Mário Jorge Lobo Zagallo ha avuto in sorte una vita intensa e leggendaria. Anzitutto per la durata: novantadue anni. Poi per i trionfi: è stato l’unico a sollevare quattro volte la Coppa del Mondo, due volte da giocatore (1958 e 1962) e due volte da allenatore, anche se la seconda da assistente di Carlos Alberto Parreira (1970 e 1994), entrambe contro l’Italia. Infine, per l’aura di leggenda che lo caratterizzava: nessuno, forse neanche Pelé, che per molti rappresentava la perfezione, ha saputo incarnare l’anima del Brasile come lui.
Di origine libanese (il vero cognome era Zakour), era nato a Maceió, nel Nord-Est del Paese, il 9 agosto 1931. Soprannominato “formiguinha” (formichina) per via del fisico esile, iniziò la sua carriera come mezzala sinistra, salvo poi trasformarsi in ala pura e contribuire ai successi di Botafogo e Flamengo ma, soprattutto, alle vittorie dei “carioca” contro Svezia e Cecoslovacchia, dopo l’atroce beffa patita nel ’50 dalla Nazionale ad opera dell’Uruguay. Come tutta la sua generazione, Zagallo beneficiò della simpatia popolare e della voglia di cambiamento di una Nazione che non aveva perdonato, e mai lo avrebbe fatto, i responsabili del “Maracanazo”, marchiati a fuoco da una sconfitta che, a dire il vero, era stata più figlia del caso e della sfortuna che di colpe effettive della squadra e dei singoli giocatori.
Bastarono i “tre giocolier di cioccolata”, come li definì il Quartetto Cetra in una memorabile canzone, per riscattare l’onta della disfatta e lanciare il Brasile verso la gloria. Didi, Vavá e, soprattutto, Pelé: tre miti senza tempo, tre fenomeni destinati all’eternità. E poi c’era lui, la formichina che faceva il lavoro sporco, che si batteva su ogni pallone, che non dava respiro agli avversari e costituiva il fulcro del gioco di una Nazionale pressoché perfetta, capace di riscrivere la storia del calcio, sottraendo ai presuntuosi inglesi lo scettro di patria del football e riempiendo i nostri occhi di meraviglia, grazie alla Ginga e ad acrobazie che mescolavano danza e forza fisica, talento e disperazione, voglia di riscatto e passione smodata per uno sport che, a quelle latitudini, costituiva per molti una ragione di vita.
Zagallo era il “professore”, il costruttore di orizzonti, il demiurgo, un allenatore già in campo, il fautore del magno Brasile che nel ’70 diede spettacolo in finale contro gli Azzurri di Valcareggi, con buona pace di chi ancora si illude che, se avessimo schierato insieme Mazzola e Rivera, chissà come sarebbe andata a finire.
Nel ’94 era cambiato tutto. Il calcio era diventato ormai globale, l’atto conclusivo si disputava nel catino infuocato di Pasadena, in un orario assurdo e con condizioni climatiche disumane, e andava in scena un Brasile che aveva smarrito l’anima e l’identità di un tempo, i cui protagonisti giocavano per lo più nel Vecchio Continente, allettati dai ricchi contratti e dalle possibilità di carriera che venivano offerte loro dagli opulenti club europei. Eppure, bastava la presenza del professor Zagallo per rievocare giorni lontani, per restituire ai verdeoro una dimensione quasi mistica, per ricordarci che la sfera che rotola è innanzitutto poesia, dedizione, canto popolare. Quattro anni dopo, con Ronaldo in condizioni pietose a causa di un malore accusato poco prima dell’incontro e mai del tutto chiarito, l’ultima recita di Zagallo fu la più amara. A Saint-Denis, infatti, contro la Francia padrona di casa e imbottita di fuoriclasse, simbolo della società multietnica e dell’incontro fra culture diverse, il Brasile perse male. Un 3 a 0 netto, senza possibilità d’appello. Due volte Zizou e Petit resero triste il finale di un’avventura indimenticabile, senza tuttavia scalfirne la grandezza. Zagallo, in Brasile, è rimasto difatti “Mister Futebol”, osannato da chiunque, tanto che la Federcalcio brasiliana ha proclamato sette giorni di lutto in suo onore e ovunque lo si ricorda con affetto. Non basta un insuccesso per cancellare un’epopea, per quanto in quella terra ogni disfatta equivalga a un dolore immenso e profondissimo.
In Brasile, del resto, c’è stato un prima e un dopo. Prima di Zagallo, il calcio era un’invenzione inglese; dopo, anche per merito della sua felice commistione fra il ballo tipico del Paese e il pragmatismo europeo, abbiamo sognato in compagnia dei funamboli provenienti dal nuovo mondo, come se quest’uomo mite e gentile avesse costruito un ponte fra i due emisferi, permettendoci di attraversarlo. Zagallo, d’altronde, profumava di magia. L’anno scorso il Cielo ha ritrovato il suo numero 10, adesso la Nazionale del Paradiso ha anche l’allenatore per eccellenza.
Immagine di copertina: (da X Futebol Nostálgico! @futnostalgico) Zagallo era l’ultimo tititolare ancora in vita della nazionale brasiliana vincitrice della finale del campionato mondiale di calcio 1958, la partita decisiva per l’assegnazione del campionato del mondo 1958.
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