Quest’intervista fa parte di una serie di sette interviste sul Fuori! (inclusa questa, e poi quelle con Angelo Pezzana, fondatore del Fuori!, Maurizio Gelatti, Vice Presidente dell’Associazione Angelo Pezzana-Fuori!, Maurizio Cagliuso, archivista e bibliotecario della Fondazione Angelo Pezzana-Fuori!, e gli attivisti del Fuori!, Enzo Cucco, Vera Fraboni e Riccardo Rosso), realizzate durante l’estate 2024 grazie a uno Scholarship Catalyst Program grant della Texas Tech University e sono da considerarsi dedicate a Angelo Pezzana.
Anna Cuculo è nota come attrice, regista, coreografa, ballerina, scrittrice, fondatrice della rassegna Aquilegia Blu, autrice dei romanzi Il suono di una sola mano (1989) e Via Barbaroux (2004). Il suo debutto avviene a nove anni come ballerina classica nell’Aida a Torino e ha poi lavorato con con Sara Acquarone, Roberto Fascilla, Carla Fracci, Loredana Furno, Aldo Masella, Marcella Otinelli, Zarko Prebil, Enrico Sportiello, Bruno Telloli, Alberto Testa, e all’Arena di Verona, al Teatro Regio di Torino, il Teatro Petruzzelli di Bari e in tournées varie negli Enti Lirici nazionali. Per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella danza moderna e contemporanea, superata l’audizione al Centro RAI di Torino con Susanna Egri, ha danzato per Franco Estill, Renato Greco, Don Lurio, Floria Torrigiani, Tony Ventura e altri coreografi. Tra i registi, ha lavorato con Antonello Falqui, Pier Francesco Pingitore e Enzo Trapani.
Nel 1975 debutta come attrice al Teatro Stabile di Torino con Aldo Trionfo, continua poi con Tino Buazzelli, Dario Fo, Mario Missiroli, Franco Passatore; ha anche lavorato per la RAI-TV. Con Franco Passatore collabora in qualità di docente alla scuola del Teatro Stabile di Torino, proseguendo l’attività di danzatrice TV, soprattutto a Milano. Intraprende poi la carriera di coreografa e costituisce nel 1979, con Oliviero Corbetta, Michele Di Mauro, Germana Pasquero, Beppe Tosco, il gruppo di cabaret, Il pazzo e il pendolo, che si esibirà per quattro anni in tutta Italia. È stata ospite di importanti Festival, tra i quali quello di Santarcangelo di Romagna e il Grinzane Cavour. Nel 1984 crea la Culture Dance (cultura – culturismo – danza), nasce l’Anna Cuculo Group, che realizzerà per molti anni spettacoli di teatro e danza. Dal 1992 si occupa di regia e teatro di parola. Collabora con la RAI-TV, reti private e Teatri Stabili. Ha condotto il programma Sparati Alfredo su TorinoWebTV.
È intervenuta sulla rivista Fuori! all’inizio degli anni Settanta e ha partecipato al movimento LGBTQIA+ come attivista nel suo lavoro all’interno del teatro e con il Fuori!(http://www.annacuculogroup.com/anna-cuculo.html e https://artistsunitedforanimals.org/anna-cuculo.html).
Grazie, Anna, di questa intervista. Come prima domanda, vorrei che raccontassi in merito alla presenza femminile nel Fuori! a partire dalla fondazione del movimento e della rivista. C’è stato un numero monografico di Fuori! Donna per iniziativa di Stefania Sala, nel 1974, e vorrei sapere come ha visto evolversi la partecipazione di gruppi femministi e/o di donne femministe nel movimento e nella rivista.
Negli anni ‘70-‘71 frequentavo un gruppo di donne femministe torinesi con le quali andavo d’accordo, abbastanza ma non definitivamente, non del tutto, perché mi sembravano ancora legate a vecchi stereotipi: si prendeva il tè insieme, si diceva che non bisogna essere servili con gli uomini e così via.
Essendo cliente della libreria di Angelo Pezzana, la Hellas allora – non era ancora la Luxemburg – conoscevo bene Angelo, si chiacchierava, ci si frequentava un po’. Quando Angelo ha avuto la bellissima idea di fondare questa associazione – che era un’associazione, all’inizio – mi sono precipitata, perché non mi trovavo abbastanza a mio agio con il gruppo delle femministe.
