Ѐ come se il venditore e il passeggere, animatori del famoso dialogo leopardiano, si fossero fusi in una sola persona che proponesse al lettore dell’almanacco nuovo una meditazione, insieme augurale e disincantata, su cosa può aspettarsi dal futuro se, tale lettore, fosse abbastanza attento a ricavarne la profezia da un’adesione a una scansione temporale della vita e della mente altra, rispetto a quella trafelata e acefala che scorre rapidissima, come in gara sciocca con la morte, sulle superfici delle nostre quotidianità fatte di profitto onnivoro, di consumo seriale e di sentimento-pensiero prêt-à-porter acquistato nei supermercati mediatici.
Così, in forma di almanacco, Lino Angiuli (nativo di Valenzano e residente a Monopoli, in terra di Bari) ci offre la sua poesia per il duemilaventiquattro nel quarto volumetto della serie un altro anno, che – non per caso – aveva inaugurato presso la Quorum edizioni l’anno primo dell’era post-Covid: quasi a ristabilire, dopo i disorientamenti, le stasi e le perniciose involuzioni culturali e morali, indotti dalla pandemia, un’organizzazione più naturale e umana, e perciò più consapevole, del passaggio del tempo e della riflessione su di esso.
Si tratta di piccole e deliziose raccolte di dodici poesie, una per mese e tutte in dodecasillabi (doppi senari) con chiusa in rima baciata, presentate in contrappunto con altrettante preziose figurazioni di artisti visivi, coautori in ognuno dei libretti (Vito Matera nel ’21 e nel ’23, Teo De Palma nel ’22 e Silvia Venuti in questo ’24), e introdotte ciascuna da brevi citazioni sapienziali ‘a tema’, tratte da uno smisurato e raffinatissimo catalogo di narratori, filosofi, religiosi (fra cui scrittori vetero e neo-testamentari), antropologi e poeti… scelti nell’ambito di un patrimonio culturale pressoché planetario. I temi ai quali sono dedicate le citazioni in esergo ai testi di ciascun volume sono stati la sapienza contadina e popolare, nel primo, il tempo, nel secondo e la luce, nel terzo fra quelli pubblicati; mentre saranno l’amore, la natura e la gioia in quelli preparati per gli anni a venire, ma che saranno anticipati, insieme a quelli già apparsi finora, nella sezione principe della prossima raccolta di Angiuli, intitolata – guarda caso – Un altro tempo, la cui pubblicazione è prevista per la primavera ventura, presso la Nino Aragno Editore. L’annuario quest’anno in libreria, l’unico dei sette dedicato ad un anno bisestile, porta a tema di epigrafi, immagini e poesie lo spirito, collocandosi perciò non solo numericamente al centro della serie e degli anni che essa copre, ma divenendo soprattutto vero cardine tematico della ricerca valoriale che i testi di Lino perseguono in tutte queste composizioni.
di Lino Angiuli
quorumedizioni, 2023
In apertura del volumetto si legge la citazione di Giovanni, in 3,8: «Lo Spirito, come il vento, soffia dove vuole», che indica, con il riferimento alla figura del Paraclito giovanneo, la direzione spirituale verso cui è volta la disciplina esistenziale assunta e proposta, di mese in mese, da Angiuli nei suoi versi. I quali, al solito, la lingua del poeta, miscidata e tatuata dai sottostanti registri familiare e dialettale, riveste di polifonica sonorità e di ritmo armoniosamente sussurrato, come si può constatare attivando i QRcode, con la poesia in voce dell’autore, posti in calce ad ogni testo della raccolta. Stupenda, e basti per ora come esempio, è la poesia di apertura dedicata a Gennaio:
Il giusto ritorno s’incarna in gennaio
le soglie del tempo alle porte del tempio
scarrassano tutte le nostre frattaglie
avvolte ad un ferro filato ch’è in grado
di entrare ed uscire da un mondo passato
che non passerà se poi non si rivive
il giorno figliato da un sole diverso
pertanto il ritorno se mai vuole dire
che ci si può avvolgere a un dito la vita
portata sulle ali di un soffio potente
in grado di fare suggiù per le scale
che vanno al di sopra del bene e del male.
