Ho mutuato il titolo di questo mio breve scritto da quello della campagna contro i suicidi in carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane.
Tale evento si è concluso il 12 luglio con una grande manifestazione in piazza Santi Apostoli a Roma.
Il giorno precedente, sempre nel quadro di questa iniziativa, la Camera Penale Veneziana, teneva in Campo Santa Margherita una “maratona oratoria” di oltre quattro ore.
Decine di persone si sono alternate al microfono. Sono intervenuti rappresentanti di grandissimo spessore, appartenenti alla società civile, ma anche avvocati, studenti e gente comune.
Tutti uniti da un comune desiderio: spezzare questa catena di morte.
A oggi, 6 settembre 2024, dall’inizio dell’anno sono settanta le persone che si sono tolte la vita in un carcere italiano, sostanzialmente nove detenuti ogni mese.
A questo numero vanno aggiunti sette agenti della polizia penitenziaria, i “detenenti”, come li chiamava Marco Pannella.
Si aggiungano poi i tentativi di auto soppressione che, per fortuna, non riescono per l’intervento della Polizia penitenziaria da un lato o per i compagni di cella dall’altro, che sono i primi a intervenire, tentativi per i quali, però, non abbiamo dati certi.
Il 2022 fu considerato un “annus horibilis” poiché 85 detenuti si tolsero la vita.
Nel 2023 i suicidi raggiunsero la cifra di settanta.
Quindi il 2024 può considerarsi una sorta di anno dei record: se questo trend continua, conteremo, con la fine del 2024, oltre cento eventi suicidiari in carcere.
Questi numeri, che fanno rabbrividire, hanno molte cause.
A partire dal sovraffollamento dei nostri istituti di pena: si pensi che nella Casa circondariale di Venezia, meglio nota come il “Carcere di Santa Maria Maggiore”, costruito e inaugurato nel 1926 dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco, alla fine del mese di maggio, il tasso di sovraffollamento era del 160 per cento.
Ovviamente la discrepanza tra i posti teoricamente disponibili, 159 e quelli reali 260, coinvolge anche gli organici degli agenti di Polizia penitenziaria, che sono commisurati ai posti astrattamente previsti per i detenuti e non sui numeri effettivi della popolazione carceraria presente in un istituto di pena.
Durante la visita in carcere abbiamo notato come le celle che potrebbero contenere al massimo quattro persone ne ospitino almeno sei.
Nel frattempo, disattendendo le promesse di ridurre il numero dei reati, il ministro Nordio ha introdotto nel sistema penale quindici nuove figure di reato: si pensi ai rave party, al decreto “Caivano” che ripristina l’arresto obbligatorio per episodi di piccolo spaccio di sostanze psicotrope quali hashish e marijuana, per finire agli scafisti e alla maternità surrogata.
Ma su questo torneremo più avanti.
Va segnalato poi che al primo ingresso, pur essendo previsto l’intervento d’uno psicologo, il nuovo entrato attende anche settimane prima di poter ricevere l’assistenza che sarebbe prevista nei suoi confronti.
Ma la maggioranza di governo, non paga da un lato del panpenalismo (a ogni possibile comportamento si associa una sanzione penale), né della propria inattività nei termini abbiamo visto sopra, ne ha pensata un’altra, nel solco del più becero giustizialismo.
E l’ultima trovata, porta la firma del sottosegretario Andrea Dalmastro Delle Vedove, quello, per intendersi, indagato per aver rivelato cose coperte da segreto dopo la visita dell’onorevole Serracchiani, responsabile delle giustizia per il Partito democratico, in un reparto di detenuti al 41bis (ergastolo ostativo).
Il sottosegretario, quello che si fa accompagnare alle festine di capodanno dalla scorta di polizia penitenziaria armata, dispone per la creazione del G.I.O., Gruppo di Intervento Operativo.
In sostanza si sottrae personale di Polizia penitenziaria all’ordinario, per creare una sorta di reparto operativo destinato a sedare le rivolte nelle carceri, senza peraltro definire cosa si intenda per “rivolta”, mentre l’attuale governo ha revocato la sospensione dal servizio di molti agenti protagonisti di sevizie nei confronti dei detenuti in alcune carceri italiane, quali Santa Maria Capua a Vetere e il carcere minorile Beccaria di Milano.
Venendo a lumeggiare altre cause dei suicidi in carcere, è necessario, riallacciandomi per un momento alla carenza di assistenza psicologica, dire questo: i cosiddetti manicomi giudiziari sono stati soppressi e questo è bene, ancorché sembrerebbe che il Presidente del Consiglio abbia in animo di riaprire gli ospedali psichiatrici chiusi con la c.d. Legge Basaglia (L. 180/78).
