Ringraziamo l’autrice e la casa editrice Kiepenheuer & Witsch per averci concesso di pubblicare nella traduzione italiana, a cura di Cristina Vezzaro, un brano tratto da Besser allein als in schlechter Gesellschaft: Meine eigensinnige Tante.
Un ringraziamento particolare al Centro Tedesco di Studi Veneziani, che ci ha consentito di mettere la nostra rivista in contatto con l’autrice e ha messo a nostra disposizione il testo in lingua italiana.
Nevica. La Germania è una fiaba d’inverno. Vado a fare una passeggiata sul Reno, e naturalmente penso a Heinrich Heine, a cos’altro?
La Lorelei da qui non la posso vedere, ma vedo molte navi portacontainer che mi deliziano. Da dove provengono, dove sono dirette?
C’erano anche ai tempi di Heinrich? E tutta questa neve?
È raro che ci sia tanta neve in Renania, mi dicono, lavoro qui da sei settimane e c’è già stata l’acqua alta, il sentiero su cui vado a camminare era allagato. Non mi sono mancate le sorprese, insomma.
Le mie scarpe sono troppo leggere per questo clima, ma non voglio rientrare, bisogna pur tirare un bilancio per l’inizio dell’anno. Anche un paio di buoni propositi non possono far male.
«Se penso alla Germania nella notte…» Era meglio allora? Chi mi può mai rispondere? Heinrich no di certo.
Quando venni a Berlino, nel 1979, avevo 19 anni. Non conoscevo nessuno, così mi unii agli studenti ebrei in Pestalozzistrasse. Ci incontravamo nel cortile interno, proprio accanto alla sinagoga, e per la prima volta conobbi persone con una biografia simile alla mia. I loro genitori venivano dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia. All’epoca si chiamava ancora così, io stessa provenivo ancora dalla Jugoslavia. Tra di noi parlavamo tedesco, certo, perché avevamo frequentato tutti scuole tedesche, ma sapevamo parlare anche yiddish, polacco, serbocroato o ceco.
Avevamo un bel po’ di cose da raccontarci, facevamo parecchia confusione. Dopo pomeriggi emotivamente carichi, la sera andavamo a ballare fino a tarda notte. Faceva bene a tutti.
Alcuni avevano in programma di emigrare in Israele, altri erano certi che una vita in Germania fosse non solo possibile, ma perfino necessaria.
Io ero tra questi.
Può darsi dipendesse dal fatto che i miei genitori non erano sionisti tutti d’un pezzo, volevano a tutti costi restare in Europa dopo essere stati vergognosamente mandati via dal partito comunista jugoslavo. Eppure me li immaginavo bene in un kibbutz socialista, con la casa per i bambini e la cucina in comune…
Le cose andarono diversamente. Tentarono la cittadinanza italiana e ottennero quella tedesca. Destino, cara Lorelei?
Solo in Germania diventarono ebrei a tutti gli effetti. Fondarono una comunità ebraica a Berlino, costruirono una sinagoga e promossero la riconciliazione.
Si assimilarono ovunque gli riuscì, e la loro figlia imparò osservandoli.
Naturalmente la patria mancava ai miei genitori.
Mio padre aveva nostalgia di Split, sua città natale. Era un ebreo sefardita che più tipico non si può, discendeva da una famiglia con tanti figli, era il più giovane di cinque fratelli, crebbe nel ghetto, conosceva tutti e tutti lo conoscevano, trascorreva i suoi pomeriggi a Bačvice, la spiaggia balneabile di Split, giocava a pizzicin, una sorta di pallavolo in acqua.
L’Infanzia Felice terminò con il rogo della sinagoga, il piccolo Jakob salvò dalle fiamme la Torah, questa è la leggenda di famiglia. Studiò medicina, all’inizio della guerra si unì insieme ai fratelli ai partigiani.
La piccola sinagoga sefardita fu in qualche modo salvata, l’ho visitata diverse volte riuscendo bene a immaginarmi il bar mitzvah di mio padre.