Ancora una volta, siamo di fronte alla poesia di vocazione dantesca e di impianto progettuale alla quale Angiuli ci ha più volte abituati nel corso della sua lunga e fruttuosa carriera, e che oggi si propone come percorso di ricostruzione valoriale e spirituale della condizione umana, in una civiltà nella quale avanza, verso derive esiziali, una multi-crisi evolutiva che le logiche politico-culturali del mondo globale, in violenta espansione e insieme in continuo disfacimento provocano, alimentano o non sanno controllare e che coinvolge oggi l’intero ecosistema planetario e la specie umana tutta.
La rivendicazione di un nuovo umanesimo, animato da una più profonda spiritualità e da una ritrovata sintonia con la natura, sembra alimentare dunque il progetto poetico che Lino ha pensato di rimodulare nella propria poesia, in questi anni succeduti alla grande pandemia che, come vera apocalisse, ha portato all’evidenza di tutti ciò che prima a molti, a troppi, restava nascosto.
Un progetto che maturava da tempo, quasi da sempre, nella chiaroveggenza insita nel modo particolare di far versi, tipico di questo saggio e sperimentato poeta di Puglia. Persino la scelta compositiva dell’annuario, come forma di narrazione poetica, altra e più umana, del passaggio del tempo, ha visto la sua prima luce – di nuovo: non per caso – all’indomani di un’altra crisi rivelatrice che abbiamo attraversato in questo primo lembo di Antropocene.
A due anni dall’Ottantanove famoso del secolo scorso, infatti, Lino Angiuli pubblicava la raccolta Di ventotto ce n’è uno (Schena editore, 1991) che si apriva, con titolo omonimo, in una sezione di poesie dedicate ai dodici mesi dell’anno, rinnovando quella nobile tradizione di composizione poetico-musicale, che dai primi anni del Trecento, coi Sonetti de’ mesi di Folgóre da San Gimignano, era arrivata alla Canzone dei dodici mesi di Francesco Guccini in un album del ‘73; nonché rifacendosi alla consuetudine antica, polindroma e grafico-pittorica, degli almanacchi di sapienza agricola e popolare, quali quelli arcinoti di Frate Indovino.
Gli sconvolgimenti geopolitici e culturali di quegli anni in cui la raccolta comparve, avevano già spinto Angiuli a riproporre nei suoi versi una scansione, meglio radicata nei ritmi umani e naturali, dei tempi della vita e della riflessione sui suoi valori, entrambi disgregati e svuotati dall’avanzare di una crisi di civiltà, che già stava entrando nel vortice sempre più devastante dei suoi equilibri e che i decenni successivi avrebbero portato verso le derive esiziali che oggi constatiamo. In una lingua italiana quotidiana e colloquiale, decorata però dagli apporti lessicali di una cultura raffinata e, insieme, innervata dal sostrato matriciale del suo dialetto, la poesia di Lino Angiuli dava così forma all’annuario di un tempo altro della condizione umana, ritrovato nella tradizione e nei riti antichi della campagna (richiamati esplicitamente nei distici proverbiali che titolavano ogni poesia) assunti come specula straniante da cui provare a comprendere e valutare la realtà umana devastata nei fasti e nei lutti della società consumistica ed egoistica sempre imperversante. Bastino, ad esempio, un paio di strofe di quel libro, dedicate a Dicembre:
Se dicembre non è bello
lo sarà l’anno novello
Com’è muto specialmente a dicembre
questo chiasso di blugins saponi
e sottilette tuttofare
non vale una parola credimi Giuseppe
ma la voce gliela toglie anche ai fringuelli
per poi dargliela tutta magari
alle clientele del supersottozero
capaci di mettere in scatola persino
la madonna persino
Lo so fa piú chiasso lo strano silenzio che s’apre
durante lo spreco del regno animale
che bazzicando come un gesucristo di nascosto
dai portieri ufficiali del pensiero
ci conduce a volte per narice
se solo lo vogliamo
ad arricchirci di povertà
ai piedi di una futuribile ginestra
