Con la rinuncia di Joe Biden alla candidatura democratica e la nomina di una nuova più entusiasmante candidata, Kamala Harris, la campagna per le presidenziali di novembre che si preannunciava la più noiosa contesa della storia tra due anziani signori, l’uno senescente ma convinto di essere predestinato a vincere, l’altro iracondo nella sua smania di riconquista del potere, sta entrando finalmente nel vivo. Centinaia di comizi della “giovane” Harris (59 anni) e dell’anziano Trump (78 anni) avanti e indietro per tutto il paese, migliaia di spot pubblicitari, decine di migliaia di volontari che fanno il porta a porta e cercano di convincere gli elettori indecisi ad andare a votare, milioni di piccoli contributi alle rispettive campagne e centinaia di milioni raccolti da PAC e super-PAC (Political Action Committee) per conto di grandi e medi interessi economici che aggirano così le norme sul finanziamento delle campagne elettorali.
Harris ha da subito entusiasmato per la (sorprendente) freschezza e il dinamismo in vistoso contrasto con la fragilità del suo predecessore candidato e presidente, per la accattivante simpatia; e anche per la scelta azzeccata di un candidato alla vicepresidenza bianco, maturo, loquace, simpatico quanto lei ma decisamente più di sinistra: il governatore del Minnesota Tim Walz, un “liberal delle praterie” (il Midwest è al contrario generalmente conservatore) autore delle riforme più progressiste della storia del suo stato. Ad oggi Harris si è limitata a spendere la sua carica di simpatia e l’entusiasmo provocato dalla sua novità limitandosi a rinserrare, con l’aiuto di Barack Obama, i bulloni di una campagna elettorale che si trascinava da tempo nella depressione per una sconfitta che molti, con l’eccezione del solo Biden, davano per scontata.
Qualche giorno fa Harris ha presentato un “piano economico”, che gli analisti hanno considerato piuttosto povero di contenuti specifici, ma comunque tutto orientato alla difesa del famoso ceto medio e dei lavoratori a basso reddito: combattere l’inflazione e arginare l’immigrazione clandestina (le due palle al piede dell’amministrazione Biden), aumentare i salari, aumentare i sussidi di povertà, per la maternità e per lo studio, abbassare l’esorbitante prezzo dei farmaci salva-vita (gli ha dato una mano Biden nei giorni scorsi con uno “storico” primo accordo con le case farmaceutiche), rilanciare l’economia green per combattere il riscaldamento climatico, continuare sulla strada degli investimenti nelle infrastrutture.
Si sta per aprire a Chicago la convention democratica in cui Harris sarà formalmente incoronata candidata del suo partito e in quella occasione dovrà pronunciarsi sulle questioni che ancora mancano, quelle di politica estera — Ucraina, Gaza, Cina; soprattutto su Gaza e in genere sulla “questione palestinese” intorno alla quale si sta concentrando in queste ore la protesta dei giovani democratici (arabo-americani, ma non solo) che fanno temere si ripeta quello che successe quasi sessanta anni fa, sempre a Chicago, nella più turbolenta e contestata convention democratica della storia.
Sulle questioni economiche esiste un largo consenso tra i democratici (almeno finché si rimane nel vago), cosicché sia la sinistra di Bernie Sanders che la destra di Joe Manchin hanno (quasi) subito appoggiata la nuova candidata; mentre sulle questioni sociali più o meno tutto il partito è da tempo schierato in difesa dei diritti civili, del diritto di aborto, e contro le discriminazioni di genere. Sulla politica estera invece i democratici si dividono lungo linee generazionali (i giovani sono meno inclini agli interventi militari e ad una politica estera aggressiva degli anziani) e nel rapporto tra elettorato e gruppo dirigente.
L’elettorato democratico, a partire dagli anni ’60, gli anni del Vietnam, ha sempre avuto una componente pacifista econtestaria; per contro, l’establishment del partito (da Kennedy in poi) ha sempre appoggiato, quando non ne è stato protagonista, tutte le avventure militari del paese anche le più fallimentari (dal Vietnam all’Iraq), e oggi sostiene quasi senza eccezioni la posizione dell’amministrazione Biden sull’Ucraina, su Gaza, nei confronti della Russia e soprattutto della Cina, una posizione che talvolta appare dettata più da un riflesso condizionato da guerra fredda (il contenimento dell’avversario vero o presunto ovunque nel mondo) che non da lucidi calcoli di interesse nazionale.
