Abbiamo appreso con grande dolore della scomparsa di Mario Giachini, ultimo compagno della mitica “vigilanza” di Botteghe Oscure, angelo custode dei segretari di Pci e Ds, in particolare di Achille Occhetto, sulla cui sicurezza vegliava con Mario Farini, che tutti chiamavano Giancarlo. In ultimo Giachini fu esponsabile della sicurezza del Pd. Come ricordava Stefano Sedazzari, in occasione della scomparsa, anni fa, di Guido Quaranta, altro pilastro dellla vigilanza del Pci,
per chi è cresciuto nel Pci prima e poi nel Pds e nei Ds, per chi ha frequentato la Direzione del Pd, per chi ha frequentato le nostre manifestazioni e iniziative Guido era una presenza forte, stabile, continua. Insieme agli altri, ai tanti altri che hanno sempre lavorato nella ‘vigilanza’ del partito, Guido era una certezza.
Mario era il più giovane dei compagni del “servizio d’ordine”, numerosi ai tempi d’oro del Pci, poi via via sempre meno col ridursi della forza del partito e del suo, un tempo, notevole apparato.
E quando il bottegone era il Palazzo per eccellenza della politica italiana, la vigilanza aveva un compito importante, nel cortile erano numerose le auto a disposizione dei massimi dirigenti, ognuno aveva un autista di fiducia, e tra loro si creava una sintonia che era umana ed era politica, per il tanto tempo trascorso insieme, per una consuetudine di anni che comunque, secondo il costume comunista, era sempre in una cornice di rispetto verso il dirigente. Il segretario disponeva di almeno due autisti. Occhetto poteva contare su Giancarlo e Mario, che s’alternavano alla guida dell’Alfetta blindata, a volte anche scortandolo insieme, ombre silenziose e sicure in pubblico, ma in auto interlocutori ascoltati dal segretario. Teste politiche di prim’ordine, sia Giancarlo sia Mario. Erano il mini focus group di Occhetto, che davano pareri assennati, forse quelli di cui maggiormente si fidava. Senza mai perdere di vista la gerarchia – erano i primi a considerare sacro il segretario – esprimevano anche francamente un loro parere critico, e a volte una sorta di freno all’esuberanza di Akel, o ai suoi malumori.
Capitò una volta che l’alfetta di Occhetto, scortata come d’abitudine da un’auto della polizia, arrivò al casello autostradale di Roma, alla fine di un lungo viaggio di comizi in Emilia e nella Marche. L’auto della polizia, invece di restare attaccata al seguito di quella del segretario, inspiegabilmente entrò nel casello a fianco per poi uscirne rapidamente, perdendo di vista l’auto del segretario, nel frattempo bloccata da un’auto davanti che tardava a ripartire. Arrivati a casa di Occhetto, vedemmo l’auto della scorta già lì, e si può immaginare l’imbarazzo degli agenti. Occhetto non disse niente, Mario s’incaricò di rassicurare i poliziotti improvvidi. Mario, gigante imperturbabile e umano.
Mario era un compagno di cui si fidavano ciecamente i segretari che via via l’hanno avuto al suo fianco. Diventato da poco segretario, Piero Fassino aveva passato in rassegna tutte le sezioni di lavoro del partito, con una serie di riunioni organizzate dai responsabili di ognuna. Interpellò alla fine anche Giachini per fissare una riunione dei compagni della vigilanza. E Mario con la sua cadenza ironica romana gli fa: “A Fassì, e se si viene a sapè che il segretario sta a perde tempo con noi, ma che figura ci fai?“.
La scomparsa di Mario ha suscitato numerose reazioni, come capita con la scomparsa di un dirigente di rilievo. Lui, di fatto, lo era.
Le sue radici affondavano nella cultura comunista, ma aderì con convinzione alla svolta della Bolognina, di cui fu testimone diretto.
In una lunga conversazione con ytali, il 12 novembre 2019, nella trentesima ricorrenza della svolta, Mario racconta quelle giornate che hanno segnato indelebilmente la storia della sinistra italiana.