Mia madre, figlia di una famiglia borghese, crebbe a Zagabria, parlavano solo tedesco, e quando arrivarono i tedeschi fuggirono troppo tardi. La conseguenza fu il campo di concentramento sull’isola di Arbe.
Sopravvisse per diventare da allora in poi un’ardente comunista e collaborare, in Jugoslavia, all’idea socialista del maresciallo Tito.
Perché continuo a raccontarmi questa storia? Perché è anche la mia storia, in quanto figlia di sopravvissuti. Quando venne il mio turno e mi ritrovai io in prima fila, adulta e lavoratrice, fui un modello di assimilazione.
Ero diventata attrice, ma le mie origini ebraiche non svolgevano alcun ruolo.
Mi spacciavo per italiana, e volevano credermi a tutti i costi.
Solo io credevo sempre meno a me stessa. Così scrissi una pièce dal bel titolo Jonteff, in cui raccontavo della mia famiglia ebraica. Fu una vera e propria bomba. La seconda generazione prende la parola! Gli spettatori erano irritati: riprendevano a propinargli la tematica degli ebrei? Erano stati così belli gli anni pacifici con Heinz Rühmann e Peter Alexander. Vabbè, Hänschen Rosenthal era ebreo, ma non ne faceva una questione di stato. Adesso questa giovane donna si metteva a raccontare di trasmissione ed ereditarietà del trauma. Che fatica. Non sarebbe mai finita.
La tensione la percepivo, così fui cauta, feci outing come ebrea, certo, ma con senso dell’umorismo e carisma. Mi avrebbero trovato simpatica, avrebbero trovato simpatici gli ebrei, non avremmo disturbato oltre.
Il sole luccica sopra il Reno. Sorprendentemente, la neve non si è sciolta. Bambini e adulti scorrazzano sulla riva del fiume. Quanta neve! Un miracolo.
Non ho i piedi congelati, per fortuna, perché non ho ancora finito di pensare, tutt’altro.
Non sono un’eccezione. Sono il contrario di un’eccezione. Heinrich Heine si era assimilato e al contempo ne aveva sofferto. Si era perfino fatto battezzare ed era rimasto ebreo. È così.
Anche Jacques Offenbach, nato non a Düsseldorf come Heine ma un po’ più tardi a Colonia, voleva a tutti i costi provare un senso di appartenenza.
Non è riuscito a nessuno dei due. Nemmeno in Francia, loro seconda patria. Vivevano a Parigi, ma avevano nostalgia della Germania.
La Germania è ideale come paese della nostalgia.
Il mio amico Robbi, renano anche lui, si trasferì a Tel Aviv da Düsseldorf molti anni dopo Heinrich e Jacques. Amava Israele, ma ogni volta, in inverno, mi chiedeva se in Germania stesse nevicando, oppure, in primavera, se il raccolto di asparagi era andato bene quell’anno. Seguiva i risultati del Fortuna Düsseldorf, nessuna società di calcio in Israele è mai riuscita a entusiasmarlo tanto.
La neve sul Reno oggi gli piacerebbe di sicuro. Devo assolutamente mandargli una foto!
Mi vengono incontro un po’ di persone che festeggiano il Carnevale. Le giornate di follia sono ormai vicine.
Adoro il Carnevale. Un tempo avevo fatto inserire una clausola nei miei contratti teatrali: dal Giovedì Grasso al Mercoledì delle Ceneri dovevo essere libera. Altrimenti non avrei firmato il contratto.
Un’intera regione in stato d’emergenza, masse di persone in costume che ballano e ridono. Miseria e pianto una accanto all’altro, in quanto drama queen sono cose che mi attirano parecchio. Se dovessi mai trasferirmi a Colonia diventerò membro dell’Associazione Ebraica del Carnevale di Colonia in Germania!
Heine, Offenbach, Robbi avevano tutti nostalgia della Germania.
