare le cose”, probabilmente si sarebbe accorto di quanto cicognanamente scoperto da Alessandro Milan in una delle bisacce appese al “cavallo della storia”. E ha scoperto molto lo storico cercatore sia su quel che accadde nella chiesa di Santa Caterina, appartenuta per secoli alle Agostiniane, e sia in seguito, quando chiesa e monastero divennero oggetto della decadenza, ma per fortuna anche del buono o del diversamente buono che spesso la storia ci ripropone. In estrema sintesi, Milan si immerge in archivi notarili e atti testamentari e finalmente scopre il testamento di Francesco Bocchetta che dice tutto quello che serviva conoscere.
Milan:
è definitivamente accertato che il presbitero Francesco Bocchetta era il cappellano delle monache di Santa Caterina, come si presumeva; che il 22 marzo 1531 scrisse il proprio testamento, in cui sarebbe vano cercare un’istruzione perché fosse collocato un busto sulla tomba…
E tombale è la raffinata ironia sul Vittoria scultore di “chissà chi”, ovvero del “qualunque” che ora sappiamo essere stato un cappellano: ”Alessandro Vittoria, essendo nato verso il 1525, nel 1531 doveva avere circa sei anni… con ciò la nostra indagine potrebbe essere dichiarata ormai conclusa”. A convincere ancor di più Alessandro Milan è “la semplice lettura completa del testamento”: “con le informazioni sulla personalità del cappellano, le relazioni sociali… i rapporti con il parentado e con le monache del monastero”. E di qui in avanti, solo che invece di Alessandro Vittoria si trova Giovanni Bellini, il pittore maestro dei maestri pittori del primo Rinascimento veneziano e che, sposando Ginevra Bocchetta, divenne cognato del cappellano delle Agostiniane. A confermarlo i testamenti di Francesco e di Ginevra, che conosciamo grazie alla costante curiosità storiografica di Milan, in proficua compagnia con Mezzaroba e Zago per quanto di loro rigorosa spettanza, come si è detto. Accantonato il prete Bocchetta, inseguendo il quale però si è saputo di sua sorella Ginevra, che immaginiamo donna provveduta di una semplice avvenenza dal fascino interiore, se a volerla sposare fu Bellini, il pittore di Madonne e Donne dalla bellezza custode di pensieri inaccessibili, e a quel punto non restava che conoscere il nome di chi fu scolpito in immagine marmorea da Alessandro Vittoria. Riscontro obbligato – trattandosi di monastero e chiesa da secoli in Cannaregio – il rivolgersi a Francesco Sansovino (1521-1583), che con il suo Della Venetia città nobilissima aveva scritto nel 1580 poche righe sulla chiesa di Santa Caterina, tra cui questa:
Vi è parimenti la memoria della famiglia Ragazzona benemerita della Repubblica per Iacomo e Placido ambedue fratelli, uomini di valore e onorata dal Vescovo di Bergamo loro fratello.
Una volta imboccata la pista sansoviniana, a Milan non restava che saperne di più sulla famiglia benemerita della Repubblica:
La famiglia Ragazzoni, originaria di Valtorta nel Bergamasco, verso la fine del Quattrocento s’era trasferita a Venezia, ove crebbe in prestigio e patrimonio sotto la guida di Benedetto. Questi sposò nel 1524 Elisabetta Rizzo, che gli diede dieci figli. Giacomo, nato nel 1528, era destinato a un futuro di straordinaria grandezza, ma anche alcuni altri suoi fratelli furono protagonisti di brillanti carriere civili o ecclesiastiche. Nel 1540 Benedetto acquistò il palazzo della famiglia della moglie, posto sul rio di Santa Caterina, proprio dirimpetto all’omonima chiesa del monastero agostiniano, nella quale ottenne l’anno 1546 la concessione di un’arca a pavimento per farne la tomba di famiglia. Fra i molti che vi furono sepolti, è compreso anche Giacomo, morto nel 1610.
