English Version / Ytali Global
Diego Dalla Palma è tra i maggiori esperti italiani di stile, look maker, truccatore, scrittore, personaggio televisivo, poliedrico imprenditore e fondatore dell’omonimo brand di trucco e prodotti di bellezza. Nato nel 1950 a Enego, nel Veneto, si è formato a Venezia e dal 1968, a Milano, ha lavorato come costumista e scenografo per il teatro e la RAI. Nel 1978 ha fondato Diego Dalla Palma Milano, una linea di prodotti di bellezza e trucco, e il Laboratorio d’Immagine Makeup Studio a Milano.
Tra le più importanti e influenti personalità televisive italiane, Diego Dalla Palma ha collaborato con varie rubriche su settimanali e mensili, e ha pubblicato manuali di stile, trucco e bellezza, e diversi libri, tra i quali La bellezza interiore (2006) e Accarezzami, madre (2008). Ha elaborato ulteriormente la sua biografia nel podcast VIVO (Show Reel Studios, 2024).
Diego, ti ringrazio di questa intervista. Nella creazione della tua immagine poliedrica, hai riconciliato esperienze molto diverse tra di loro. Vuoi parlare delle varie funzioni che hai dato alla tua creatività, come ad esempio, imprenditore, scrittore, anche costumista, e personaggio televisivo?
Credo che tutte partano fondamentalmente dal tormento. Io sono sempre stato un uomo con una natura dolente e tormentata. Di conseguenza, sotto certi aspetti, un irrequieto, e questo mi ha portato a cimentarmi: tormentato e, attenzione, lo ripeto, irrequieto. Per cui, l’irrequietudine ti porta quasi sempre – ho conosciuto poche persone come me, ma qualcuna l’ho conosciuta – a misurarti con la prossima sfida. E adesso invece sto vedendo che le sfide che non ho più in me, non sono più nel mio DNA, stranamente sono sostituite da richieste di mie prestazioni, iniziative e una creatività completamente diversa che io avevo oramai messo in soffitta.
Però, andiamo per ordine. Il primo tormento è stato quello dell’adolescenza, per cui io volevo misurarmi in assoluto con il fatto che, durante la scuola artistica che ho frequentato a Venezia e dopo, amassi disegnare abiti, vestiti e accessori. Quello è stato il primo impeto creativo che mi ha portato a diventare costumista in RAI: alla RAI di Milano in Corso Sempione e alla RAI di Torino in Via Verdi, dove ho lavorato, ripeto, come costumista, per quasi dieci anni, soprattutto alla RAI di Milano, dove vivevo. In quei dieci anni, la mia creatività era al massimo perché avevo fatto anche lo scenografo: il teatro per me era una aspirazione e una ispirazione, vitali per me, entrambe. Il teatro diventava il palcoscenico del mio modo di concepire l’arte, il palcoscenico della mia creatività e il palcoscenico dei miei tormenti, che in quel caso incontravano i termini per sopirsi. Quindi, quei dieci anni sono stati i dieci anni più belli in assoluto della mia vita.
La seconda parte, che è quella legata alla cosmetica, ha uno scopo completamente diverso, che secondo me non nasce dalla creatività, ma da una specie di arresa. Mi sono arreso alla mancanza di soldi. Purtroppo, pur vedendo i miei costumi, le scene, pur amando il lavoro che facevo, adorandolo, mi accorgevo che a fine mese avevo sempre grosse difficoltà. Per fortuna, ho sempre coniugato il mio estro con il senso pratico e ho detto, “Qui se continuo così non so come pagare gli affitti”, e ho aperto questa piccola profumeria in Brera, intendendo fare il profumiere, dunque vivere da profumiere, guadagnare, vendere prodotti cosmetici e prodotti di trucco. Sapevo che avrei comunque dato un’impronta sempre singolare e atipica, perché io sono in tutto atipico, nel mio modo di essere, vivere, vestire, ragionare, disegnare; sono atipico in tutto, nel mio modo di vedere anche la vecchiaia.
Quindi, ero certo che questo mi avrebbe dato un impulso economico di tutt’altra natura e finalmente soddisfacente. Ma attenzione, anche lì subentra il tormento e l’irrequietudine, e ho cominciato a pensare e a fare degli ombretti rossi, rosa, gialli e fucsia, e rossetti blu, neri, bianchi e verdi. Sentivo che la gente mi derideva perché dalla vetrina – dove c’era un vetro, per quanto spesso – sentivo i commenti della gente che passava.
