Anna Baar, scrittrice cinquantenne nata a Zagabria ma che vive tra Vienna e Klagenfurt, nel 2015 ha pubblicato con il Wallstein Verlag Die Farbe des Granatapfels, suo primo romanzo, seguito nel 2017 da Als ob sie träumend gingen, vincitore del Premio Theodor Körner, cui nel 2022 si è aggiunto il Großer Österreichischer Staatspreis. Già il progetto di traduzione curato da Giovanni Sampaolo, nell’antologia Quarantadue scrittrici e scrittori dell’Austria di oggi (Artemide/ Forum Austriaco di Cultura Roma, Roma 2020), aveva inserito un estratto tratto da Die Farbe des Granatapfels nella selezione dei testi tradotti, dando modo al pubblico di lingua italiana di conoscere Anna Baar e con lei due nuove generazioni di scrittori e scrittrici che restituiscono con forza e precisione la ricchezza plurilinguistica di un Paese un tempo vastissimo a livello territoriale e culturale. Se dunque già Sampaolo mette in rilievo il ruolo della traduzione, come riscoperta della produzione letteraria austriaca contemporanea e come ri-produzione di una società profondamente eterogenea, ora finalmente il testo integrale del romanzo d’esordio di Baar ritrova la sua voce italiana con Paola Del Zoppo, che dopo l’anteprima nella crestomazia summenzionata ci regala ora questo immenso lavoro che è Il colore della melagrana (Voland, Roma 2023).
Il titolo del romanzo evoca almeno indirettamente quello del cult movie Il colore del melograno, incentrato sul mondo lirico del grande poeta armeno Sayat-Nova; in comune con la pellicola di Sergej Paradžanov il romanzo di Baar ha il trattamento di una vita in chiave fortemente visiva e poetica, quella della protagonista Ana, che trascorre ogni estate su un’isola dalmata, affidata alle cure della nonna Nada, per poi tornare il resto dell’anno alla vita ordinaria, in punta di forchetta, coi genitori e i nonni paterni in Austria. Il rapporto fra nonna e nipote è commovente nella sua realistica ma al tempo stesso non pacificata complessità: non una fuga dalla realtà ma al contrario, un sovrappiù di crudezza dei particolari sembra contraddistinguere le pagine in cui domina la figura grandiosa e a tratti balcanicamente assurda dell’ava, che non dimentica e non perdona l’atroce tallone nazifascista di cui serba memorie ancora brucianti, mentre mette continuamente in guardia la nipotina da quel pericolo mortale che è la vita stessa.
Nada proibisce alla nipote di parlare in tedesco, la lingua degli Übermenschen e degli aguzzini ma anche la lingua in cui la bambina vive il resto dell’anno. La lingua del padre, che come la madre, croata “austrificata”, non ha un nome nel romanzo, è lo Hochdeutsch immacolato che esige massima serietà, massimo rispetto ma anche la menzogna della perfezione, del dover mantenere sempre uno standard alto, da adulta in miniatura. Nella lingua della nonna Ana può sporcarsi, può mischiare la pelle al sale del mare e al suono del dialetto spalatino di matrice čajkava – caratterizzato da influssi lessicali veneti, come si nota anche nel libro con l’inserto di parole quali nona o barka. Quando si muove sul terreno del tedesco la protagonista è bandita, non le è concesso mai un passo falso, se non nei frangenti in cui entrano in scena come in una sfilata le tate, tutte a breve scadenza, che portano una ventata di concretezza nell’esperienza della lingua parlata in Austria dalla bambina, con l’irrompere proibito dei dialetti, possibilità d’incontro “clandestino” con il diverso e di osservazione delle situazioni che in quel contesto si vengono a creare.
Fantasmi e pensieri associati ai luoghi reali conquistano sempre più spazio, fino a sopraffare a tratti la piccola protagonista che impara, per difendersi e per trovare la sua via, a rifugiarsi nelle zone di intraducibilità, negli interstizi tra le lingue e i mondi. Non è solo il parlare a essere in gioco. La domanda è: in che lingua pensi? In che lingua sogni? Il linguaggio è traduttore del pensiero, non solo fonemi ma simboli, storie, passaggi – e zone d’ombra. Si tratta qui di un legame ancestrale che va oltre le parole pronunciate, che ha a che fare con qualcosa di molto remoto, oltre la memoria consapevole, come sottolineano anche le brevi ma dense pagine di postfazione intitolate “La terra del padre e la terra della madre” con cui Del Zoppo accompagna la traduzione: la melagrana del titolo è il frutto sacro legato ai miti e ai riti della dea Demetra e della figlia Persefone, in un rapporto a fasi alterne come è alterno anche il loro amore, fatto di nutrimento ma anche di ricatti e gelosie. In questa costellazione si inserisce poi anche un’altra figura mitica, quella di Ecate, salvatrice della giovinetta e custode dei passaggi. Ecco allora che quando nonna Nada si rivela misteriosa, dura, intelligente, divertente, irritante, nel suo pretendere senza chiedere, nelle sue sfide affiora in controluce una pienezza nascosta, un mistero, “favola del reincanto”, per dirla con Stefania Consigliere, indizio dell’essere che si fa molteplice anche quando la narrazione ha una sola voce.
In chiave mitica si può leggere anche l’epicureismo di Nada, che sa che finché c’è lei, non c’è spazio per la morte: “Ma la sua scintilla di vita è brace infernale risvegliata da ogni respiro e ogni boccata di sigaretta” (p. 270) . Verso la fine, nonna Nada dimenticherà di fumare, come forse di morire, vivendo per sempre felice e contenta insieme al suo “regno terreno intermedio”. Nel salotto di Nada, Nonna Speranza, con le sue suppellettili si mostra un cosmo fatto di oggetti e valori ormai consunti, in cui il busto del Maresciallo Tito convive con la figurina della Vergine Maria, in una piccola pinacoteca del tempo perduto che fa pensare per associazione al distico iniziale di Guido Gozzano: “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone/ i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)”. L’accostamento delle immagini è il frutto tutt’altro che casuale dell’attenta osservazione dei gesti che scandiscono il quotidiano. È questa la cifra stilistica di Anna Baar mentre traccia questo racconto intimo e al tempo stesso universale, che unisce diverse esperienze della sua vita, accomunate dalla ricerca costante dell’impercettibile e del sottile, l’ossessione per i miti e le narrazioni che attraversano l’essere umano e che si manifestano nelle smorfie del viso, nelle movenze, in immagini sempre vive, in grado di parlare ciascuna nella propria lingua a chiunque voglia mettersi in ascolto.
Nella traduzione di Del Zoppo alcune “parole intraducibili” restano incastonate (senza n.d.T. a pie’ di pagina) nel testo in italiano come Stolpersteine, pietre d’inciampo che funzionano come piccoli cerchi nell’acqua, turbamenti che vengono poi riassorbiti nel flusso comunicativo del romanzo suono dopo suono, rendendo chi legge partecipe delle Verwirrungen della protagonista stessa. “La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa”, scriveva Franz Kafka nella “Lettera al padre”.
I mesi in Austria rinunciano ai mille colori dell’isola in favore del bianco e nero dei tasti del pianoforte, strumento di comunicazione col padre. Nel mix di istantanee, inquadrature sghembe e prospettive talvolta disturbanti e disorientanti, un punto fermo è la musica che però non consente di avvicinarsi di più alle persone ma dà, per contrasto, il senso di un percorso, di un’evoluzione che avviene al di fuori della musica, nella letteratura stessa cui questo romanzo appartiene.
L’articolo Il colore della melagrana. Pensare la molteplicità proviene da ytali..