Come si sa, da cosa nasce cosa e il tempo le governa, nel senso che il tempo in questione è scandito dal testamento di Giacomo Ragazzoni, di cui Milan riporta l’essenziale: “sarà Giacomo stesso che nel testamento, si propose come modello per edificazione dei posteri, inserendo un celebre excursus autobiografico”. Un’autobiografia che ha del romanzesco in quanto singolarità estremamente conveniente per e nella Venezia-Mondo del XVI secolo. E di questa singolarità, che potremmo anche chiamare d’ambito rinascimentale, ne fu interprete in abbondanza Giacomo Ragazzoni: mercante ideale e diplomatico opportuno. Di lui scrisse in questi termini Ludovica Galeazzo per una pubblicazione con saggi diversi raccolti da un titolo subito avvincente: “Non solo spezie, commercio e alimentazione fra Venezia e Inghilterra nei secoli XIV-XVIII”. Fabula e intreccio secondo Galeazzo:
Giacomo Ragazzoni fu uno dei più ricchi e talentuosi mercanti che la Repubblica potè vantare nel corso della storia e la sua carriera ancora oggi è simbolo indiscusso di una vita spesa in seno ai più alti incarichi raggiungibili da un non patrizio. Personaggio di spicco del mondo commerciale e diplomatico, in contatto con esponenti di punta del patriziato lagunare e con le più prestigiose corti europee, egli fu tra le figure centrali della piazza veneziana del secondo Cinquecento non meno che di quella inglese. Imbarcato dal padre all’età di quattordici anni su una nave carica di spezie diretta a Londra perché imparasse i primi rudimenti dell’arte mercatoria, entrò presto, insieme al fraterno amico Giacomo Foscarini, alla corte di Enrico VIII Tudor e poi della figlia Maria I, svolgendo per quest’ultima numerose mansioni, anche di carattere diplomatico.
Il grande mercante , a disposizione sempre della Repubblica sia in tempo di pace che di guerra, sia nei giorni della peste che della carestia o dell’abbondanza, muore nel 1610 ed è in quello stesso anno che Giuseppe Gallucci scrive la Vita di Iacomo Ragazzoni. C’é un passo in quella precocissima biografia che riguarda il ritorno a Venezia di Giacomo dopo i molti anni trascorsi a Londra; a colpire sono parole e immagini che chiaramente sembrano voler richiamare alla memoria del lettore quanto si scrisse all’indomani dell’inaspettata e famosissima “apparizione” o ritorno di Marco Polo nella sua città. Ragazzoni appena trentenne è già un mito secondo Gallucci:
Il giorno della Santissima Ascensione il Signor Giacomo entrò nella Città di Venetia, dove fu con grandissimo applauso visto e ricevuto, non solo dai suoi amorevoli e del sangue, ma da tutta la nobiltà principale, che le diede grandissima consolazione, parendoli (oltre alle ricchezze) di non aver guadagnato poco , avendo con il suo buon nome acquistato la grazia e la benevolenza di tanti Signori Illustrissimi in generale e in particolare. Era tale e tanta la fama del suo valore e delle sue ricchezze, che all’arrivo suo nella Città come persona maravigliosa il popolo l’ammirava, ammirandolo lo riveriva, e reverendolo era costretto di amarlo.
Il ragazzo che aveva portato spezie e delicatezze d’ogni genere sulle tavole inglesi ( e di uve passe si interessò eccome anche Elisabetta I, che scrisse infuriata alla Repubblica perché la Serenissima aveva gravato con nuovi dazi il commercio della cosiddetta uva sultanina), ormai uomo, pur restando assolutamente il mercante perfetto che restò sempre, era diventato “l’agente non dichiarato” più che affidabile del potere marciano. Galeazzo su quel Ragazzoni:
I successi ottenuti con la compagnia mercantile posero le basi per una solida fortuna economica e un prestigio personale che, al rientro in patria, costituirono un buon viatico per altrettanti successi politici che lo videro nel 1571 anche negoziatore prescelto dalla Serenissima per trattare a Costantinopoli le condizioni di pace con il gran visir Mehmed Sokolli durante la guerra di Cipro. Fu in occasione dell’aiuto prestato in tale circostanza , che , nel 1577, la Repubblica concesse a Giacomo e ai suoi fratelli la titolarità del feudo di Sant’Odorico nei pressi di Sacile.