Però, ho atteso un bel po’ di tempo, almeno un anno e mezzo, di nuova fame, nuova sofferenza, però nello stesso tempo lavoravo comunque in RAI e facevo qualcosa, per cui riuscivo a mantenermi. Poi, è scoppiata la fortuna che mi ha portato negli Stati Uniti, dove sono stato definito dal New York Times il profeta del makeup italiano nel mondo.
Questo, indubbiamente, in Italia, esterofili come siamo, ha portato subito un risultato: servizi su Vogue, sui giornali importanti, e si è sviluppato il mercato di un’insolita linea cosmetica, che è tuttora insolita, che ha anticipato i tempi, perché io ho queste intuizioni che sono sicuramente legate a momenti difficili della mia vita e anche al coma che ho subito da ragazzino. Detto questo, dopo la cosmetica, io ho incominciato a scrivere, perché mi piaceva scrivere i miei pensieri e le mie riflessioni con un linguaggio un po’ enfatizzante, cosa che adesso non farei più. Adesso scrivo in maniera molto più stringata e asciutta.
Quella è stata l’altra parte della mia vita. Poi, attenzione, libri e quindi editoria di settore, tecnica, e di preparazione al mestiere di truccatore, acconciatore, ideatore di accessorio e abiti. Quella parte dell’editoria si è mescolata fra pensieri, saggistica e libri didattici. Di nuovo, irrequietudine e ho detto fra me e me, “Mi piacerebbe sviluppare qualcosa anche nel settore cosmetico” che prosegua nella singolarità e ho lavorato anche per altri. Poi, sinceramente, ho cominciato a vedere che l’età era quella che era e ad avere una vena non pessimistica ma realistica: “Adesso ho 50-55 anni, sono verso i 60, e tutto finirà nel nulla. Come tutti, dovrò accontentarmi, viaggiare, perché il viaggio è la mia grande passione”. Il viaggio e la musica sono i due elementi per cui non mi sono tolto la vita in passato. Detto questo, concludo in questa fase, ma, perdonami, Victoria, ti ho dato questo excursus perché così hai chiara la questione.
Detto questo, avevo già messo nella mia testa non una vita da pensionato ma una vita con qualche consulenza, viaggi, poi improvvisamente arriva il teatro, nel senso che mi chiama il direttore artistico di allora dell’Olimpico di Vicenza, due anni fa, e mi dice, “Nei classici voglio inserire te, con questo tuo concetto sulla bellezza, inventami una formula”.
Io gli porto una formula di una bellezza che passa attraverso il coraggio, la diversità, il dolore, la consapevolezza, la disciplina e il destino, e lui mi dice, “Meraviglioso, meraviglioso”. Salgo su un palcoscenico e dicono [che] me la cavo con disinvoltura, non ho il minimo timore di creare empatia con la gente, passo in maniera disinvolta dal palcoscenico al pubblico, coinvolgendolo, accarezzandolo, cosa di cui però mi ero già accorto nei convegni ai quali partecipavo in passato, dei Master che curavo; morale della favola, è un successone, con alcuni teatri con varie caratteristiche, luoghi particolari, promotori particolari che mi fanno salire sul palco per parlare di questo viaggio teatrale, che si chiama Bellezza imperfetta, con sottotitolo Fra vacche e stelle, perché tutto parte da un esempio fortissimo che mi dava mia madre e che è partito da mia madre, una donna che, pur puzzando di letame per via delle vacche, si curava e si truccava. Noi vivevamo di pastorizia e di bestiame, però in qualsiasi momento del giorno o della notte, lei aveva quel rossetto rosso scarlatto che mescolava con la lacca per i capelli perché durasse di più. Poi dico, “Ma che bello” e comincio anche a stemperare un po’ gli impegni teatrali perché io non sono un attore e nemmeno voglio calcare i palcoscenici con tournée. Voglio che rimangano eventi: limito gli eventi su teatri di un certo tipo, magari un po’ più piccoli, però raccolti, dove posso avere un atteggiamento più intimo.