Riproniamo qui di seguito quel colloquio:
È William il primo a saperlo, quella domenica di novembre. Classe 1922, operaio meccanico, partigiano, figura mitica della Resistenza bolognese. Lino “William” Michelini capisce dove Occhetto sta andando a parare. Lo capisce prima ancora che il segretario comunista completi la frase: “D’accordo, verrò alla Bolognina a salutare i compagni. Ma se dico…? Se annuncio… che ne pensi, William?”. William annuisce. Il dado è tratto. Due Alfa blindate scortate come sempre dalla polizia lasciano il Cavallino rosso, dove, finito di pranzare, Occhetto e William hanno appena deciso di andare all’incontro dei partigiani riuniti in una sala comunale in via Tibaldi nel quartiere della Bolognina. In testa la prima macchina, l’auto guidata da Mario con alcuni compagni bolognesi, dietro la seconda macchina, guidata da Giancarlo, con Achille, la sua compagna Aureliana e William. Pomeriggio alla Bolognina, dunque. Non per una “iniziativa di massa”. È una riunione di partigiani nel 45mo anniversario della gloriosa battaglia di Porta Lame, 7 novembre 1944, dove i nazifascisti schierarono una quantità di armi e di uomini mai vista in uno scontro in pieno centro urbano. I partigiani riuscirono a sfuggire al progressivo accerchiamento delle proprie postazioni provocando poi numerose perdite tra le file nemiche. Un capitolo fondamentale nella storia della liberazione di Bologna.
Sì, non era prevista quella visita alla Bolognina. Non era nell’agenda del segretario. William, che ci accompagnava ovunque e comunque quando il segretario era in Emilia Romagna, era con Achille e Aureliana in una domenica bolognese di relax. “Sai – gli dice a un certo punto William – i compagni sanno che sei nel territorio, sarebbe bello se venissi e portassi il tuo saluto, anche solo dieci minuti, è una ricorrenza importante per noi”. Occhetto coglie la palla al balzo, si lascia facilmente convincere da William. Il resto è storia nota”.
A parlare è Mario. Mario Giachini, allora alle soglie dei trent’anni, un giovane compagno della vigilanza, molto serio e al tempo stesso affabile, già carico di grande responsabilità. Mario Farini, da tutti chiamato Giancarlo, più anziano di lui, e Mario Giachini erano i due principali autisti e angeli custodi del segretario generale del Pci. Compito di grande delicatezza e importanza. Sempre costantemente al fianco di Occhetto, tutte le volte che metteva piede fuori casa o fuori Botteghe Oscure, anche nei suoi momenti di relax in Maremma o in vacanza. Compagni superfidati. E di fatto confidenti del segretario, molto legati a lui personalmente. Testimoni di tanti momenti e snodi cruciali della storia politica italiana negli anni Ottanta e Novanta e di tanti retroscena di importanti vicende politiche. Giancarlo è venuto a mancare due anni fa. Mario, che lavorò con Occhetto dal 1986 al 2001, è il capo della sicurezza del partito, che oggi è il Pd.
Con Mario torniamo dunque a quei tempi, quando ancora c’era il Pci e quando Botteghe Oscure era un palazzo strategico nella mappa politica della Capitale. Proverbiale la riservatezza dei dirigenti comunisti, ermetica la chiusura ai cronisti del bottegone, anche se i tormenti di un mondo cristallizzato ma negli ultimi mesi sul punto d’esplodere si riverberavano già da molto tempo in quelle stanze, e qualcosa affiorava anche all’esterno. Finché non s’arriva al novembre del 1989. La domenica del 12 novembre.
Quel giorno – ricorda Mario – alla Bolognina c’erano un cronista dell’Ansa e Walter Dondi, il corrispondente bolognese dell’Unità. Dondi gli fa quella domanda sul possibile cambiamento del nome e la risposta di Occhetto – quel “lasciano presagire tutto” – riportata il giorno dopo dal giornale del partito, fa venir giù Dominiddio. Quando mi è chiesto quale fu la reazione mia e di Giancarlo, ricordo che naturalmente capimmo al volo quel che stava annunciando Occhetto. Giancarlo veniva da una cultura ingraiana, mi chiesi in quel momento cosa stesse pensando. Ma per lui come per me prevaleva su tutto il legame con Occhetto.
