Sono cinque i film italiani in concorso all’ottantunesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. In passato il nostro paese ha fatto fatica a emergere, mandando film di basso livello, al limite dell’imbarazzo considerando il pubblico internazionale della manifestazione. Le cose cominciano a cambiare nel 2013 quando Francesco Rosi vince il Leone d’oro. Successo non più ripetuto, per ora, ma di premi ne sono arrivati molti, pensiamo a Bones and all, È stata la mano di dio, Io capitano. Quest’anno la rappresentanza italiana sembra avere a cuore il tema della guerra, che racconta in modo inedito, senza mostrarla. Ma non solo, ci sono i ritratti di grandi personalità divisive del nostro paese, Matteo Messina Denaro e Riccardo Schicchi (che due più lontani tra loro non si potevano trovare). E poi c’è Guadagnino che fa un film folle che ami o odi.
Cominciamo dal primo film presentato, Campo di battaglia di Gianni Amelio. Stroncato in tronco da critica e pubblico, Amelio decide di raccontare la prima guerra mondiale dall’interno di un ospedale veneto. Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rossellini (che dopo la vittoria dell’Ubu per l’Amleto di Antonio Latella sta sbarcando anche al cinema) sono tre medici, ex compagni d’università, con idee molto diverse sul conflitto in corso, ma che collaborano all’arrivo di una forza ancora più incontrollabile della guerra, una pandemia. Mentre il personaggio di Motesi è un uomo convinto nello sforzo bellico, il cui unico obiettivo è rimettere in sesto i soldati ricoverati per farli tornare al più presto al fronte, quello di Borghi è l’opposto. Vede l’uomo oltre il fucile e aiuta i feriti a non tornare al fronte, procurandogli dei traumi che gli permettano di non essere eleggibili alla leva. La Rossellini sta nel mezzo, per poi riunirsi ai due colleghi quando la spagnola uccide giovani e vecchi, soldati e civili, senza distinzione. Il film ha dalla sua la capacità di raccontare i diversi modi di considerare e vedere la guerra, senza mai mostrare il conflitto. Borghi è sempre ineccepibile e la regia di mestiere. Nonostante ciò non ha colpito il pubblico, che lo reputa un film poco credibile e quasi abbozzato.
Passiamo a Vermiglio, seconda opera fiction della regista Maura Delpero, che invece è l’opera italiana più apprezzata. Una storia travolgente e una grande prova di regia, rende il film una piccola sorpresa. Apprezzatissimo sul lato tecnico Vermiglio è un titolo profondamente d’autore e intellettuale. Troppo d’autore e intellettuale. Sembra, eccetto per i tre cavalieri Guadagnino, Garrone e Sorrentino, che ogni artista italiano sia terrorizzato dall’idea di fare qualcosa di pop. Siamo un paese che artisticamente fa fatica a crescere poiché ancora ancorato allo stigma dell’opera d’arte popolare. Un grande film non può essere fatto per il grande pubblico, per guadagnare tanto e, magari essere, esportato all’estero, no un grande film è un’opera difficile, non adatta a tutti, che serva a compiacere quei quattro intellettuali ultra ottantenni rimasti in vita nel paese. Delpero aveva la possibilità di realizzare la versione italiana, e quindi certamente meno piaciona e più europea, di Piccole donne di Greta Gerwing. Invece sembra tentare un approccio alla Malick, quando c’è solo una persona che può farlo senza risultare ridicolo, Malick stesso. Vermiglio è un ottimo film, ma poteva essere un grande film, portabandiera del nostro paese all’estero invece si è perso nella necessità cronica italiana di dimostrare di essere sempre i più colti, i più profondi, i più dotti. Grande prova di infantilismo, non tanto da parte della regista, che ha tutto il diritto di girare il suo progetto nel modo in cui più le aggrada, ma tanto dell’industria. Possibile che nessuno le abbia proposto o fatto notare la grande occasione che stava buttando via? Nulla da dire su Tommaso Ragno, l’attore più sottovalutato del paese, il camaleonte del cinema (e del teatro) italiano, che finalmente sta ricevendo il riconoscimento che gli spetta.