Vengo chiamato da un’agenzia che si chiama Show Reel Factory e vengo convocato. Mi dicono, “I nostri personaggi che curiamo sono tutti molto più giovani di lei, i nostri talent. Lei è quello in assoluto più in là con gli anni”. Io dico, “Sì, vecchio”. “Lo dice lei. Sì, sì, ma non c’è nessun problema”. “Ecco, però noi vediamo che ha questa facilità di parlare con le persone, di coinvolgere, soprattutto i giovani”.
Allora dicono, “Lei ha un modo di fare, di dire le cose, anche una voce” – che io invece ho sempre pensato fosse orribile e gracchiante – “adatta ai podcast”; e io dico sinceramente, “I podcast?” “Sì”.
Registro cinque puntate di podcast su varie tematiche e sta andando meravigliosamente. Questo me l’hanno detto quando sono andato a Milano perché i responsabili di Showreel Factory hanno voluto incontrare il produttore che mi ha chiesto di fare i costumi per un musical italiano. Debutta all’Arcimboldi di Milano nei primi giorni di febbraio e proseguirà in vari teatri in tutta Italia e anche in Cina. Dovrò disegnare un numero considerevole di costumi e curare tutta la parte che riguarda il costumista. Anche qui non ho cercato nulla. Allora io potrei dirti, l’irrequietudine, il tormento, quanto saggiamente, dopo la morte di mio padre e mia madre, mi hanno dato tregua e pace, stranamente il destino non mi ha dato lui tregua, perché mi continua a dare segnali incomprensibili e stupefacenti. Ecco, ti ho detto tutto.
Vorrei elaborare ulteriormente la tua scrittura e il podcast VIVO. Si direbbe che crei la tua biografia predilegendo l’autenticità, la precisione dei fatti e la descrizione dei sentimenti. Ma soprattutto includi l’autocritica e una visione di te stesso senza toni romantici o elogiatori. Infatti, mi sembra che una volta tu abbia espresso del dispiacere per aver vissuto come se il mondo fosse stato un luna park.
Quali sono state le riflessioni che ti hanno portato a scegliere questo stile narrativo autobiografico così preciso che hai anche espresso nel podcast VIVO?
Il disperato bisogno di autenticità, naturalezza che non ha niente a che fare, attenzione, con l’essere estrosi. La naturalezza non c’entra niente con l’estro. Si può essere estrosamente naturali e viceversa, o naturalmente estrosi. L’autenticità, la naturalezza: ma, attenzione, una ricerca spasmodica da parecchi anni ormai di onestà, chiarezza e lealtà.
Tant’è vero che tu hai definito il tutto con termini tutti positivi. Ci sono persone che invece dicono, “Esibizionismo”, altre che dicono, “Ha voglia di fare il ciarlatano”, altre ancora che dicono, “È un autolesionista, ama farsi del male”. Può darsi, Victoria, ma io ho finalmente trovato qualcosa che non avevo nemmeno immaginato mai di incontrare: la serenità.
Se la serenità è arrivata attraverso tutta questa narrazione cruda, violenta, a volte addirittura autolesionistica, ben venga, mi ha fatto bene. Ti aggiungo un altro elemento, però, che mi fa stare bene raccontandomi: il piacevole gusto di creare una trappola ai bastardi, ai bugiardi, agli infingardi e alle persone che appena non ci sarò più vorranno dire le mie miserie, vorranno raccontarle. Finito io, lo so che di me è finito tutto, ma sicuramente, dato che ho un po’ di notorietà e sono una persona – non personaggio – un po’ singolare, anzi un po’ tanto singolare, ci sarà chi dirà, “Ah, ma sai che era così, ma sai che ha fatto questo, sai che ha fatto quello, sai che ha avuto questo, sai che ha avuto quello”. Ecco, allora, far pace con me stesso, essere severo con me stesso e raccontare a me stesso tutto quello che io ho vissuto nel bene e nel male, nella miseria, negli splendori, questo mi dà la sensazione di chiudere, quando sarà, con il mondo in maniera onesta.
Questo è un altro elemento che mi piace sottolineare. Essere onesto con me stesso nel raccontarmi perché mi porta serenità. Essere onesto con gli altri in modo che non vedano in me qualche cosa che francamente io non sono. Perché io non sono tutto quello che la gente idealizza. Io ho persone che mi scrivono sui profili delle cose esagerate, che mi vedono come una specie di sciamano, santone, profeta o mentore. Io non sono niente di tutto questo. Sono soltanto un uomo che vive con la massima, a volte persino imbarazzante, lealtà, ciò che è.