La nostalgia è un sentimento strano. Un dolore difficile da afferrare. Non appena si pensa sia superata, basta sentire una melodia familiare, un odore che passa sotto il naso, e già ci si ricade!
Längizyt, così la definiscono gli svizzeri bernesi. Più passa il tempo, più la nostalgia persiste. Così la traduco io. Forse il detto «Il tempo cura tutte le ferite» non è che una frottola…
Dopo che ho fatto outing come ebrea, è iniziata una nuova epoca. Sia per me sia per il pubblico.
Non ero più la piccola italiana familiare e divertente. Ero diventata la piccola ebrea estenuante. Certo, divertente lo ero ancora, ma la risata ti si bloccava in gola.
La mia barzelletta preferita: Mosè e Aronne si raccontano barzellette su Auschwitz e si contorcono dalle risate. Passa Dio e li sente ridere. «Come potete raccontare barzellette su Auschwitz?», chiede indignato.
«Non puoi capire», gli rispondono entrambi, «tu non c’eri!»
Mi fa schiantare dalle risate!
Come ebrea diventai ben presto una celebrità pubblica, fui invitata a talkshow, riferii con allegria delle nostre tradizioni, fui sempre molto alla mano.
Una volta, però, finii tra due fuochi. Il dibattito sulla circoncisione era al culmine, e io mi ritrovai, di ottimo umore, ospite di Markus Lanz. Mi aveva pregato di mantenere toni allegri, c’erano già state discussioni fin troppo serie al riguardo. Ma certo! Ma certo, nessun problema, lo rassicurai. Intrattenni così gli ospiti con il brit milah dei miei figli, accorgendomi troppo tardi che l’atmosfera era cambiata e Ursula von der Leyen si stava indignando per una pratica tanto medievale. Markus Lanz iniziò a prendere le sue difese, e si scagliarono contro di me dandomi della madre incosciente. La mia collaudata battuta pronta svanì, al contrario, non fui assolutamente all’altezza della situazione.
Va bene essere ebrei, ma senza pratiche sanguinose, cortesemente. Meglio vittime, pagliacci o provocatori… così mi ritrovai a pensare quella sera a letto, durante una notte insonne. Non mi venne in mente quanto in quel momento desiderassi poter far parte della società come fosse cosa ovvia.
È passato del tempo da tutto ciò. I miei figli sono cresciuti e godono di ottima salute.
A Berlino, mia città natale, si sono trasferiti molti israeliani, hanno aperto eccellenti ristoranti, prima non immaginavo che la cucina kosher potesse essere tanto buona. Hanno gestito le discoteche più incredibili e chiesto la cittadinanza tedesca. Suppongo che i loro nonni a Haifa non ne siano stati esattamente entusiasti. Erano stati cacciati via da Berlino, avevano dovuto ricostruirsi una nuova esistenza nel deserto, e adesso i nipoti tornavano in quella che un tempo era la loro patria. Ambivalente.
Io ero entusiasta. Soprattutto di un ristorante arabo-israeliano. Berlino, cosmopolita, variopinta, libera, la mia città!
All’opera, dove curo regie, è sempre stato così. Si canta in italiano anche se si viene dalla Corea, dall’Albania o dall’Islanda. La nazionalità non ha mai svolto alcun ruolo, a condizione che si azzecchino le note.
«Sarai l’ultima ad andartene da Schöneberg» era il giudizio degli amici ebrei nei miei confronti.
«Può essere!» rispondevo io ridendo. «Sarei felice se mi seppellissero qui! Così possono venire tutti e facciamo un festone!»
Raggiunti più o meno gli ottant’anni, i miei genitori avevano ormai litigato con tutti. Soprattutto con gli altri migranti. Zdenko, che aveva il ristorante di specialità jugoslave. O Giuseppe, che gestiva la gastronomia. Non andavano a questo o a quel funerale: uno veniva da Banja Luka e aveva fatto un commento strano. E quell’altro di Zara non lo aveva contraddetto. I Rosenbaum erano troppo ortodossi per loro, e i Cohn troppo poco. Con i russi facevano fatica, solo Salvatore di Napoli, che aveva una piccola agenzia di viaggi, fu risparmiato. Con lui andavano a mangiare, a lui facevano visita.