Già nei giorni immediatamente seguenti, il clima dentro Botteghe oscure cambia, una grande tensione regna nel palazzo, che andrà via via crescendo. La mitica vigilanza tiene bene, e non è un dettaglio in un partito ben organizzato e strutturato, improvvisamente messo alla prova da uno scontro interno senza precedenti, mentre per la prima volta una manifestazione di militanti ostili alla svolta si raduna intorno al bottegone quando si riunisce la prima direzione dopo la svolta: “un fatto scioccante”, ricorda Mario.
A Roma e nelle regioni i responsabili della sicurezza erano figure importanti. Erano anche l’espressione, con la loro dedizione alla “causa”, del sentire più profondo del popolo comunista. Per questo il loro sostegno o almeno una loro disciplinata neutralità erano fattori cruciali in una manovra come quella che il segretario s’accingeva a fare. Giancarlo e Mario erano non solo i suoi compagni fedelissimi, ma anche “termometri” affidabili di quel che succedeva nel partito – e non solo nei piani alti del bottegone e tra i dirigenti di federazione – di quel che ribolliva nelle profondità del Pci.
Un giorno, qualche tempo prima della svolta, mentre lo riportavamo a casa, a piazza Campitelli, Occhetto fa fermare la macchina. “Ma tu non hai nessun dubbio?”, mi chiede. Gli dico: “No, non ho dubbi, non ho neppure trent’anni, posso avere dubbi su una prospettiva così? Io non ho un rapporto col Pci come può averlo uno che ha trent’anni più di me. Lo vedo come un momento di discussione, finalmente si discute. E poi si apre un congresso, ognuno di noi potrà dire quel che pensa. Ci stai chiedendo il permesso di poter fare questa operazione? Nessuna remora”. “Tu sei matto”, mi fa Occhetto. Io mi giro: “Ah , e il matto, so io?”
C’erano naturalmente anche segnali di forte disagio in giro mentre s’intensificavano le voci di una possibile svolta radicale. C’erano compagni dubbiosi, inquieti. In Piemonte, il responsabile della vigilanza era Palmiro Gonzato.
Figura straordinaria, ex-partigiano, un compagno meraviglioso, e lui qualche problemino di accettazione e condivisione, l’aveva, l’aveva posto. Occhetto mi dice un giorno: “Andiamo a Torino, non dirlo però a nessuno, organizza un incontro con Palmiro. Digli che devi andarci ”. Lo chiamo, gli dico, “Guarda vengo su a Torino per una cosa. Vieni a prendermi da solo”. Quando vede Occhetto sbianca. Dice: “Io non ho avvertito nessuno, né la scorta né la polizia”. Non ce n’era bisogno. Andiamo in una trattoria, un tempo dopolavoro dei ferrovieri socialisti, e Occhetto ha un colloquio con lui. Due ore cercando di convincerlo. Della giustezza della cosa. Sei segretario generale e hai tempo da perdere con un vecchio partigiano? Sì, ci volle parlare direttamente lui, senza la mediazione di nessuno. La posta in gioco era seria, Occhetto voleva che tutto fosse a posto, non voleva ci fossero questioni aperte o irrisolte. Tutto doveva essere a piombo.
Nel riuscire a convincere anche vecchi partigiani, c’era sicuramente la capacità empatica di Occhetto, il suo carisma, ma contava anche il fatto che egli fosse il segretario generale del partito, figura che non poteva essere messa in discussione, specie da comunisti vecchia scuola. “È la proposta del segretario? Forse non capisco, c’è qualcosa che mi sfugge, ma è la sua proposta e se l’ha detto il segretario…”
Anche chi non era d’accordo con lui, non smetteva per questo di avere il rispetto e la considerazione che si deve al segretario del partito.
Avevamo la direttiva precisa che il segretario, quando lasciava il palazzo di Botteghe oscure, l’auto non poteva uscire per nessun motivo con una persona sola, dovevamo essere almeno due, con la scorta. Un giorno Occhetto scende dal secondo piano, senza preavviso. Chi lavorava con me quel giorno, non ricordo chi, non c’era, il segretario doveva andare urgentemente alla camera, allora chiamai – era lì, a qualche metro – l’autista di Ingrao, Renato. Gli dissi: “Renato vieni con me. Non posso uscire da solo”. Renato Pucciarone, un compagno meraviglioso, rimane un po’ interdetto, proprio me? Renato mi segue stranito e anche Occhetto, quando lo vede – lo conosceva bene – è perplesso. Quando saliamo in macchina per uscire dal garage, Renato si gira e guarda Occhetto e gli dice: “Ti odierò per tutta la vita per quello che stai facendo, però finché sei il segretario io sono a disposizione”. Questa era la vigilanza del Pci. Quando mai uno si sarebbe potuto permettere di rivolgersi al segretario in quel modo? Renato quella mattina diede sfogo al ribollire delle viscere che ormai ci avrebbe portato al superamento del Pci, e però al tempo stesso ebbe anche la lucidità di dirgli che finché era il segretario gli riconosceva il ruolo di segretario.
