C’è una lucida logica nella follia d’aver trasformato Venezia in quel che è oggi: una Disneyland, prigioniera e succube del turismo e della sua forsennata industria che ha depredato la città più che arricchirla. Tant’è che il suo destino o vocazione odierna che dir si voglia è “produrre rifiuti” a dimensione del turismo. Venezia “è una sciagura!”, sentenzia lo scrittore Tiziano Scarpa, romanziere, drammaturgo e poeta doc d’origini lagunari, in The Passenger, libro-magazine “per esploratori del mondo”, come di autodefinisce, che raccoglie “long read, inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il racconto della vita di un luogo e dei suoi abitanti per capirne la cultura, i processi, le nuove identità, i discorsi, le questioni, i problemi, le ferite”, edito dalla casa editrice Iperborea (22 €).
Tutti frammenti che, messi insieme, “ne compongono il ritratto”, in un numero monografico sulla città lagunare (Venezia) che centra i termini della questione come non mai, fotografandone la realtà dei fatti: ormai, è cosa nota,
i visitatori quotidiani sono pari agli abitanti stabili”: fifty-fifty, 50 mila su poco meno di altrettanti residenti. Ogni giorno per calli, ponti e campielli passano turisti “nello stesso numero dei residenti veneziani.
Benvenuti a Ultra-Venezia!, allora. La città sembra “scivolare su un piano inclinato dove calano gli abitanti e cresce il livello dell’acqua”, si legge nell’analisi che ne fa lo scrittore veneziano, anche se la forbice è destinata ad allargarsi vieppiù col passare del tempo: quarantamila abitanti e sessantamila turisti, poi trentamila e settantamila, ventimila e ottantamila e via di questo passo. Fino a che la specie dei veneziani sarà estinta a favore del solo “tutti stranieri” o tutti turisti. E la sostituzione etnica avrà avuto luogo. Che ne sarà allora di questa città più unica che rara al mondo?
Di questo passo, il futuro è inequivocabilmente segnato: “Resterà solo un manipolo di cuochi, camerieri, guide turistiche, affittacamere, portieri d’albergo, venditori di rose, taxisti, restauratori, gondolieri”, tutte attività professionali finalizzate alla dimensione turistica sentenzia Scarpa. Tutto, in città, si dimensiona sul sistema del turismo, vero centro e baricentro della vita cittadina. Una controprova?
Basta guardare al sistema della raccolta e del trasporto dei rifiuti, che è ritagliato alla perfezione sulle esigenze della città, tant’è che Venezia “è una delle realtà più virtuose per la raccolta differenziata”, classificandosi al secondo posto sia “tra le 14 realtà metropolitane” sia “tra le città con oltre duecentomila abitanti”: ogni mattina alle ore 6 “i netturbini cominciano a spazzarne a mano il selciato: ogni calle, ogni campiello, ogni ponte, non c’è altro modo di pulire, non esistono alternative meccaniche”, tant’è che se una città come Mestre “se la cava con cinquanta netturbini”, Venezia, che è molto più piccola, “ha bisogno di trecento addetti” e “ogni giorno ne scendono in strada centocinquanta”.
Tutto è molto difficile in laguna, faticoso, complicato, oneroso. Per via del trasporto su acqua e dell’andare sempre a piedi. Da cui anche i costi al dettaglio superiori a qualsiasi altra città. Ma a volte i netturbini “diventano quasi assistenti sociali”, annota Tiziano Scarpa, come fossero dei radar che monitorano lo stato di conservazione e la vita della città, “Si accorgono se qualche anziano inquilino è in difficoltà e lo aiutano”. Sono quasi uno strumento di controllo sociale facendo supplenza degli assistenti veri e propri, quelli più qualificati e utili allo scopo.
Tutto è particolare a Venezia: i cassonetti sono rari, “tutto si fa con i carretti spinti a forza di braccia”, così come sono sempre i netturbini che posizionano le passerelle per l’acqua alta, “pronti in caso di emergenza, anche di notte”. E le passerelle da collocare sono tantissime, “più di mille” per coprire in tutto più di cinque chilometri di percorso affinché “i passanti non si bagnino i piedi”.
