Di fronte al tema della cittadinanza, che uno dei partiti della maggioranza ha riportato ora all’ordine del giorno, l’incerta politica della destra al governo, con vistose crepe al suo interno, si aggrappa all’ultimo delitto, all’ultima giovane donna uccisa, non da un ex fidanzato, da un marito abbandonato, da un pretendente respinto, ma da un immigrato naturalizzato italiano. Sono questi gli italiani che vogliamo?
Le norme vanno bene come sono, dice Salvini. E sono norme ancora basate sullo ius sanguinis, adatte a costruire una società tribale. La cittadinanza occorre meritarla, dice il presidente Zaia, ma non dice che chi ha seguito in Italia un intero ciclo scolastico la cittadinanza se l’è meritata, eccome. Sempre che l’interessato voglia richiederla, non ci sono motivi ragionevoli per negarla.
Vedo una destra in difficoltà: l’argomento ufficialmente utilizzato dalla destra ragionevole, la cittadinanza, occorre meritarla, conduce inevitabilmente a dire sì allo ius scholae. Ma questo passaggio non viene fatto, il passo successivo e coerente con le proprie stesse affermazioni non viene fatto.
Perché non viene fatto? Facile rispondere che l’argomento è divisivo all’interno della destra: Forza Italia e la parte più civilizzata della Lega sono favorevoli allo ius scholae, l’altra parte e soprattutto Meloni no. Ma è questo il punto: perché no?
Capisco il no se la proposta della sinistra (ma non solo della sinistra) fosse il puro e semplice ius soli: chi nasce in territorio italiano è per questo solo fatto cittadino italiano (come negli States). Il che tra l’altro creerebbe ipso facto venti milioni di nuovi cittadini italiani, tra vecchi e giovani. Assai meno facile giustificare il rifiuto di fronte a chi ha studiato qui, parla la nostra lingua e spesso anche il dialetto, e si sente italiano.
Due, diverse, sono da quel che capisco le ragioni del rifiuto ad affrontare i necessari cambiamenti di una legislazione ampiamente sorpassata.
La prima è la fobia della sostituzione etnica, come la chiama Meloni, attribuendola per di più ad un complotto ai danni del nostro paese: regalare cittadinanze sarebbe un incentivo alla sostituzione, una sorta di suicidio collettivo.
La seconda, la convinzione che non vi sia integrazione, ovvero che prima o poi emerga il fallimento dell’apparente integrazione. Buffo parlare di integrazione in un paese che non ha alzato un dito nella direzione dell’integrazione: nessun avviamento alla lingua, nessun avviamento ai mestieri, nessun aiuto per un tetto sulla testa: nulla.
La prima ragione è, appunto, una fobia. La seconda, un problema serissimo, che qui può essere soltanto accennato. Mi limito a dire che in materia di integrazione l’Italia non ha una politica, non ha neppure iniziato in questa direzione. L’inerzia ha portato alla conseguenza che in Italia non sono le istituzioni che si rapportano agli stranieri, abbandonati a loro stessi, bensì i singoli cittadini italiani (non sempre, certo), i quali forse tutto sommato sono migliori delle inesistenti istituzioni….Lo misureremo tra qualche anno.
Ma la domanda che va fatta a questo punto è: rendere difficile o impossibile l’ottenimento della cittadinanza è un rimedio? Una soluzione? Una protezione? O non l’esatto contrario?
Resta il tema della normativa sulla cittadinanza, che richiederebbe urgentemente una revisione legislativa, sia per attribuirla più facilmente a taluni, sia per toglierla ad altri. La relativa disciplina è da tempo “fuori dal tempo”. C’è chi la cittadinanza italiana ce l’ha e non sa nulla dall’Italia e mai ci è stato, e chi è nato qui, ha studiato qui e non può essere cittadino italiano.
Vale pena di aggiungere soltanto – come considerazione generale – che uno Stato, una nazione che ha consapevolezza di sé e fiducia nei propri caratteri e principi fondamentali non teme di includere nelle sue fila soggetti stranieri che chiedano di farne parte. Sa di essere in grado di trasmettere le sue regole, i suoi principi fondamentali.
Chiosa finale: volete informarvi su come si può diventare cittadino italiano e andate a leggere la voce cittadinanza sul sito del Ministero dell’Interno.
Trovate scritto che la cittadinanza italiana si acquista iure sanguinis,
che c’è una possibilità residuale di acquisto iure soli (se i genitori non possono trasmettere una cittadinanza)
che può essere chiesta da stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni
che si può diventare cittadini per matrimonio.
Ma non trovate scritto che può diventare cittadino italiano chi nasce in Italia e vi risiede fino ai 18 anni (se la richiede entro i 19 anni). Come mai? Dimenticanza? Occultamento, per pudore, imbarazzo, disagio?
In materia, i due principali orientamenti della legislazione riflettono due principi, diametralmente diversi: la cittadinanza si riceve dai propri genitori e la si trasmette ai propri figli, e i figli la trasmettono ai figli, all’infinito (jus sanguinis). Oppure, hai diritto alla cittadinanza del paese in cui sei nato e vivi (ius soli).
La prima, se è l’unica via per ottenere la cittadinanza, crea una tribu ed esclude tutti quelli che non vi appartengano; la seconda, che non esclude la prima, accoglie anche chi sceglie di vivere in altra organizzazione politica e ne accetta le regole. Questa seconda è stata la regola dell’impero romano.
La prima dà luogo ad una società chiusa, la seconda ad una società aperta agli altri, ai diversi, ma soggetta a regole comuni che la unificano. Le legislazioni sulla cittadinanza sono combinazioni varie di questi due principi, cui si aggiungono spesso la possibilità di scelta e la trasmissibilità.
In Italia la legislazione si basa sullo ius sanguinis: è cittadino italiano il figlio anche adottivo di padre o madre italiani, ovunque sia nato. Il criterio dello ius soli è applicato soltanto nella previsione che, chi è nato in Italia da genitori ignoti, apolidi o che non comunicano la loro cittadinanza al figlio, è cittadino italiano. Un caso non frequente. Dal primo criterio deriva che sono cittadini italiani, con relativo diritto di voto, svariati milioni di figli, nipoti e pronipoti degli italiani emigrati all’estero, soprattutto negli anni Venti e Trenta del Novecento. Anche se ignorano tutto dell’Italia, della sua Costituzione e della sua politica, e non sono mai stati nella madrepatria.
Ma naturalmente la politica della cittadinanza di ciascuno Stato tiene conto di vari fattori, di carattere fisico, storico, economico, e potrà essere quindi anche profondamente differenziata. Gli Stati Uniti in fase di formazione avevano tutto l’interesse di applicare il criterio dello ius soli, uno Stato europeo maturo e densamente abitato forse no, e se si, non per le stesse ragioni.
L’articolo Ius Scholae. Gli italiani che vogliamo proviene da ytali..