Tommaso Ragno sul tappeto rosso di Vermiglio
Proseguiamo con Diva futura di Giulia Steigerwalt. La prospettiva di vedere un film sul più grande produttore di cinema per adulti italiano, aveva preoccupato molti. Non tanto per il rischio che potesse essere troppo esplicito, ma per come le dive sarebbero state rappresentate. Delle sciacquette senza cervello, manipolate dal regista autoritario, dalla vita misera e vergognosa. Peccato che alla regia ci sia una regista, una grande regista che il problema non se l’è neanche posto. Attrice di fiction o attrice di porno non fa differenza sempre un attrice sei, e in quanto tale una persona la cui vita professionale e la vita privata sono due mondi separati. Nessuno dei personaggi è raccontato in modo superficiale, persino Cicciolina, che rispetto alle altre ha un ruolo più piccolo, è una madre che lotta contro l’ex marito, che fa leva sulla professione di lei per levarle l’affidamento del figlio. Struggente è il ritratto di Moana Pozzi. Una donna che ha vissuto una vita fatta di successo ma anche di tanta sofferenza, dovuta alla malattia ma anche al pregiudizio. Per ultima Eva Henger, che qui è la moglie di Schicchi, altra donna forte che fa i conti con l’industria ma anche con la famiglia e la vita personale. In realtà il film introduce un’altra donna, la meno conosciuta, quella che però ha reso possibile Diva futura (questo era il nome della casa di produzione), l’assistente di Schicchi, Debora Attanasio. Arrivata negli studi perché alla disperata ricerca di lavoro, finisce per esserne un pilastro, capace di controllare l’eccentricità del regista. Poi c’è lui Riccardo Schicchi, interpretato al meglio da Pietro Castellitto. Un uomo di grande ironia ma anche di grandi principi figli degli anni sessanta e settanta, di amore libero, senza pregiudizio. Diva futura è per questi ritratti un film riuscito, ma anche per la capacità di coniugare commedia a dramma.
Altro film non che non ha convinto appieno è Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Storia inventata ma con protagonista il latitante Matteo Messina Denaro, interpretato da Elio Germano. Nonostante il film tenti di raccontare la mafia in una maniera nuova, non con il solito dramma politico, il risultato è un po’ indeciso. Funziona ma non è abbastanza commedia da far ridere e neanche abbastanza spinoso da muovere una vera critica al sistema stato-mafia. Le interpretazioni sembrano, inoltre, più teatrali che cinematografiche. Germano e Servillo sono bravi ma non si può dire lo stesso del resto del cast. Questo ha lasciato l’amaro in bocca a molti, considerando le grandi aspettative.
Chiudiamo con il tasto dolente, o meglio con quello più scomodo. Queer di Luca Guadagnino (che in questi giorni cura anche l’Homo faber), arriva in concorso con uno dei film più attesi dell’edizione. Tratto romanzo di William S. Burroughs, Queer è il lavoro più folle del regista italiano. Divenuto famoso per i suoi drammi sentimentali, Guadagnino ogni tanto ci stupisce con qualcosa di diverso. Era già successo nel 2018 con quel capolavoro che è Suspiria, anche’esso in concorso, e oggi succede di nuovo. Prende uno dei più grandi sex symbol del nuovo millegno, l’ultimo 007 in ordine di tempo, Daniel Craig e gli fa fare una “checca” (quella del titolo) drogata e ossessiva. Il film è diviso in quattro capitoli, i primi due sono tutto sesso, alcol, droghe, alberghi a ore, nuovi amori. I secondi due comincia un viaggio onirico. Struttura ripresa da grandi capolavori del passato come Apocalypse now e 2001: odissea nello spazio, che adatta alla sua storia e al suo protagonista. Aprendo i vari siti di recensioni si può facilmente vedere come la maggior parte dei voti pendono da uno o dall’altro lato della bilancia, e solo pochi stanno nel mezzo. In più, in un opera così nettamente divisa in due, c’è chi preferisce la prima parte e odia la seconda e viceversa. Insomma il film che sta facendo più parlare di se, incapace di mettere d’accordo amici e colleghi. Anche tecnicamente è un’opera assurda, il regista decide di ricostruire tutti i set in studio dando all’ambientazione un look volutamente finto, irrealistico, da telenovela. Craig è completamente credibile e in parte, volando verso la Coppa Volpi maschile.
Progetti molto diversi tra loro, che abbracciano la storia del nostro paese in modo diverso. Ma c’è anche tanta Italia in altri film non di nostra produzione, come in Disclaimer o Maria. Senza dimenticare gli altri film nelle altre sezioni, uno su tutti la serie Sky M – il figlio del secolo, adattamento dell’immenso primo libro di Scurati sui primi anni di carriera del Duce, realizzato dal regista inglese Joe Wright e con protagonista Luca Marinelli. Dalle critiche sembra essere il progetto europeo dell’anno, ma staremo a vedere l’accoglienza, una volta arrivato in TV.
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