Dopodiché ho anche cercato di legare una cosa all’altra, cioè di invitare le femministe che erano interessate nell’associazione Fuori! e viceversa, non tanto perché non mi sentivo di offrire nulla di importante; non ne faccio un discorso antifemminista, ne faccio un discorso personale. Le donne che sono entrate nell’associazione Fuori! nel ‘71 erano pochissime, perché molte non osavano, innanzitutto. Dico delle cose trite ma è bene ricordarsene: in quegli anni in Italia, a Torino, non potevi neanche andare mano nella mano con la tua amica, compagna, fidanzata, chiamiamola come vuoi. Venivi ancora additata. Lasciamo perdere il rapporto con le madri, con le famiglie, terrificante, difficile, quasi impossibile, a volte impossibile. C’era molto lavoro da fare, lavoro vero.
Che cosa vuol dire? Per me ancora oggi fare lavoro vero vuol dire esprimere delle idee in maniera più obiettiva possibile, quindi non portare avanti la propria idea perché poi si cementa, diventa qualcosa che non va più bene, ma cercare di essere obiettivi e di accettare il prossimo, il prossimo tuo come te stesso, di accettarlo comunque sia, e dunque di cercare di arrivare a una libertà di vita e di espressione che naturalmente non deve ledere gli altri ma deve essere libertà di pensiero, di ideologia e di azione. Io cercavo questo all’interno del Fuori!, per quanto ci fossero problemi: oggi ce li siamo dimenticati, ma io invece ricordo benissimo che in quanto già rivoluzionaria studentessa, è stato bello il fare in sé, cioè era un momento ricco di vitalità; come andare a sfilare insieme al Partito Comunista che mi stava benissimo ma con degli uomini che manco favorivano l’aborto, per dirne una, o che ti guardavano ancora storto se eri gay, oppure ti invitavano a fare chissà che cosa. Ecco, questo non andava bene però ho sempre cercato di comunicare la libertà propria e di tutti. Questo è stato l’inizio, quindi le prime riunioni con il Fuori! erano innanzitutto con uomini, poche donne, allora già qualche transessuale o che si avviava ad esserlo, ma femministe no, perché non si riusciva proprio a comunicare come si deve.
Il primo numero di Fuori! Donna (pubblicazione che poi è durata pochissimo), con Stefania Sala (non era neanche il suo nome, era un nome d’arte, non poteva firmarsi perché insegnava a scuola, faceva un lavoro per cui non era possibile all’epoca, forse l’avrebbero sbattuta fuori, volgarmente parlando), è stato interessante. Ho rivisto proprio di recente tutte le sue strip disegnate delle margheritine-flowers.
Dopo i primi anni di militanza nel ‘71-‘72, lavoravo tantissimo col teatro ed ero sempre in tournée, perciò non ho più frequentato tanto fisicamente le riunioni. I numeri del Fuori! li ho quasi tutti, quindi la passione e l’intenzione sono rimaste. Però, devo dire, erano gli anni molto belli per il teatro, perché col Teatro Stabile di Torino andavi in tournée, facevi sei mesi, otto mesi, adesso fai tre settimane ed è già tanto, dunque ero lontana. Peraltro, a differenza di quello che ho detto prima, nelle difficoltà che provava soprattutto una donna gay, bisessuale, rispetto alla società, io sono stata favorita perché nel teatro tutto ciò non è un problema. Nel teatro, da sempre, lavorando con persone più grandi di me, di tutti i generi, di tutti i gusti, da sempre è stata un po’ famiglia. In teatro non puoi non essere libero mentalmente perché altrimenti non puoi fare questo lavoro, non potresti.
Io mi sono resa conto, da giovanissima, di avere interesse per alcune persone, fossero donne o uomini. Non ho mai avuto questo problema. Parliamo di innamoramenti da ragazza che sono forse più facili, frequenti, forse non sono molto approfonditi. Poi con gli anni le cose cambiano, però i miei innamoramenti erano o di qua o di là, non mi faceva specie. Potevo innamorarmi di una ragazza o di un ragazzo, più grandi o più piccoli di me. A me interessava la persona, che cosa c’è dentro alla testa, all’anima, alla psiche e a tutto quello che fa parte di una persona. Quindi, non ho avuto mai il problema, come altri so che hanno avuto, di dire, “Adesso, questo è un uomo, questa è una donna”. Non mi interessava. Addirittura in quelle poche cose che ho scritto sulla rivista Fuori!: vorrei essere un ermafrodita, vorrei che non ci fosse il problema perché il problema era degli altri, non era mio.