A volte non sapevano nemmeno più perché avevano litigato, l’importante era solo non farsi più visita, non chiamarsi più e soprattutto non andare al funerale.
Quando sono morti i miei genitori, ho invitato tutti. Ebrei e non ebrei. Croati, serbi e bosniaci. E ovviamente gli italiani. Tutti i nomi che sono riuscita a decifrare nelle rubriche a brandelli. Sono venute cinquecento persone. Faceva freddo, ci siamo abbracciati goffamente, l’ho registrato sotto la voce riconciliazione.
Due navi portacontainer mi sfilano davanti agli occhi, direzione Basilea. Seguite subito dopo da una nave cargo con a bordo del carbone.
Non so perché ho un debole per le navi portacontainer. Una volta devo andare a Rotterdam e trascorrere la giornata al porto. 42 km di porto. Un paradiso.
A poco a poco si fa sera. Un tramonto rosa sopra il Reno. È davvero un bello spettacolo. Sembra che la regione voglia farsi pubblicità.
E adesso è cambiato tutto? Davvero, dal 7.10.2023, è cambiato tutto?
Forse non è cambiato tutto, ma uno strappo c’è stato.
Tra noi ebrei si discute già da anni. Fedeli alla linea e progressisti si sono fatti battaglia. “Antisemitismo postcoloniale”, era questa l’espressione in uso. Molti giovani intellettuali non si parlano più.
Oppure si insultano, preferibilmente tramite i media. I giornali tedeschi stampano soddisfatti le lotte di trincea. Be’, perlomeno si litiga.
A loro si aggiungono i non ebrei, i filosemiti, gli antisemiti. Che comunque preferiscono tacere. E poi tutti gli altri, che temono per la pace e non sanno più cosa pensare e provare.
Sono tutti offesi. Questa è la cosa più facile. Perché la situazione in Israele, a Gaza, ma in realtà in tutta Europa è problematica, e il cessato allarme non è in vista. Tremendo da reggere.
Devo preoccuparmi per il mio funerale? Alla fine non verrà nessuno, perché uno è pro e l’altro è contro, e quello ha detto questo e l’altro non ha detto niente …
E sono tutti perplessi, e nessuno vuole più ballare o cantare lo shantel. Le prospettive non sono belle.
Quando ero giovane mi immaginavo spesso che i miei genitori fossero emigrati in America. Sarei diventata un’ebrea newyorchese, una vera e propria Jewish American Princess.
Di sicuro sarebbe stato molto meglio…
Ma è così? Gli Stati Uniti sarebbero stati meglio? Da una parte, come direbbe il mio amico Tevje di Anatevka: certo, sarei stata un’ebrea fra tanti. Meno un’eccezione, più un’ovvietà. Dall’altra: ho costruito la mia carriera di autrice proprio qui, tra ebrei e tedeschi.
Tra vergogna, riconciliazione, colpa, umorismo, impotenza, eccetera.
Sono stata incredibilmente fortunata con le amiche e gli amici, le colleghe e i colleghi e anche i compagni di lotta, e adesso sembro già una rabbina.
«Fresca è l’aria e l’ombra cala, scorre il Reno quietamente; sopra il monte raggia il sole declinando all’occidente.»
Non c’è modo migliore di dirlo di come lo ha detto Heinrich Heine. Ho freddo, e prima di essere colta dal sentimentalismo, è meglio che vada a casa.
Ma dovrei venire più spesso a passeggio qui, ecco un buon proposito per l’anno che viene.
Immagine di copertina: Parco del Palazzo di Augustusburg a Brühl (Renania) sotto la neve (WikiCommons)
L’articolo Una passeggiata sul Reno proviene da ytali..