Quelle di politica estera sono altrettante spine nel corpo del partito democratico che Harris dovrà cercare di estrarre muovendosi con cautela sullo stretto crinale tra continuità con la politica dell’amministrazione di cui fa parte e necessità del cambiamento, senza sconfessare la prima (sarebbe sbagliato e soprattutto politicamente controproducente), ma muovendosi con prudenza in “avanti” (Forward), secondo l’efficace slogan coniato per lei da Shepard Fairey (autore del fortunatissimo manifesto “Hope” per Obama).
Della coppia Harris Walz sappiamo quello che fin qui è dato sapere; di più sapremo tra qualche giorno dopo i loro discorsi alla convention democratica che si apre oggi e dopo l’approvazione della “piattaforma” cioè del programma del partito.
Di Trump invece non sappiamo nulla, ma intuiamo tutto. L’uomo naturalmente è quello che è: non è un grande oratore, è un agita popolo, un comiziante; non è in grado di articolare posizioni programmatiche compiute e, se qualcuno lo fa per lui, lo annoia recitarle. Preferisce gli slogan, le improvvisazioni, le aggressioni verbali contro i suoi avversari (ieri i concorrenti repubblicani, oggi i candidati democratici).
Quando qualche giorno fa gli hanno organizzato un’iniziativa contro il carovita (che si è tenuta, tra i tanti posti, nel suo lussuoso circolo del golf nel New Jersey!) e gli hanno messo davanti un banchetto con vari generi alimentari per dimostrare quanto i prezzi fossero cresciuti, lui è andato avanti per un po’ snocciolando cifre dal teleprompter, ma poi, evidentemente stufo di un argomento che non lo interessa, è passato a quello cui tiene di più: le elezioni rubate, la “cattiva” Kamala Harris (non è ancora riuscito a trovarle un nomignolo appropriato per catturare la fantasia dei suoi elettori), la persecuzione dei giudici contro di lui, i democratici corrotti che hanno fatto un “colpo di stato” per sostituire quello che lui chiamava “Sleepy Joe” (Joe il sonnacchioso) e che evidentemente gli manca.
Dalle sue affermazioni apparentemente casuali (del tipo: “appena eletto farò finire la guerra in Ucraina con una telefonata”, oppure: “bisogna abolire le tasse sulle mance”, oppure, rivolgendosi alle comunità evangeliche di destra: “se votate per me non dovrete votare mai più, fatelo questa volta!”) — da tutte queste battute o sparate non si potrebbe desumere granché.
Molto invece è dato di capire leggendo due importanti documenti: uno è molto lungo (900 e passa pagine) e si chiama Project 2025; è stato elaborato nel corso degli ultimi due anni da un gruppo di “studiosi” repubblicani messi assieme dalla Heritage Foundation e costituisce una guida dettagliata degli interventi in tutti i settori (politica estera, economica, sociale, diritti, amministrazione pubblica) di una futura amministrazione Trump. Poiché la legge proibisce alle fondazioni di appoggiare un candidato politico, la Heritage si ferma un passo prima, ma il destinatario del suo corposo studio è chiaro.
C’è da dire che i dirigenti della campagna elettorale di Trump hanno mostrato un certo fastidio nei confronti di molte delle proposte (ad esempio il licenziamento di decine di migliaia di funzionari di carriera per sostituirli con nomine politiche): certe cose, avranno pensato, si fanno ma non si dicono, soprattutto in campagna elettorale non bisogna spaventare la gente.
Nel suo insieme Project 2025 è uno zibaldone di tutti i luoghi comuni della destra razzista, sovranista, xenofoba e omofoba americana (e di qualsiasi altra parte del mondo, dalla Russia, al Brasile, all’India, a taluni paesi europei): deportare tutti gli immigrati, usare l’esercito contro i manifestanti, mettere i “valori cristiani” al centro della società, mettere al bando la cultura “woke”, la teoria critica della razza, “difendere” la famiglia composta da un uomo e una donna, ecc. La studiosa dell’autoritarismo Ruth Ben-Ghiat (Strongmen: From Mussolini to the Present) ha definito Project 2025 “un piano per la presa del potere autoritario negli Stati Uniti… che intende distruggere la cultura legale e di governo di una democrazia liberale sostituendola con nuove strutture burocratiche occupate da persone selezionate sulla base della fedeltà politica al regime.”