Hai raccontato di aver vissuto un’esperienza premorte per via di una meningite linfocitaria quando avevi sei anni. Quando le teorie di Elisabeth Kübler-Ross si sono affermate, è stato detto che le esperienze pre-morte sono il risultato dell’avanzamento della cardiologia, per cui la possibilità di rianimare i pazienti ha portato a tutta una serie di esperienze narrate delle cosidette “near-death experiences” (in breve, NDE). Vuoi raccontare come questa esperienza ha cambiato la tua vita?
Ha cambiato la mia vita, ha cambiato anche le mie inclinazioni personali su tutto, soprattutto sulla parte artistica, perché mia madre mi diceva – e anche mio padre – che prima di quel coma a sei anni, con una matita in mano nemmeno facevo un segno. Dopo quel coma, non so cosa sia successo, invece ho cominciato a disegnare visi, occhi, bocche, sentivo proprio l’inclinazione: volevo dipingere, volevo fare l’artista.
Quel coma lo ricordo come un regalo della vita, perché mi ha fatto capire, ho capito. Mentre sono stato dentro in questa atmosfera leggera, eterea, dove fluttuavo in un mondo lilla, non rosa, mi rendevo conto che stavo magnificamente e incontravo figure, altrettanto eteree ed altrettanto evanescenti, che non conoscevo. Però, descrivendo un paio di queste figure che incontravo costantemente, secondo mia madre erano i miei nonni che io non avevo conosciuto e probabilmente altre persone che però, non avendole incontrate, non ho mai potuto capire se fossero esseri vissuti o meno.
Sta di fatto che quel coma l’ho vissuto in tempi in cui gli ospedali non erano così muniti di terapie intensive e mezzi straordinari per ridare la vita alla gente. Anche lì, è una specie di mistero, perché io ero dato per spacciato dal Professor Modesto Dalla Palma, che era un nostro parente, grande medico a cui è intestato in questo momento anche un padiglione dell’ospedale di Feltre nel Veneto. A suo parere, appunto, io non mi sarei più ripreso.
Invece, dopo un po’ di giorni, circa una settimana, mi sono ripreso, e da allora io ho dato un valore elevatissimo alla morte. Un altro aspetto da considerare è che per un mese io sono stato arrabbiato col mondo, non ho più voluto giocare con gli altri bambini. Si è impossessata dei miei occhi un’espressione molto triste e malinconica.
In quel mese e mezzo, io volevo tornare in quel posto meraviglioso che avevo attraversato. Potrei dirti che il coma, come ho detto poc’anzi, è stato per me un regalo perché ha dato un significato profondo – può sembrare strano – proprio alla vita. Io sto vivendo una vita straordinaria, meravigliosa, perché l’ho resa meravigliosa io, non perché sia meravigliosa la vita. Dico sempre che la vita è un viaggio difficoltoso per una breve vacanza. Io l’ho resa meravigliosa, ma sono convinto che tutto quello che ho fatto, inventato su me stesso e sulle mie azioni, è fortemente legato al destino che mi ha fatto attraversare il coma, conoscere la morte, che rispetto e attendo quando sarà, con estrema serenità. Ho rispetto per la vita tanto quanto per la morte.
Vuoi raccontare gli anni americani del tuo brand e di quando hai lavorato, ad esempio, con Bloomingdale’s?
Bloomingdale’s è l’occasione attraverso la quale io sono arrivato in America, perché si tratta di questo: Ginevra Falzoni, che era una giornalista di Vogue, aveva segnalato questa mia linea anomala, strana, che all’epoca si chiamava Makeup Studio soltanto, ma non si chiamava Diego Dalla Palma, poi è diventata Makeup Studio Diego Dalla Palma, poi abbiamo tolto Makeup Studio ed è rimasta solo Diego Dalla Palma.