Mi disturbava che esistesse questo problema, perciò ho avuto innamoramenti verso donne e uomini, anche questo per me è stato importante e, devo dire, mi ha favorita perché ho sempre avuto delle relazioni importanti in cui la persona era quello che era, ovvero la persona stessa. Non ne ho mai fatto una questione di sesso. Poi, credo come tutti, si va a momenti, ci sono momenti in cui ti senti più portata verso il femminile. Per me non è stato un problema. Anche qui devo ripetere, favorita dal fatto che provenendo dalla danza classica, dove davvero non puoi avere questi problemi perché il danzatore e la danzatrice sono solo dei corpi, non stai a vedere un maschio o una femmina. E quindi anche questo mi ha favorita. Però, adesso con gli anni mi dico: è l’ambiente che ha favorito me o sono io che ho favorito l’ambiente? Secondo me, sono nata già con questa ideologia nella testa, e ho avuto amori sia femminili sia maschili.
Qual è stato il ruolo della rivista e del movimento Fuori! e in particolare il Fuori! Donna? In quale modo ha avuto un effetto capillare su un’intera generazione?
È stato molto importante che le donne fossero nell’associazione Fuori! perché a differenza del mondo degli uomini gay, che tutto sommato si incontravano, si trovavano, come spesso ricorda Angelo Pezzana, anche a battere nei cinema, la donna ha sempre avuto uno spirito diverso. A me non è mai capitato di andare a cercare: qualche volta in discoteca dove balli, c’erano le discoteche dette gay, che poi era anche una discriminazione dire discoteca gay. Però ci si trovava e magari ci si incontrava.
Ma la donna ha avuto molte più difficoltà. La rivista Fuori! in particolare è stata una panacea, è stata qualcosa di importantissimo, perché molte donne hanno cominciato a svegliarsi, donne di tutta l’età, non solo le ragazze, le giovani, anche donne che avranno magari patito per anni di dover tenere nascosta una condizione, una situazione sessuale e invece hanno cominciato man mano a capire che si poteva, si doveva accettare, si doveva incontrare e conoscere, sempre tutto in favore della libertà, alla quale io aspiro continuamente. Libertà in tutti i sensi, sempre senza ledere il prossimo. La rivista Fuori! è stata molto rilevante, sto parlando dell’Italia; qui è stato proprio così.
Quali sono le attiviste donne che vuoi ricordare e quali sono stati i loro contributi?
Delle altre attiviste, Angelo Pezzana ha parlato sempre tantissimo, peraltro non so se posso fare dei nomi, sinceramente, perché ho avuto anche delle relazioni con delle persone. Non mi permetto di fare dei nomi perché allora non tutte erano palesi. Posso ricordare Margherita Jorino Leist, perché si firmava, potendo permettersi di firmarsi; le altre, meno.
Ricordo che c’era Mariasilvia Spolato.
Sì, lei poteva permettersi di firmarsi; è stata un’attivista importante, ha scritto anche alcune cose, è stato scritto su di lei nelle riviste. Purtroppo non c’è più.
Mi sembra che gli uomini gay fossero i più organizzati all’interno dell’attivismo LGBTQIA+.
È vero, perché erano tanti, perché erano più combattivi, perché potevano permetterselo. Ripeto, per le donne, ancora oggi ho dei ricordi non troppo belli, perché se ti corteggiava un uomo e tu dicevi, “No, guarda, non ce n’è perché in questo momento ho una fidanzata”, la risposta era, “Ma allora va bene tutte e due”. Va bene tutte e due se lo decido io, non se me lo dici tu. Uno sfinimento. Questa era una difficoltà effettiva. Poi, insomma, ancora oggi le donne sono quelle che sul lavoro vengono pagate di meno, i posti di rilievo
sono ancora pochi; questa condizione non è ancora del tutto risolta.
Volevo chiederti come hai partecipato al Fuori! nel corso degli anni. Ad esempio, hai scritto sulla rivista, firmandoti, perché ho letto qualche intervento. Quali sono le cose che ti sono piaciute e vuoi ricordare?