Insomma, sentenzia Scarpa, “è improbo rendere fruibile la nostra città-azienda ad abitanti e turisti” anche perché il rapporto è che per ogni veneziano residente c’è “un turista al giorno”. Tant’è che si può tranquillamente sostenere che Venezia è “l’industria del forestiero” in cui l’immondizia si distingue in quanto contiene “bottigliette a milioni”. Però, a Venezia si trasformano i rifiuti in combustibile, tant’è che 160 mila tonnellate di questi all’anno “diventano ottantamila tonnellate di combustibile”. L’obiettivo?
“La fabbrica del forestiero deve diventare l’industria della produzione turistica di rifiuti” è la risposta, ovvero: “Aumentare la presenza di visitatori, perché generino sempre più spazzatura, immondizia, pattume, ciarpame, rumenta”. Destino cinico e baro: “Allevare turisti, come pesci attirati in Laguna” per incrementare i “produttori di rifiuti”. Morale?
”È evidente che Venezia non è fatta per chi la abita. Viverci ha un costo abnorme: se ne stanno andando via tutti. È giusto così”, chiosa Scarpa.
Turismo-rifiuti-spopolamento. Una triade tutt’altro che dialettica.
È un destino segnato per un progetto piuttosto chiaro, scrive con lucidità la ricercatrice indipendente nel campo dell’antropologia urbana Chiara Zanardi nel saggio Storie d’esodo.
Negli anni Cinquanta, Venezia era “drammaticamente sovraffollata”, non avendo la possibilità di espandersi “per offrire un alloggio decente ad una popolazione sempre più numerosa” ma “anziché risanare la case della città storica per sistemare in modo più dignitoso i suoi abitanti, si optò per incentivare lo sfollamento di una fetta della popolazione verso i quartieri appena edificati in terraferma”. Un bingo! Chiave di volta, la creazione di Porto Marghera nel 1917. Già, perché “nella mente dei suoi ideatori, accanto alle fabbriche sarebbero dovuti andare a vivere gli operai e gli impiegati”.
Una città “a tre punte”, da una parte “l’antica, la storica, l’immortale”, dall’altra “la Venezia nuova”; da un. lato, quindi, sostiene Zanardi, “la città storica, restaurata e valorizzata ai fini di rappresentanza, sede ideale dei ceti dirigenti e della aristocrazia europea”, dall’altro “la terraferma, motore dell’economia pesante e di quello sviluppo sporco e brutale che la fragile Venezia non poteva ospitare” e poi il Lido, “l’isola litoranea che avrebbe dovuto costituire il polo turistico-ricettivo esclusivo ‘per le classi ricche indigene e forestiere’”. Una visione “di agghiacciante lucidità” di “bonifica umana” della città d’acqua preconizzata nel 1935 da Vittorio Cini, politico e imprenditore. Un’operazione chirurgica.
La parola d’ordine “bonificare Venezia”, secondo Zanardi, “significava allora risucchiare via le classi medio-basse” che la abitavano con tutto il loro bagaglio di “intollerabile miseria”, igienizzando i quartieri, “restaurando gli edifici e richiamandovi una nuova popolazione, borghese e più dignitosa”. Un progetto lucido, che però dal 1951 al 1968 è costato la primazia demografica di Venezia a favore della terraferma passando ad ospitare il 31 per cento della popolazione al 55 per cento: 84 mila persone che si sono trasferite al ritmo di cinquemila l’anno,
in larga maggioranza giovani sotto i 45 anni e famiglie con figli piccoli. [Ovvero], non sono stati i più poveri ad essere espulsi in questa fase, ma le classi medie di cui oggi si rimpiange così amaramente la mancanza.
Tira le somme la ricercatrice:
Chi aveva una certa disponibilità economica e viveva in affitto a Venezia ha scelto infatti di trasferirsi alla ricerca di alloggi più confortevoli, ampi e moderni di quelli che la città insulare poteva offrire, anche a costo di pagare un canone più alto.