Quando il Bloomingdale’s ha mandato un fax a Ginevra Falzoni dicendo di fornirgli il modo di contattarmi, io sono stato contattato. Quando m’hanno detto, “Lei è scelto per entrare negli Stati Uniti al Bloomingdale’s, sulla Quinta Strada, per presentare la sua linea e venderla”, io ho raggiunto un grado di esaltazione eccessiva, anche dannosa sotto i certi aspetti. Sono partito per gli Stati Uniti, peraltro senza sapere l’inglese, che non so neanche ora. So un po’ di spagnolo e un po’ di francese. Negli Stati Uniti me la cavavo abbastanza bene con lo spagnolo. Sono arrivato negli Stati Uniti con il Bloomingdale’s che mi ha accolto con un atteggiamento e una preparazione trionfali, per cui mi sembrava pazzesco incontrare tutte le giornaliste di bellezza di New York al Plaza, fare un Master di trucco, vedere la gente che si metteva in fila per comprare prodotti.
È stata una esaltazione che mi ha fatto fare subito dopo un gravissimo errore. Spendere, spendere, spendere. Tu lo sai perfettamente. Ti scegliono perché tu investa, non perché sono innamorati di te. Ti scegliono perché capiscono che loro devono fare delle cose originali, ma non ti regalano niente. Tutto è legato agli investimenti che tu fai. Io ho fatto degli investimenti esagerati e li ho pagati, perché dopo un anno e mezzo o due, ho dovuto uscire da Bloomingdale’s e, invece, rimanere con dei distributori che erano di Miami, Salt Lake City, Chicago e Washington D.C. Erano dei piccoli distributori che però, attenzione, mi hanno fatto fare, all’epoca, due miliardi di fatturato solo con l’America, quindi io ero molto contento. Sta di fatto che, voglio essere sincero, anche qui onesto, ho sempre finanziato tutto, continuando ad alimentare anche i debiti.
Ecco perché poi ho pensato che fosse interessante vendere il marchio e occuparmi soltanto con un occhio esterno, quasi contemplativo, di tutto; se no, non avrei nemmeno potuto svolgere altre attività. Questa è la storia del Bloomingdale’s e posso dirti, questa cosa è bella, di quando sono arrivato alla Quinta Strada senza sapere l’inglese, arrivando dall’Italia, mai vista New York, e sono arrivato davanti al Bloomingdale’s, dal Plaza dove ero ospite, perché mi hanno detto, “Attenzione all’albergo, dev’essere… [di lusso]”. Andiamo al Plaza, ma costava tanto. Insomma, quando sono arrivato davanti al Bloomingdale’s e ho visto una mia fotografia gigante all’ingresso, sopra, appena si entra, sospesa in aria, ti confesso che mi sono messo a piangere. Poi, sono andato in albergo dopo due ore a chiamare mia madre, esaltandomi perché mi sembrava di essere arrivato chissà dove. Invece, ero arrivato solamente a una nuova lezione di vita che stava iniziando.
All’interno dei momenti fondamentali del tuo lavoro di imprenditore, quali sono i prodotti che sei più soddisfatto di aver creato?
Sono quasi tutti nati con un concetto: fare tutto con la volontà di sconfiggere i luoghi comuni. Chi l’ha detto che un rossetto dev’essere rosso, perché non può essere blu? Gli smalti adesso sono di tutti i colori, però all’epoca era considerata una roba impensabile. Io avevo tutti gli smalti già di tutti i colori per le unghie. Quindi, non ho un prodotto in particolare al quale sono legato. Ho [in mente], in particolare, invece, tutte le campagne pubblicitarie che ho adottato, assumendomi rischi di ogni genere, persino denunce, e che io ricordo come un momento magico della realizzazione e della creazione della linea Diego Dalla Palma. Era per me un divertimento incredibile vedere che, tutte le volte che usciva una mia idea pubblicitaria e di comunicazione, [questa] faceva discutere i cosiddetti benpensanti, soprattutto i bigotti. La cosa che mi ricordo è la singolarità dei prodotti che erano contro ogni logica commerciale.
Oggi, invece sono fra i più apprezzati al mondo. Anche perché, attenzione, dietro c’è una donna straordinaria che si chiama Micol Caivano, che è l’amministratore delegato. Però, la cosa più bella che ho vissuto in relazione alla linea era la mia atipicità che andava a incontrare un’altra atipicità nel comunicare. Mi rendevo conto che mi scontravo invece con l’omologazione, la banalità e l’ovvio di una percentuale elevatissima di gente, quasi la maggioranza. Questo è stato forse il processo più divertente e soddisfacente della mia vita, a livello cosmetico.