Ho scritto sulla rivista quando ho avuto occasione. Ho scritto un paio di poesie, altri appunti. Mi ricordo che ho scritto una cosa molto precisa perché in quel momento ce l’avevo con gli uomini gay “velati” perché non “dovevano” comparire, perché occupavano dei posti importanti in politica o anche altrove. E mi stavano molto antipatici. Ho scritto proprio un articolo pesantissimo contro le “checche velate”, me lo ricordo ancora, che era rivolto in particolare ad alcuni e che chiudeva: “Ma quanti siete? Siete proprio tanti”. Capisco anche la loro difficoltà per uscire allo scoperto però un po’ più di coraggio, magari; ce l’abbiamo avuto noi donne e insomma potevano avercelo anche loro.
E poi che cosa ho fatto? Ho parlato tanto alle persone. Credo che sia importantissimo: parlare alle persone, non a quelle che sono già d’accordo con te perché la pensano come te, sono persone libere, ma con chi non la pensa così. Non bisogna necessariamente convincere nessuno ad aprire la mente, chi è ancora prigioniero – ancora oggi quante ce ne sono persone prigioniere di schemi che non dovrebbero esistere. Questo l’ho fatto sempre e continuo a farlo. Se però questo dialogo è utile ad aprire una mente, il mio obiettivo è stato raggiunto.
Il tuo percorso professionale è all’insegna dell’arte, spettacolo e creatività. Sei attrice, regista e coreografa. Quali sono le tappe fondamentali del tuo lavoro nelle arti performative?
In brevi linee, nasco come tersicorea, che è un termine bellissimo, ma molti non conoscono. Tersicorea, ballerina classica. Quando sono andata per la prima volta a farmi la carta di identità, mi hanno chiesto, “Cosa fa? Studentessa?”; ho detto, “No, tersicorea”. “Eh?” Non esisteva il termine, è andata a cercare su una lista, dico, “Se vuol mettere ballerina, ma non è la stessa cosa”.
Vengo dalla danza classica che, ripeto, ho desiderato con tutte le mie forze perché ho costretto la mamma a portarmi a studiare: è stato un desiderio nato insieme a me, evidentemente, anche perché a casa c’era la televisione ma vedevi Studio Uno con le Gemelle Kessler, e non vedevi la danza classica. E, quindi, cosa ho fatto? Ho lavorato tanto nell’opera lirica perché il balletto classico lì per fortuna c’è. Dopo aver fatto tante Aide, sono andata all’Arena di Verona, insomma ho avuto delle belle esperienze, e a un certo punto mi sono detta, voglio fare anche qualcosa di diverso. Ho fatto delle audizioni come sempre tutti i ballerini debbono fare e sono entrata anche a lavorare in televisione, con la danza moderna, chiamiamola pure la rivista, come si poteva dire allora, e poi il curriculum ce l’avevo, per cui dei bellissimi nomi, registi. Devo ricordare Enzo Trapani perché è stato il regista più bravo che io abbia mai incontrato per la televisione, e tanti coreografi bravissimi, come Loredana Furno nel classico qua a Torino.
Poi ho cercato di ampliare le mie esperienze: facevo sia la classica che il moderno. Dopodiché, gli anni passano e ho cominciato a fare delle coreografie, perché dall’esperienza che hai ti viene anche voglia di inventare. Poi, finalmente a Torino hanno aperto le palestre di bodybuilding alle donne, nell’‘81. Mi sono precipitata anche in quell’ambiente perché mi incuriosiva il fatto di sviluppare anche una muscolatura nella parte superiore, cosa che le ballerine classiche non hanno; non avevano, adesso sta cambiando, vedi Roberto Bolle quanto è muscoloso, ma adesso però si sta parlando di uomini e non di donne, quindi ho fuso tutte queste esperienze, le ho messe insieme e a un certo punto ho ideato una cosa che ho chiamato “culture dance”: cultura, culturismo e danza. Qualcuno in Italia carinamente mi ha detto: se tu fossi stata in America avresti sfondato decisamente perché in Italia è tutto un po’ sottotono, con tutti i vantaggi che ti dà l’Italia rispetto all’America e viceversa, non vogliamo fare una questione social-politica.
Ho fuso l’allenamento di culturismo con la danza moderna e classica addirittura e avevo un gruppo di una ventina di persone, eravamo donne, che lavoravano sul palco e facevamo anche le prese tra noi, ovviamente quelle un po’ più grandi prendevano le più piccole. Io sono piccola, quindi sono stata privilegiata in questo senso. E questa è stata un’esperienza meravigliosa che è durata un bel po’ di anni. Ho avuto articoli buoni, però ripeto, in Italia tutto viene messo un po’ sotto tono.