La scelta di una sezione ad annuario, in apertura alla raccolta del ’91, non era accidentale nella storia poetica di Angiuli in quel momento, ma anzi era significativa di un passaggio importante che veniva a maturazione nella sua visione antropologica della poesia e nel suo modo di farla. Il passaggio dall’io lirico al noi della coralità, in un verso a vocazione epica, avveniva grazie all’immersione del poeta nel mondo linguistico e concettuale della propria appartenenza esistenziale e culturale, non solo e non tanto per recuperarne la lezione antropologica, le modalità e i ritmi espressivi, ma soprattutto per farne l’angolazione, ironica e meditativa, dalla quale ricomprendere e contrastare l’orizzonte più vasto di una realtà globale in rapida trasformazione e attraversata dalla crisi inquietante del proprio futuro. Abbarbicandosi alle proprie radici persino ancestrali e biologiche, Lino recuperava dalla storia e dal quotidiano della propria terra forme di parola e stili di pensiero, che, come ali, aprivano a una visione comunitaria e sobria della civiltà e della vita, da un lato, e che consentivano, dall’altro, compenetrazione e affratellamento spirituali con la natura di piante e animali:
Ma il levante eterno adolescente
lui rimane dalla parte del sangue
spingendo il cappero alla conquista dei castelli
di origano c’inonda di pasque di limoni
convince il fico a riaprire il dolce sesso
l’aglio ad essere soprattutto sé stesso
È cosí
è cosí che da un qualunque venerdì
spunta la festa grande del dolore
le litanie diventano linguine
e fiumi scorrono di cere e di rosolii
in memoria di quando si sognava a due colori
che bastava un fischietto a battezzarci uomini
dentro un giordano di calde terrecotte
A partire dal ’91 di Di ventotto ce n’è uno,almeno in altre tre opere miliari, pubblicate nel quindicennio successivo, Catechismo (Manni, 1998), Daddò daddà, in dialetto (Marsilio, 2000) e cartoline dall’aldiqua (quorum italia, 2004), la poesia di Angiuli esplorava, così, i crinali ed attraversava le soglie fra il radicamento in una lingua dalle matrici dialettali e in una postura intellettuale segnata dall’origine contadina, da un lato, e il continuo sconfinamento negli altrove dell’alterità culturale e sociale, dall’altro lato, approdando ogni volta a una dimensione espressiva in cui l’io lirico si dilatava e si metamorfizzava per farsi invadere dall’epos plurale di una coralità solidale sia dell’umano che del naturale («dall’ego all’ego grazie a una sola consonante», avrebbe poi detto il poeta), dalla quale misurare incrinature e poi frane sempre più vaste del sistema di vita individualistico e alienante, in espansione globale e in altrettanto globale crisi.
Questo periodo di lavoro poetico, pur nella pienezza del valore dei singoli risultati ottenuti, fu anche il lungo allestimento di un grande laboratorio di scrittura, i cui materiali linguistici e i cui repertori tematici venivano continuamente reimpiegati e riplasmati nella ricerca di una poesia che fosse portatrice e strumento di un «progetto umano» – come lo definiva l’autore – che, dalla dimensione antropologica da cui muoveva, attingesse più in là, fino a una più complessa e ricca visione ecologica; di fatto, si tratta, insomma, dell’elaborazione in versi di una vera e propria eco-sofia. E tale progetto, poi, si sarebbe dipanato nei termini di quella particolare cosmologia, cioè di quella fondazione e promessa di civiltà, che la poesia di Angiuli ha poi attestato e proposto nelle quattro sillogi del successivo suo periodo creativo (ancora un quindicennio), le quali, per continuità prosodica e coerenza tematica, si sono costituite, a posteriori, come una vera e coerente quadrilogia, quella ora chiamata, dal nome dell’editore, “dei libri Aragno”: Un giorno l’altro del 2005, L’appello della mano del 2010, Ovvero del 2015 e Addizioni del 2020, l’anno della pandemia.