Come image-maker, quali pensi che siano le differenze principali nell’idea di bellezza femminile italiana e quella americana, dettate da Hollywood?
Sono cambiate anche quelle dettate da Hollywood anche se, rispetto a quella italiana, si salvano. Con estremo dispiacere, mi spiace dire che sia l’uno sia l’altro, sia il concetto americano sia quello italiano, sono rimasti contagiati da una parola terribile, che è una metastasi dell’estetica e anche dell’immagine di una donna o di un uomo: l’omologazione.
Anche in Italia c’è un’omologazione legata a molti blogger e influencer. Non a tutti, ti prego di precisarlo quando lo scrivi. A molti, troppi forse, che danno delle indicazioni omologanti a delle giovani, soprattutto, che non sono mai loro stesse. Le vedi tutte uguali, con le mini canotte, col pantalone svasato in fondo a vita bassa, l’ombelico scoperto, la scarpa da ginnastica più o meno di quella marca, riga al centro con capelli lunghi, rossetto rosso con labbra iperdisegnate e eyeliner con la riga spessa e sopracciglia accentuatissime.
Anche in America c’è, purtroppo, ma in tono minore a Hollywood, per fortuna, dove c’è un pochino sempre stata la legge dell’individualità, una volta in una maniera meravigliosa, infatti c’erano i grandi, Sydney Guilaroff fra i parrucchieri, le grandi Anita Colby fra i responsabili d’immagine, i grandi costumisti dell’epoca e i grandi truccatori, da Max Factor a Westmore, e a tutti gli altri.
Quelli avevano veramente messo insieme un laboratorio d’immagine unico e irripetibile, meravigliosamente maestoso. In Italia, c’è stata Cinecittà che aveva seguito un po’ quelle orme. Adesso Cinecittà non c’è più. In America si sono tutti “kardashianati”, nel senso di Kardashian. Tutti più o meno seguono il concetto dell’omologazione. In America, credo un po’ meno, il valore dell’individualità è rimasto ancora abbastanza presente.
Quali sono secondo te le attrici e personalità iconiche che hanno avuto un impatto sul look delle donne a livello internazionale?
In passato, sicuramente, Audrey Hepburn, ma poi anche molto lontane fra loro come stile: Cher, per esempio, è una di queste, che comunque ha avuto il suo seguito, un’iconica, anche di varietà; Carmen Dell’Orefice, nonostante i 93 anni, è iconica. Marilyn Monroe, in una maniera vastissima – del passato, certo, se andiamo verso quella direzione – Grace Kelly, Jacqueline Kennedy.
Di queste nuove, quella molto pallida con i capelli corti, un’attrice molto selettiva, sempre elegantissima, è Tilda Swinton, ma anche altre hanno creato un loro stile, come per esempio una delle attrici preferite e iconica di Woody Allen, che usa i cappelli, Diane Keaton. In Francia, sicuramente Brigitte Bardot, Anouk Aimée, Fanny Ardant, Catherine Deneuve. In Italia, credo sinceramente che la più iconica sia stata Marella Agnelli, moglie di Gianni Agnelli. Monica Vitti, in assoluto, Silvana Mangano, Sofia Loren.
Poi, nel mondo, per esempio, ecco una che è fuori da ogni canone e che è un quintale e mezzo di ragazza americana, è molto sincera, ha dichiarato la sua omosessualità, è molto amata dai critici, è Beth Ditto, una che lancia sempre in un suo stile. Non dimentichiamoci comunque Madonna e Lady Gaga, è ovvio.
Quali pensi che siano gli elementi di stile fondamentali di una diva cinematografica?L’originalità. Gli elementi devono essere l’originalità e l’essere atipici. Allora, io la chiamo, anziché “originalità”, “l’atipicità”.
L’atipicità è quel valore che, se hai intelligenza, coraggio, cultura e ironia, ti fa diventare un’icona. Donna o uomo, non ha importanza.
Immagine di copertina: Diego Dalla Palma
Crediti fotografici: Marco Marrè Brunenghi © Per gentile concessione di Diego Dalla Palma
L’articolo Un’intervista con Diego Dalla Palma proviene da ytali..