Nel frattempo ho cominciato anche a recitare, per non farmi mancare nulla. Già avevo cantato nel coro delle voci bianche della RAI di Torino, quindi la voce era già anche abituata al canto. Ho cominciato a recitare con bravi registi, Aldo Trionfo, al Teatro Stabile. Il mio lavoro è andato ampliandosi continuamente. A quel punto facevo coreografie, recitavo, danzavo, tutto quanto. Ho lavorato parecchio con il Teatro Stabile di Torino, tanta tournée. Ricordo dei bei nomi, Mario Missiroli, Franco Passatore, per tutta la parte che riguardava gli studenti, le scuole. Ho insegnato anche per la scuola del Teatro Stabile e ho cominciato a scrivere qualche testo e a fare delle regie. È venuto tutto di conseguenza, insomma.
Non ho mai dimenticato quello che dicevo prima, parlare alle persone. Per me il teatro è comunicazione. Soprattutto quando ho cominciato a scrivere e a fare regia, ho messo in scena dei testi che raccontavano le cose di cui dicevamo prima. Quindi, dei testi nei quali si parla di libertà, di libertà per tutti, di libertà in tutti i sensi. E tra le altre cose, per esempio, non posso dimenticare un lavoro con Guido Davico Bonino, che è stato uno dei docenti più interessanti dell’università torinese, che mi aveva proposto un testo autobiografico di Herculine Camille Barbin. Questo povero ragazzo a metà Ottocento nasce donna [attribuito alla nascita] e nell’età dello sviluppo, una storia vera, da “ermafrodito” [pseudoermafroditismo maschile], diventa maschio [per decisione legale]. Da quel momento, essendo lui in un collegio femminile, cominciano i guai. Cacciato via, non sapeva come comportarsi. Erano tempi ancora più duri di quelli che abbiamo vissuto noi, ovviamente. Però si adatta, va a vivere nella periferia di Parigi, in una stamberga, riesce a fare dei lavori come cameriere o qualcosa del genere. Ma non regge alle critiche della società. Purtroppo da giovanissimo ficca la testa nella stufa, che era l’unica cosa che aveva per scaldare la stamberga, e muore.
È stata una cosa molto interessante. Storia vera, mi ha fatto questo grande favore Guido Davico Bonino, mi ha curato la regia lui stesso e a fine spettacolo avevamo anche, mi ricordo, lo psichiatra Pier Maria Furlan, e un’altra persona, uno psicologo, a parlare di questo argomento. Attraverso il teatro continuo a parlare con le persone. Ho interpretato Arthur Rimbaud, per esempio, altri personaggi maschili, oppure personaggi cosiddetti ambigui. L’anno scorso ho messo in scena proprio LGBTQIA+.
Ogni anno, dunque, da un po’ di anni a questa parte, dal 2019, intitolo Bargigli e pregiudizi una rassegna teatrale. Bargigli perché volevo anche che ci fosse un po’ di ironia, oltre ai pregiudizi, per non essere troppo seriosi e non annoiare il pubblico. Ogni anno c’è un tema e l’altr’anno erano proprio questi gli argomenti del tema. Ho raccolto degli scritti noti, per esempio di Oscar Wilde dalla sua prigione, il De Profundis, di Virginia Woolf e la sua amante, e altri scritti noti, e li ho affidati agli attori, curando una regia complessiva. L’ultima di queste pièces era di Silvia De Giorgis, transgender, che ho avuto come allieva alla scuola di teatro; all’inizio chiedo a tutti di presentarsi in poche parole: si è presentata dicendo – ed è stato molto bello il suo intervento – “Io sono qua perché vorrei curare un po’ la mia voce affinché diventasse un po’ più femminile, perché mi vedete, no?” Ma qualcuno non ha capito che era ancora in questa via di mezzo; io ho capito perfettamente, ma qualcuno è rimasto interdetto. Abbiamo lavorato sulla voce. Mi è stata molto cara questa allieva e non avendo lei prima studiato mai recitazione, facendo soltanto questo primo anno, nonostante tutto le ho chiesto, “Te la senti di scrivere la tua storia in breve e riportarla sul palcoscenico?” Lei l’ha fatto e chi l’ha ascoltata aveva le lacrime agli occhi. Ha avuto un momento molto pesante dove ha pensato addirittura di farla finita perché non riusciva a darsi una spiegazione e a prendere una decisione, quindi mi è stata molto a cuore questa serata che abbiamo fatto. Comunque anche quest’anno, sempre nei Bargigli e pregiudizi, parlo della discriminazione, qualunque essa sia.
