La presentazione dei film in Concorso di questa Mostra numero ottantuno, è quasi giunta a termine e si può cominciare a tirare le somme.
Duole dirlo ma il livello medio si è drasticamente abbassato rispetto agli anni precedenti. Con l’arrivo di Barbera nel lontano 1991, la qualità dei film selezionati nelle varie sezioni si è sempre più alzata, fino ad arrivare alle edizioni pre-covid, in cui praticamente ogni titolo della competizione era un piccolo capolavoro. Con l’arrivo della pandemia abbiamo vissuto un piccolo passo indietro, dovuto alle difficoltà di produzione dei grandi film hollywoodiani. Ma la Mostra non si è fatta intimorire, ospitando e regalando applausi e riconoscimenti a molte opere che pochi mesi dopo avremmo trovato agli Oscar.
Quest’anno, nonostante le rassicurazioni del direttore artistico, lo sciopero che ha colpito l’industria americana l’anno passato ha prodotto i suoi effetti negativi. È indubbio che la qualità dei film in competizione sia la più bassa degli ultimi otto anni. Nessun titolo ha masso d’accordo tutti, molti sono divisivi, altri apprezzati ma con difetti. Da altri ancora scaturisce odio senza riserve.
Il problema maggiore di questo concorso è la presenza di molte opere confuse. È come se tanti registi abbiano deciso di realizzare film più grandi di loro. Troppe idee e molto confuse, fanno perdere il centro delle storie, la loro forza e il loro senso.
Athina Rachel Tsangari esordisce a Venezia nel 2010 con Attenberg, film che vale la Coppa Volpi a Ariane Labed e che vede partecipare al suo fianco il compagno, allora quasi sconosciuto, Yorgos Lanthimos, alla sua unica apparizione da attore. Quest’anno Tsangari torna in concorso con l’adattamento cinematografico del romanzo Il raccolto di Jim Crace, intitolato Harvest. Nonostante segua in modo preciso il libro, Harvest è un film confuso. La volontà è quella di trattare troppi temi importanti, tutti assieme, senza riuscire a trattarne nessuno. Una società rurale vive in maniera inerme l’arrivo di un nuovo padrone, il capo dei contadini rispecchia il comportamento remissivo dei suoi sottoposti. Walter Thirsk è interpretato da un sempre straordinario Caleb Landry Jones, che ci regala la seconda grande prova d’attore in due anni, affiancato da un altro straordinario collega Harry Melling (anche lui esploso a Venezia qualche anno fa). Tecnicamente il film è ineccepibile, fotografia e regia straordinaria, raccontano in maniera ricca e suggestiva la campagna scozzese medievale e la vita pagana, che segue il ritmo della terra, dei suoi abitanti. Con l’arrivo di un nuovo proprietario, i braccianti giacciono volutamente impotenti davanti ad ogni ingiustizia loro mossagli, fino ad abbandonare la propria casa poiché incapaci di ribellarsi. Potere, vigliaccheria, ma anche natura e tradizione, sono solo alcuni dei temi che il film vorrebbe toccare, senza però mai avvicinarsi a nessuno di questi e quindi non trattandoli abbastanza a fondo da farli diventare il fulcro del progetto. Il risultato è qualcosa di suggestivo allo sguardo ma complesso da digerire. Resta l’amaro in bocca perché sarebbe potuto essere un grande capolavoro, con un po’ più di attenzione.
Stessa sorte per il titolo più atteso di questa Mostra, vale a dire Joker: folie à deux. Dopo il rivoluzionario Leone d’oro del 2019, Todd Phillips e Joaquin Phoenix, che all’epoca avevano descritto il film come un’opera d’autore che non avrebbe mai abbracciato le dinamiche da blockbuster mangia soldi e che non avrebbe mai avuto un seguito, tornano proprio con quel sequel che promisero di non realizzare. Hanno venduto l’anima e la credibilità per qualche milione in più nel conto in banca? Senza alcun dubbio. Il primo Joker era un film rivoluzionario realizzato con il cuore (Phoenix accettò il ruolo nonostante il compenso ridotto, Phillips lottò per mesi contro la Warner per concorrere a Venezia), questo è fatto con una mano sul portafogli. Il regista prova a fare qualcosa di altrettanto azzardato, un cinecomic musical o, addirittura, dramma processuale, non si era mai visto e mai si vedrà. Ma il risultato è scarno, poco convincente, perso.