Per risemantizzare continuamente il mondo e per sapervi ogni volta ritrovare la bellezza sembra proprio che, per Lino Angiuli, ci si debba educare a un modo nuovo (e insieme antico) di guardare e dirci le cose della vita; che si debbano ascoltare e imparare a costruire linguaggi nuovi (e insieme antichi), non più seriali, né ripetitivi, né vuoti, per raccontarci le storie del mondo; che si debba, insomma, perseguire una nuova civiltà della parola per una nuova antropologia dell’umano: a questo compito era ed è per lui demandata, per sua originaria e più antica funzione, la poesia. A cominciare dalla sua:
Mi faccio un silenzio come dico io
non sai? quei silenzi numero uno che
mantengono in petto il coraggio di tacere
né a né ba dinanzi alla reincarnazione di una
rucola bambina sull’orlo della strada secondaria
o di fronte alla sfacciata innocenza dei morti
passo dopo passo mi siedo sul bordo del giorno
dinanzi agli occhi chiusi riappare l’odore
di un nume senza nome senza numero di casa
un nume che non fa rumore e che se voglio
mi conduce dentro il borgo delle sue braccia
dove si parlano tutte le lingue che non parlai
dove si sognano tutti i sogni che non feci mai.
E così, anche dopo la prima grande crisi globale che fosse stata avvertita davvero da tutti, quella del Covid-19, era ancora la poesia a costituire, per Lino, la risorsa principale per la resistenza e la riprogettazione dell’umano; come del resto è sempre avvenuto alla poesia nella storia, all’indomani di tutte le grandi crisi di trasformazione epocale della civiltà. La poesia, infatti, sa sempre restituirci a noi stessi, sa riportarci all’essenziale e al vero della nostra esperienza di uomini, ma come potenziati da nuova ricchezza, come accreditati da una nuova condivisione, come fortificati da una nuova sintonia con l’umanità e con le cose che davvero valgono al mondo. Essa ogni volta ci indica una rifondata appartenenza a una coralità, un senso rinnovato della nostra storia fusa alla storia di altri (di tutti), una vocazione civile ad assumerci le nostre responsabilità in quella che di nuovo, grazie alla poesia, possiamo avvertire come una comunità di destino. Da qui, da queste consapevolezze, sono allora arrivati quegli almanacchi (e in primis questo Duemilaventiquattro) che, con la forza umile e discreta, ma formidabile e tenace del suo verso Lino Angiuli ha costruito per noi: con una piega della mente pietosa e conciliante nell’interrogare i segni dei tempi; con la costruzione di una prosodia di andamento narrativo fluente e meditativo, che stemperi sarcasmi, ansie e risentimenti possibili; con l’adozione di un ritmo, di un tono e di una misura metrica del verso che rifletta la possibilità un’interlocuzione più addolcita con se stessi, con l’altro e con le cose vere della vita. E, forse, con Dio.
Una poesia che dice gli slanci vitali di Maggio:
Il nido di maggio sta in mezzo all’addome
ripieno di oceani montagne e altri luoghi
capati tra belle famiglie di rose
pittate con una trentina di tinte
così che finanche le umane emozioni
colorino il mondo con lingue diverse
e ai verbi gli pigli la voglia di uscire
a fare due passi tra bocca e budella
un transito senza catene né nodi
più o meno alla stregua di rondini a spasso
amiche dell’aria e capaci di un volo
che ne spinge le ali ad andare oltre il molo.
E che culla con le dolci speranze di Dicembre:
Dicembre si dice per dire la festa
del sole morente nel mentre è nascente
per rimescolare la terra coi semi
rimasti nel sonno aspettando che suoni
la sveglia attaccata alle bacche di rovo
dipinte di rosso come il primitivo
disceso dai colli a riempire i bicchieri
allòrquando i cuori dei bimbi nostrani
si mettono in coro a cantare alleluia
intorno a una culla strapiena di luce
ogni anno così senza mali pensieri
domani sarà come e meglio di ieri.
L’articolo “Almanacchi, almanacchi nuovi…” proviene da ytali..