Su Sacile si dirà più avanti, perché è decisivo chiudere sul felice risultato ottenuto da Milan con le sue ricerche tra un testamento e l’altro e soprattutto con il contratto stipulato tra Giacomo e le Agostiniane del monastero a due passi da casa Ragazzoni. Un documento che le reverendissime Madri sottoscrissero alla presenza di un notaio, e tra loro c’erano la priora suor Barbara Corner e le camerlenghe suor Giustina Mocenigo, suor Cherubina Lippomano, suor Geronima Mocenigo, suor Clementina Michiel. Non una che non appartenesse alle famiglie della più antica aristocrazia veneziana. È con quell’atto che le Agostiniane di Santa Caterina concedono a Ragazzoni
il permesso di collocare la sua effige in scultura là dove presumibilmente egli aveva indicato, esattamente sopra il portale maggiore, che dà sulla navata di mezzo con vista verso il presbiterio (Milan).
Si è detto di bisacce appese al cavallo della storia, ed è in quelle bisacce che di frequente chi va a rovistarci dentro s’imbatte nella verità della storia, in particolare anche della storia dell’arte secondo Giacomo e le sue reverendissime monache. Alessandro Milan, nel riportare le ultime volontà di Ragazzoni, pone un suggello definitivo sia sul nome dello scultore e sia di chi lo scultore creò l’immagine scolpita:
Et havendo deliberato di far poner il mio Ritratto scolpito in marmo in la detta Chiesa di Santa Caterina sopra la porta di detta chiesa fatta fabbricare da me con quelli ornamenti giudicati necessari. Lasso che detto mio Ritratto di marmo, che si trova al presente in casa mia prima che il corpo sii trasportato fuori di casa sii posto nel luoco dove ha da stare in detta Chiesa con quella iscrizione di parole che saranno lasciate in nota da me.
A dire che quella scultura è di Alessandro Vittoria è l’opera stessa (tra l’altro, opera firmata), ma soprattutto la meticolosa, conosciuta ed esperta ruberia posta in essere dall’antiquario fiorentino Stefano Bardini che, nella seconda metà dell’Ottocento, con la complicità di chi dall’interno del Liceo Foscarini favorì il trafugamento del vero Vittoria lasciandolo sostituire con una copia in gesso: di qui in tutta tranquillità il Bardini, sapendo di che si trattava, fece quel che fece. La parola all’indagatore Milan:
Il fulcro della ricerca è costituito dall’apparizione dell’opera nella vetrina più prestigiosa del mercato antiquario, il 5 giugno 1899, quando si svolse a Londra la seduta d’asta nella quale uno dei più noti antiquari italiani, il fiorentino Stefano Bardini, fece battere da Christie’s il marmo del Vittoria.
Ma la copia in gesso, ossia il falso Vittoria, dove si trova? Milan, naturalmente:
L’opera è demaniale, affidata alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Venezia dal 23 aprile 1940. Imballata in una cassa, rimase chiusa nel deposito di Palazzo Ducale fino a quando divenuto dirigente responsabile di tale struttura, Enrico Noè, sessant’anni dopo, fece aprire la cassa e pulire il busto, riscontrando caratteristiche tecniche proprie dei calchi . Indubbiamente si trovò davanti il calco del busto vittoriesco del Metropolitan.