L’altr’anno abbiamo anche messo in scena delle opere di un pittore torinese molto bravo, secondo me, che è Lorenzo Alessandri, anche lui discriminato perché considerato “il mago nero” di Torino. Siamo sempre negli anni ‘70, sempre lì andiamo a parare. Perché evidentemente in quegli anni c’è stato un risveglio da parte dei giovani e sono venute a galla tante cose importanti.
A Torino c’è la mania del misticismo.
Nero.
Attribuire un potere negativo equivale a riconoscere qualcosa di importante in questa persona perché altrimenti non avrebbero pensato a lui come a un magus.
Si riferivano a lui come a un “mago nero”. Un pittore meraviglioso. Di recente, proprio in questo mese di maggio, abbiamo riportato lo spettacolo a Giaveno, perché lui era di origine torinese, ma giavenese di adozione. Quindi, anche quest’anno parleremo di discriminazioni, sembra ancora più dura ma mettiamo sempre tanta ironia dentro. Si parla della follia, di quello che succedeva prima della legge Basaglia nei cosiddetti manicomi dove venivano sbattute soprattutto donne, perché magari disturbavano un po’ in famiglia, disturbavano il marito, disturbavano non si sa chi. Sto lavorando proprio a questo testo, adesso, in questo momento. Devo aggiungere una cosa che sembra che non c’entri nulla ma per me invece è stata molto importante: intorno alla metà della nostra vita, avevo 30-33 anni, ricordo benissimo, ho cominciato ad avvicinarmi a una ricerca, tra virgolette, “spirituale”. Dico tra virgolette perché non vorrei essere fraintesa.
Forse ho cercato di andare più a fondo nell’animo umano. Ero già interessata, quando andavo a scuola, alla filosofia più che ad altre materie. Però l’ho capito meglio verso quell’età, leggendo un libro di Balzac. Uno dice, come è possibile? È possibile. Evidentemente nel cervello e nell’anima aveva tanto da dare. A questo punto, ho cominciato a vedere tutto quanto, non solo l’arte, non soltanto il teatro, sotto un aspetto anche più profondo. Non vorrei usare altri termini. Ci avevo già provato con Jung, ma non mi dava molta soddisfazione. Non era tanto la psicoanalisi che mi interessava quanto qualcosa di più interiore ancora. Infatti, il mio romanzo Via Barbaroux ha sulla copertina rossa l’Uroburo, il cerchio che si chiude. Quindi, ho iniziato degli studi in questo senso, in questa direzione, strettamente collegati a quello che dicevo prima perché devi andare nel profondo per capire e cercare di restituire agli altri e a te stessa qualcosa di utile, non dico importante, perché siamo delle formichine rispetto a quello che è il mondo, il pianeta e l’universo, ma di utile. Io credo che a un certo punto devi accorgerti di questo fare qualcosa di utile per te e per gli altri. Ognuno a modo suo però.
Non sollevare della polvere nel cammino altrui è già utile. Cosa hai fatto per avanzare questa tua missione di utilità, come la chiami tu stessa? Quali sono i momenti fondamentali?
Non mi permetto di chiamarla “missione”, è soltanto un parlare con gli altri. Mi piacerebbe fare anche di più. Quello che posso fare però lo faccio e lo faccio col mio lavoro, col teatro, con la scrittura, con tutto ciò che ho la possibilità di mostrare col teatro, ecco questo è importante e favorevole.
Ne consegue come l’aspetto del visivo sia quello che complementa la parola e ti permette di portare avanti il tuo messaggio.
Esatto.
Qual è il tuo messaggio?
Cerca di capire chi sei e cerca di capire gli altri.