Esiste poi un altro documento, molto più breve e rozzo, e per questo più interessante, che sintetizza e rende pubbliche senza infingimenti alcune delle più controverse affermazioni di Project 2025. Si tratta della piattaforma (platform) del Partito repubblicano approvata nella convention di luglio che teoricamente non dovrebbe menzionare Trump (il programma viene approvato prima della votazione sul candidato), ma che è invece un continuo atto di ossequio al Capo, in perfetto stile mussoliniano (direbbe Ben-Ghiat).
E’ qui che troviamo articolati (si fa per dire) gli enunciati estemporanei di Trump, che tuttavia, messi in fila, costituiscono un terrificante monito di ciò che potrebbe rappresentare la sua seconda presidenza.
La piattaforma parte da un luogo comune trumpiano: il paese è in uno stato di gravissimo declino (nel suo discorso di investitura nel 2017 aveva parlato di “carnaio americano”) e naturalmente la causa di questo declino sono i “confini aperti” e gli immigrati clandestini. L’amministrazione Biden, dice la piattaforma, ha provocato “inflazione, criminalità fuori controllo, attacchi contro i nostri figli, caos, instabilità, conflitti globali” (mancano solo le cavallette).
Le soluzioni sono poche e semplici ancorché bizzarre nel loro vetusto linguaggio anticomunista, al limite del paranoico: “deportare milioni di immigrati” e impedire l’ingresso nel paese ai “comunisti, marxisti e socialisti stranieri che odiano la cristianità” (qui c’è tutto Trump). Per risanare l’economia, ovviamente, bisogna comprare americano, applicare tariffe doganali alla Cina e ai paesi europei, confermare il taglio alle tasse della presidenza Trump quando e abolire le “tasse sulle mance” (lui ha confessato che non sapeva che le mance fossero tassate — lo sono forfettariamente); poi occorre aumentare la produzione di idrocarburi al grido di “Drill, Baby, Drill”, nonostante gli Stati Uniti siano energicamente autosufficienti e già esportino gas liquido.
Ci sono anche alcune proposte in cui si vede lo zampino di Elon Musk (presumibilmente in cambio del suo sostegno milionario alla campagna di Trump): si accenna ad incentivare una “robusta produzione industriale da mettere in orbita” (cosa vorrà mai dire? eccetto che Musk ha lanciato il progetto di raggiungere Marte con la sua SpaceX per stabilirvi una colonia permanente). Di origine muskiana sono probabilmente anche: la promozione dei Bitcoin, un atteggiamento più indulgente nei confronti delle auto elettricche (Tesla è di Musk) e anche una bizzarra proposta per la creazione di “una nuova università accessibile a tutti”.
I capitoli sulla scuola e sulla cultura sono quelli più sviluppati e riflettono le richieste della destra cristiana radicale e reazionaria del paese: “Le scuole devono insegnare i principi fondamentali della civiltà occidentale” e difendere i diritti dei genitori contro gli insegnanti (marxisti che indottrinano politicamente): “Noi ci fidiamo dei genitori!” Quanto ai contenuti, “Occorre combattere i pregiudizi anticristiani (?), celebrare i “Grandi Eroi Americani”, “promuovere la bellezza nell’architettura pubblica”(?) e, più concretamente, “ripulire Washington e farla diventare la città più bella d’America” (effettivamente Washington è un po’ sporca e ha un alto tasso di criminalità — forse anche a causa degli assalti al Congresso).
Va da sé che bisogna aumentare le forze di polizia e le forze armate: “l’esercito deve essere il più moderno, letale e potente del mondo” e bisogna “proteggere la American Way of Life dalle influenze maligne straniere.”
Ma la parte più concreta, cui Trump evidentemente tiene molto, è quella sulla pubblica amministrazione che, come illustrato dettagliatamente nel Project 2025, va “ripulita dai malintenzionati e dai corrotti che vanno cacciati”, così come dai “giudici marxisti” che “abusano del loro potere incriminando ingiustamente gli avversari politici”. Infine, in omaggio alle olimpiadi di Parigi, vale la pena menzionare una raccomandazione di fondamentale importanza: “tenere gli uomini fuori dagli sport femminili”.
Non è granché come programma politico di un partito e di una presidenza, ma ha il vantaggio di essere chiaro.
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