Metropolitan, che per anni ha ritenuto quella scultura opera della bottega di Alessando Vittoria, e tuttavia vedendo in quella scultura di bottega (sic) non più l’immagine di Francesco Bocchetta, bensì il ritratto di un gentiluomo veneziano, che forse è un piccolo passo verso una finalmente corretta identificazione di colui che poteva consentirsi di essere prestigiosissimo committente del proprio ritratto incaricando di ciò Alessandro Vittoria. Ma di chi altri dovrebbe essere la figura scolpita e conservata in casa Ragazzoni, e che per testamento e ben definito contratto con le Agostiniane fu posta là dove Giacomo desiderava fosse collocata? Probabilmente la riservarezza, la discrezione, i valori praticati da Giacomo Ragazzoni nel suo farsi mercante ideale e diplomatico realmente serenissimo, contribuirono a “nascondere” il suo nome in una di quelle bisacce appese al cavallo della storia, cui si aggiunse, purtroppo, anche la sgradevole indifferenza dei figli, che non assolsero all’attuazione della nota paterna su quanto si sarebbe dovuto inscrivere ad ornamento del suo vittoriesco busto.
di profilo mentre s’inchina dinanzi alla regina d’Inghilterra Maria I Tudor
Ora, un qualche cenno almeno sulla Villa Ragazzoni di Sacile, dove Giacomo ospitò Enrico di Valois nel 1574. Il futuro re di Francia, scrive Milan, fu ricevuto
con celebrato splendore e raffinatezza di premure, in obbedienza a una discreta richiesta del governo veneziano, sollecito a rasserenare le apprensioni di Caterina de’ Medici per il figlio in viaggio verso Parigi per salire al trono di Francia dopo la morte del fratello Carlo IX.
In quella Villa, che serviva anche da “palazzo” in certe occasioni non solo mondane, venne accolta nel 1581, la figlia di Carlo V, l’imperatrice Maria d’Asburgo, come testimoniato dagli affreschi di Francesco Montemezzano ( 1555-1602). Questo pittore, nato a Verona e morto a Venezia, fece cinque ritratti di Giacomo per degli affreschi dipinti a maggior gloria della storia della famiglia nella Sala degli Imperatori a Sacile, una città lungo il fiume Livenza da considerarsi il “buen retiro” di chi era salito così in alto nella società europea del Cinquecento e nella reputazione del potere marciano. Conclude Alessandro Milan:
Le cinque immagini del Ragazzoni… rendono giustizia alla descrizione di Gallucci, e mostrano, secondo me limpidamente, piena corrispondenza con i caratteri fisiognomici del ritratto scolpito da Vittoria.
Giuseppe Gallucci, se di certo fu entusiasta biografo di Giacomo, dello stesso ne godette la benevolenza fino al punto di descriverne i tratti fisici e i modi del porsi con se stesso e con gli altri:
eloquentissimo nel parlare , modestissimo nel trattare e intelligentissimo nel discorrere”. E chi se non Alessandro Vittoria avrebbe dovuto scolpire il ritratto in marmo di Giacomo Ragazzoni?
In ogni caso, questo libro contiene e dice molte più cose di quanto riportato in quel che mi è riuscito di scrivere; il che vuole essere un invito a leggere le pagine scritte da Mezzaroba, Milan e Zago e questo perché la loro pubblicazione fa comprendere moltissimo della storia di Venezia. Una pubblicazione curata e voluta da Rocco Fiano che foscarinamente ha saputo essere per molti anni il preside di luoghi, persone e memorie che vengono da lontano e proprio per questo capaci di elaborare visioni del futuro. Non per niente, Fiano, presidente degli Amici del Foscarini, si augura che il libro possa
richiamare l’attenzione delle istituzioni culturali e politiche cittadine affinché il Convitto e Liceo Foscarini possano ricevere risorse adeguate a interventi di restauro che ne possano preservare e far risaltare il valore storico, architettonico e artistico.
L’immagine in copertina si riferisce alla “Storia di Santa Caterina” di Jacopo Tintoretto un tempo nella Chiesa di Santa Caterina
immagine di copertina: Chiesa e fondamenta di Santa Caterina, Cannaregio
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