Nella letteratura dei gender studies, ci sono autori che ti piacciono particolarmente? Ad esempio a me interessano le teorie di Eve Sedgwick che ha discusso il “male bonding”, cioè l’amicizia tra uomini, attribuendo un tono omoerotico e usando come esempio la letteratura inglese, con Frankenstein e Dracula. Per Dracula c’è un intero comitato di uomini che si deve riunire per controllare gli effetti del vampiro, come ad esempio il fare emergere una sessualità femminile non controllabile. In Frankenstein c’è un inseguimento omoerotico quando il Dottor Frankenstein insegue il mostro su una slitta. Quando insegno I Vitelloni di Federico Fellini, faccio riferimento ai cinque uomini che sono amici tra di loro, dove l’amicizia sembra andare nella direzione della teoria della Sedgwick e mi sembra di capire che il tutto sia ovvio alla studentesse (del tipo, “lo sapevo”).
Trovo molto divertente soprattutto che le donne pensino, “Lo sapevo”, ma credo che ci sia questa abitudine più maschile, da pacca sulla spalla, stiamo insieme perché stiamo bene. Anche le donne, però. Faccio degli esempi molto pratici. Sono circondata da bar e ristoranti dove abito e una volta non si vedevano solo donne sedute a un tavolino a prendere il caffè o l’aperitivo. Non era così, quindi probabilmente anche qui le donne si sono date una svegliata e dicono, stiamo bene a raccontarcela tra di noi, che poi non è soltanto fare quattro chiacchiere ma anche parlare di argomenti interessanti, e ci sono continuamente tavoli pieni di donne. Quindi, forse questa cosa era giusta prima tra gli uomini con il diamoci una mano che stiamo bene insieme e poi sotto sotto magari ci piacciamo anche ma non lo possiamo dire o non ci arriviamo a capirlo. Per fortuna, oggi lo fanno anche le donne.
Invece, riguardo alla letteratura, sono appassionata di Frances Yates e Marguerite Yourcenar, che qualunque cosa scrivano, ti fanno capire che cosa c’è sotto l’animo femminile, anche quando parlano di uomini.
Io ho conosciuto la Yates, non di persona, ma come scrittrice, grazie a Gabriele La Porta, che purtroppo ci ha lasciati troppo presto perché aveva ancora parecchie cose da dire. Lui mi ha fatto conoscere questa meravigliosa scrittrice. Credo di avere tutti i suoi libri adesso.
Penso che sia importante come si porgono le cose, come si scrivono, come si raccontano, come si presentano, perché ti fanno capire quello che c’è dentro, quello che c’è sotto e nel profondo.
Pensi che le donne possano essere in amicizia?
Penso proprio di sì. Anche per esperienza mia. Io ho amiche donne e sono amiche vere.
Questo elemento di amicizia tra donne a volte mi è sfuggito e ho notato di più la competizione su tutto.
Non sono d’accordo. Ci può essere, ma è molto più palese tra gli uomini. Anzi, la questione della competizione fra donne l’hanno tirata fuori gli uomini, perché le donne si capiscono tra loro, poi si mandano anche a stendere, non vedo perché no, può essere che succeda. È una cosa secondo me vecchio stampo, nel senso che all’uomo forse fa comodo dire: “Perché quella è gelosa dell’altra, perché quell’altra è più bella, quell’altra è più brava, quell’altra ha due fidanzati”.
Il tuo attivismo si è integrato con il tuo essere ballerina, attrice di teatro e coreografa?
Penso che il tutto sia integrato per quanto mi riguarda. Da quando, dal ‘70, il movimento studentesco dalla Francia è arrivato in Italia, mi sono sentita attivista, mi sentivo addirittura anarchica, quindi ho fatto tutto il movimento studentesco. Per me il Fuori!è stato logico e attaccato al movimento studentesco. Era necessario come quell’altro. Poi gridavamo anche “Abbasso la borghesia”, ma perché c’erano questi stereotipi. Certo che non mi sarei mai permessa di andare a tirare uova alle prime del Teatro Regio, perché non ha senso. Veniva fatto anche quello, e per molti è stata una conseguenza logica.
Quindi, trovo giusto che ci sia stato l’attivismo del movimento studentesco, per tutte le cose che in queste società cambiano ma restano come punti fondamentali, che ci sia un governo o un altro. È giusto fare notare le cose, quelle che andrebbero fatte in favore di tutti e non di poche persone che stanno al potere, insomma. Ma questo è un sogno che hanno tanti, spero, cioè di essere un po’ più onesti.
Immagine di copertina: Muscoli & rimmel, 1983
Crediti fotografici © Per gentile concessione di Anna Cuculo
L’articolo Un’intervista con Anna Cuculo proviene da ytali..