Ancora una volta, un’idea di base straordinaria ma una realizzazione non all’altezza. Folie à deux è un film che non sarebbe dovuto mai esistere, ma che esiste perchè i suoi due autori si sono fatti ingolosire dal compenso. Se bisogna incolpare qualcuno, sono proprio Phllips e Phoenix, che passano dall’essere due dei più rispettati membri della scena hollywoodiana, a perdere quel rispetto nel giro di un attimo. L’ossessione per la star e la venerazione di un personaggio che vediamo sui giornali e in TV, ma che non esiste, questo dovrebbe essere il fulcro del film. Un tema non solo molto attuale ma che poteva essere una risposta alle critiche preoccupate che erano state mosse proprio al primo capitolo cinque anni fa. Si direbbe che raccontare una storia lineare in modo semplice non basta, quindi Phillips decide di aggiungerci l’elemento d’azzardo. Perchè non inserire degli elementi musical, che poi, pian piano, svaniscono in un classico dramma processuale su una causa non di cronaca ma ispirata a un personaggio dei fumetti? Presi singolarmente ognuno di questi spunti è, a dir poco, geniale, ma la scelta di metterli assieme per creare qualcosa di caotico, sembra quasi voluta, come se il regista ci stia prendendo tutti in giro, intascandosi i soldi della Warner, ma realizzando un film appositamente brutto come per avvelenare il sistema dall’interno. Purtroppo non è così, perché il film non è così brutto, vuoto e inutile, bensì troppo ricco, troppo volenteroso (e non pretenzioso) di essere un altro capolavoro politico, com’era il primo, ma si perde per strada.
L’ultimo caso potrebbe essere il importante, poiché possibile prossimo Leone d’oro. The brutalist (assieme a Ainda Estou Aqui di Walter Salles) di Brady Corbet è il grande favorito per la vittoria, ma non è il capolavoro a cui tanti inneggiano. Un po’ come Queer di Guadagnino, anche se in modo meno netto, è un film che sta dividendo il pubblico. C’è chi lo reputa eccezionale e chi non lo sopporta. La verità è probabilmente a metà. Corbet vuole fare il suo personale Il petroliere, oppure, cambiando genere, Balla coi lupi, o Il gigante, o C’era una volta a New York, per fare il nome di James Gray che quest’anno siede in giuria.
Insomma la sua personale visione del film americano che racconta l’America nel modo peggiore possibile, dipingendola come una sanguisuga mai sazia, che si ciba di chiunque e qualunque cosa senza nascondersi. Un’opera fluviale di tre ore e mezza, con tanto di interludio in stile anni cinquanta, che racconta la storia di László Tóth, architetto ungherese ebreo emigrato negli USA, che comincia una nuova vita e una nuova carriera. Aiutato dal magnate Harrison Lee Van Buren, Tóth realizza nel corso di lunghi decenni un progetto immenso, che lo porterà dalla Bauhaus alla prima Biennale Architettura. Nonostante il successo Tóth e la sua vita vengono risucchiate dall’America, dalla sua macchina mossa da potenti tycoon mecenati stupratori di artisti, soprattutto europei immigrati, e di cultura. Il problema è che un film del genere necessita di una rabbia profonda che deve trasparire da ogni scena, da ogni battuta. The brutalist non ha nulla di ciò, come già non l’aveva l’opera prima del regista, L’infanzia d’un capo, ritratto della gioventù di un futuro Hitler immaginario. Sembra che Corbet sia convinto di essere il nuovo Scorsese o Coppola o Cimino ma è, come tanti oggi, privo di quello spirito rivoluzionario arrabbiato che caratterizzava la Nuova Hollywood. Non si può pensare di fare un’opera di denuncia senza ira, senza incisività (che traspaiono eccome dal film di Salles, e che per questo, considerando la giuria, è ancora il favorito).
Un concorso piuttosto confuso dunque, con pochissimi, probabilmente nessun, film completamente riuscito. In tanti hanno provato a realizzare il capolavoro dell’anno, senza successo, presi dalla smania di dimostrare d’essere grandi autori intellettuali. Qui sta la differenza tra un bravo artista e un genio, il primo ha costantemente l’assillo di dimostrare la propria bravura, il secondo fa e basta.
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