[L’esodo, pertanto,] non era legato all’eliminazione delle condizioni abitative più critiche, come si potrebbe pensare, tanto che i piani terra su cui si abbatterà impietosa l’alluvione del 1966 rimanevano sovraffollati dal sottoproletariato urbano. [Piuttosto, invece], si allontanava il ceto medio dalle abitazioni che si voleva risanare e convertire ad altri usi o destinare a fasce di utenza più danarose, abbandonando invece nel disagio totale la popolazione più povera.
Un lucido programma all’esodo, una determinata volontà, dunque. Quasi una deportazione.
Tant’è che una volta sfrattato chi ci abitava,
le case sono state restaurate grazie ai contributi pubblici e rimesse sul mercato a un prezzo ben più alto che in passato, dando un colpo di grazia alle classi più povere che ancora resistevano aggrappate ai subaffitti nei quartieri popolari.
Pertanto a una espulsione “da mancato restauro” ne è seguita una da “eccessivo restauro”, chiosa Zanardi.
E sulla Laguna, nel frattempo, si è riversata una marea di soldi pubblici da parte di tutte le amministrazioni, destra, centro e sinistra, in forza delle “leggi speciali” che si dichiaravano finalizzate “a una salvaguardia della città storica”, ancorché astratta quanto generica. Fare denaro a mezzo di denaro.
Il risultato? Che in quegli anni Venezia è stata “per l’Italia intera un esperimento di utilizzo capitalistico di un patrimonio urbano”, sfruttato secondo logiche mercatiste, “per garantire lauti guadagni a investitori privati di ogni genere”, terreno su cui “si innesterà lo sviluppo dell’industria turistica”: il filo conduttore “è stato l’incentivo all’esodo della popolazione locale” che frenava il libero sfruttamento della città. Un sistema che esplode in tutto il suo fragore negli anni Duemila.
Ed è pertanto su questo terreno che “si innesta lo sviluppo dell’industria turistica” che partorisce la categoria dei “turisti giornalieri” e pendolari, che si allarga l’offerta ricettiva, si organizzano i grandi eventi – dal Carnevale dimenticato sempre solo appannaggio dei Signori, della nobiltà (1979) ai Pink Floyd dinanzi piazza San Marco su una piattaforma in mezzo al Bacino (1989), uno degli eventi più discussi quanto discutibili – preparando piano piano l’arrivo dilagante in città di Airbnb, offrendole la possibilità di vivere di rendita: affittare la casa in Laguna e trasferirsi altrove, in terraferma. O di investire comprando casa a Venezia per poi affittarla, opportunità sfruttata da molti – anche tra i non residenti, i foresti – che hanno scommesso sul mercato immobiliare quando questo era ancora vagamente accessibile.
The Passenger ricostruisce e restituisce un quadro agghiacciante della fredda e pianificata lucida logica di questa progressiva sostituzione etnica di residenti veneziani con turisti: fuori i primi, dentro i secondi o chiunque sia, meglio se non veneziano, al fine di incrementare la ruota del parco divertimenti dentro la logica del profitto da rendita di posizione. Da Vittorio Cini passando per il Conte Giovanni Volpi di Misurata fino a Luigi Brugnaro.
Lo scrittore Gianfranco Bettin ripercorre la nascita di Porto Marghera e lo sviluppo del suo Petrolchimico recuperando molte delle analisi di Cesco Chinello, lo storico delle sue origini per antonomasia: dalla storia di un secolo di Petrolchimico al suo declino industriale, mentre il giornalista Alessandro Marzo Magno, che scrive anche di storia della città, tratta di laguna, inondazioni, del come governare le maree fino al Mose, ultimo ritrovato della scienza e della tecnica che è costato uno sfracello di miliardi, che continua a inghiottirne ancora per la sua manutenzione quotidiana: con ritardo ora ha funzionato ma non se ne conosce la sua affidabilità. Nelle sue circa 200 pagine in The Passenger c’è anche molto altro ancora su una Venezia turistica non per caso.
L’articolo Turistica non per caso proviene da ytali..