Il vissuto di Mario di quei tempi tumultuosi e appassionanti è pieno di episodi e aneddoti. Su tutti, alla distanza, spiccano i ricordi di un legame particolare con un personaggio speciale come era Occhetto. Mario era segretario del Pci nella sua Cesano, un centinaio d’iscritti, quasi tutti per la svolta.
Un giorno tiro fuori la tessera e gli faccio: “Vedi tu e io siamo uguali, anch’io sono segretario del Pci”. “Già, mi fa lui, ma io sono generale. Segretario generale”·
Riemergono anche i momenti più drammatici del passaggio segnato dalla svolta. Come quel giorno nella casa di campagna in Maremma. “Ti rendi conto che si sta decidendo la vita di milioni di persone? Era affranto”.
I ricordi emotivi non fanno velo al ragionamento politico. La svolta, per quanto inaspettata, in realtà non lo era affatto da tempo.
Soltanto chi non è in buona fede può immaginare che fu improvvisa. Era l’esito di un dibattito di decenni, che andava avanti dai tempi di Berlinguer. L’ossessione politica di avvicinarsi all’Internazionale socialista, da dove nasceva altrimenti in Occhetto? Sapeva benissimo che una volta la procedura d’ingresso si fosse avviata, di conseguenza quel problemino dovevi risolverlo. Come tutti i grandi politici seppe cogliere l’occasione che si presentava. Accelerare il processo e dargli una decisa svolta, appunto.
L’accelerazione finale ha diversi momenti intermedi prima della svolta. Tra tutti Tien An men. Mario ricorda bene anche un altro momento critico, la commemorazione di Imre Nagy a Budapest “dove io e Fassino portammo la corona come i due corazzieri, precedendo il segretario”. Fu allora che Occhetto si rese conto che ogni tentativo generoso di riforma di quei sistemi da parte di Gorbaciov era ormai una partita definitivamente persa.
Lo si capiva perfino dai dettagli. Nella foresteria del Posu, il partito al potere in Ungheria, la delegazione del Pci arriva tardi, stanca, dall’Italia, dove Occhetto è reduce da un comizio elettorale. Ad accoglierci panini immangiabili e coca cola senza gas. Tutto era già in disarmo.
Inevitabile, parlando con chi era sempre al fianco di Occhetto tirar fuori un episodio spesso citato come “il patto del garage”, in virtù del quale, secondo la vulgata, la segreteria Occhetto fu frutto di un’intesa generazionale con D’Alema nel garage di Botteghe Oscure, mentre il segretario Natta era ricoverato in terapia intensiva a Perugia.
Né io né Giancarlo eravamo presenti, se mai c’è stato. Ho lavorato con Occhetto dal 1986 al 2001. Di questa cosa non s’è mai sentito parlare. Né quello che è seguito tra i due lo farebbe pensare, caso mai il contrario. Piuttosto è vero che la segreteria Occhetto fu l’esito di un conflitto politico duro. Una parte del partito non voleva che Natta si dimettesse. Fu Aldo Tortorella che sbloccò tutto. Tortorella era tra le persone più intelligenti che il Pci abbia mai avuto. Capiva perfettamente che lì serviva ben altro. Era un problema di prospettiva, non un problema contingente.
In Tortorella, fine intellettuale, comunista doc, tuttora tale, c’era l’idea che solo un personaggio come Occhetto, figlio della tradizione comunista ma d’indole estroversa fino all’eresia avrebbe potuto traghettare il Pci oltre le secche mortali in cui altrimenti sarebbe fatalmente finito.
L’articolo Mario Giachini. Molto più che un angelo custode proviene da ytali..