Per coloro che soffrono di disagi psichici, ove siano in attesa di giudizio, è previsto l’ingresso in Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che sono poche e con tempi di attesa lunghissimi.
Si veda a questo proposito il DL 31/3/2014 n. 52 con il quale si prevede che
Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale. Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai sensi dell’articolo 679 del codice di procedura penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali.
Solo nel carcere di Venezia, erano cinque, a fine agosto 2024, i detenuti afflitti da patologie psichiatriche, mescolati agli altri detenuti.
Che in linea di massima sono tranquilli ma talvolta accade che gli psicofarmaci, largamente usati nelle nostre carceri, a Santa Maria Maggiore il 99 per cento dei detenuti ne fa largo uso, suscitino aggressività e scoppino le rivolte o che avvengano eventi suicidari.
E ancora.
Sebbene ai più possa sembrare incredibile, molti eventi autosoppressivi avvengono vicino al fine pena.
E il motivo è semplice: dopo qualche anno di detenzione, molto spesso il detenuto perde ogni contatto con la vita prima del carcere; la moglie o la compagna si sono rifatte una vita, ha perso il lavoro, ha perso la casa, le visite dei parenti e, tra loro, dei figli, si sono dapprima diradate per poi cessare del tutto.
Quali prospettive ha un uomo, ma questo vale anche per le donne, all’uscita?
Nessuna, poiché all’uscita non troverà nessuno che lo aspetta.
Ma non troverà nemmeno uno Stato che dopo averlo incarcerato, gli fornisca un supporto concreto per il futuro, come un tetto sotto il quale dormire o un lavoro con il quale sostenersi ed evitare la recidivanza.
E allora il nostro detenuto che deve uscire può trovarsi di fronte a due scelte: tornare a delinquere o togliersi la vita.
Negli anni, oltre alla politica più illuminata, si è levata una voce, quella di Rita Bernardini che, a costo di mettere a rischio la propria salute, ha fatto disobbedienza civile non violenta tramite lo sciopero della fame e della sete.
Va detto che, insieme a lei, un’altra voce si è levata: quella dell’onorevole Giachetti di Italia Viva: la proposta di legge Giachetti-Bernardini aumenta da 45 a 60 giorni a semestre la liberazione anticipata.
Quale il senso di questa proposta?
Ovviamente quello di ridurre il sovraffollamento carcerario e favorire un più veloce reinserimento del detenuto nella società civile.
Ma anche in questo caso, il governo, dopo roboanti annunci in materia carceraria (il nulla) rinvia la discussione di questa proposta.
Che, si badi bene, non è un indulto mascherato sotto un diverso nome.
Ma è ora di concludere questo breve scritto sui suicidi in carcere.
E lo vorrei fare citando un passo di un libro Fine pena ora scritto dall’allora presidente della Corte d’Assise di Torino, il Dott. Elvio Fassone, dopo aver condannato un giovane ragazzo all’ergastolo ostativo.
Tra i due, negli anni, nasce un rapporto epistolare che purtroppo, si conclude bruscamente e drammaticamente.
Perché il ragazzo, ormai uomo, si toglie la vita.
Caro presidente – ha “scritto” mentalmente – mentre guardava in alto se c’era un qualche gancio – scusa se questa volta ti do il tu, ci conosciamo e ci scriviamo da tanti anni che posso permettermi questa confidenza. E poi è l’ultima lettera, e posso prendermi questa libertà. È una fatica vivere qui, Presidente, è una fatica anche a tirare fuori la cinghia che ho preparato, e lo sgabello. Sai, se salgo sullo sgabello vedo meglio la strada in basso, la gente, le macchine. Per quelli che passano là io avrò vissuto come una pianta e sarò morto come un insetto.
Per questo me ne vado. Sono stanco. Ho provato tutti i dolori della vita, non c’è nessuno che non ho conosciuto. Cosa posso ancora aspettare dalla vita? Mia madre è morta, mio padre è vecchio e malato, Rosi non c’è più, si è messa con un altro. E tu non puoi fare niente per me. Allora me ne vado. Dove, dici tu. Fuori, dico io. Libero. Come quando correvo sulla moto, che nessuno mi prendeva, neanche la polizia. Ho cavalcato i miei cavalli, tutti si mettevano le mani nei capelli, quel matto dicevano, adesso cade, ma io non cadevo.
E ancora:
Caro presidente, tanto tempo fa mi hai mandato una poesia di quel detenuto turco che diceva:” vivi come se tu non dovessi morire mai”. Ci ho provato, ma oggi la leggo diversa, muori se vuoi vivere davvero libero.
Buona notte presidente.
Buona notte Salvatore.
“Ogni sangue giunge al luogo della sua quiete”.
L’articolo Non c‘è più tempo proviene da ytali..