Quello che segue è il terzo di una serie di articoli sulla guerra e, più in particolare, sulla carneficina in atto in Medio Oriente, scatenata dall’aggressione di Hamas il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, a cui sono seguite la distruzione di Gaza e l’allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale. Gli articoli sono:
1 – Why War? Le premesse – È la descrizione del contesto storico tra le due guerre mondiali, quando la Società delle Nazioni invita gli intellettuali a corrispondere e confrontarsi sulla guerra.
2 – Why War? Il carteggio – Riprende ampi stralci del carteggio tra Einstein e Freud.
3 – Why War. Amos Gitai – È una recensione del recente film del maestro israeliano.
4 – How War. Diritto e diritti – Ragioniamo di istituzioni internazionali, dei diritti di Stati e popolazioni e del dovere di rispettare il Diritto (Internazionale).
Why war? è il titolo di uno scambio epistolare tra Einstein e Freud del 1932, tra le due guerre mondiali. Colpisce l’attualità delle argomentazioni e dei contenuti. Sempre valide sono naturalmente le considerazioni di carattere generale sull’uomo, la sua psicologia, i suoi istinti, ma di grande contemporaneità è specialmente l’indicazione dell’unica possibile via per la risoluzione delle controversie internazionali con un’istituzione di ordine superiore rispetto agli stati, quella Società della Nazioni che diventa poi ONU ma che allora come oggi non ha potere esecutivo. Il carteggio Why War? è il pre-testo da cui deriva il testo cinematografico di Amos Gitai Why War (senza punto interrogativo) presentato in settembre alla mostra cinematografica della Biennale di Venezia.
3 – Why War. Amos Gitai
Ho visto alla mostra del Cinema di Venezia Why War di Amos Gitai, intellettuale israeliano non allineato e indipendente che nutre la coscienza collettiva con una produzione artistica innervata di spirito critico- analitico. Avvincente la scrittura cinematografica di un’opera difficilmente inquadrabile in una categoria. Non è un prodotto convenzionale, nonostante resti un’opera intimamente cinematografica nel senso etimologico di cinema (dal greco kinemata, movimento) e grafico (da graphein, segnare, tracciare). Why War è opera plurale dove si controllano con maestria media diversi. Ci sono scene e dialoghi decisamente teatrali (come quello del trucco davanti allo specchio, dove il soldato marito chiede alla moglie se non fosse in casa perché era a letto con il suo migliore amico), inquadrature fotografiche (le tracce dei cingolati in una terra verdeggiante che viene calpestata alla nascita), sequenze eloquenti (come i binari, rette parallele che non dovrebbero incontrarsi e invece convergono e s’incrociano negli scambi). Mi ha colpito la scena con un grande e lungo tavolo, con lei seduta all’estremità in assenza di commensali e alle spalle una folla di persone, sembra un’ultima (s)cena, quella folla dietro siamo noi e loro, osservatori, un pubblico al rovescio, spettatori involontari della messa in scena della distanza tra governi e politica con la popolazione civile.
È documentario (con i familiari degli ostaggi), è teatro, è fotografia (con inquadramento alla Toscani, che sosteneva come la testa debba stare davanti e non dietro alla macchina fotografica), è film (montaggio, sequenze, sceneggiatura e copione magistrali), è incursione nella storia (della civiltà, delle città, dell’essere umano), è musica e architettura, ritmo e melodia.
Il dilemma è quello consueto davanti a un’opera d’arte: si può raccontarla? si può dipanare ciò che sta all’interno del maestro e intorno all’opera? o spiegandola la si svilisce, si annulla il mistero e con esso lo stupore dell’osservatore? Non sono tra quanti sostengono che l’opera d’arte non può essere spiegata perché perde la sua aura, le espressioni alte della cultura umana vanno condivise e possono essere meglio rese comprensibili senza banalizzarle, parlandone e consegnando il testimone del loro senso nelle mani dell’osservatore/ascoltatore, pur consapevoli che lo si farà sempre e comunque… solo in parte, perché è (per fortuna) impossibile s-piegare di un’opera ogni sfaccettatura.
Tutto è in movimento, un turbinio di segni, tracce, parole, pensieri, riflessioni, azioni che ci catturano. Innumerevoli i dettagli significativi che impediscono ogni distrazione. Si resta inchiodati alla poltrona per tutti i novanta minuti della sua durata, che sembrano di più, non per l’impazienza di vedere concluso un film che pesa o annoia, ma per la densità delle sollecitazioni ricevute nel dipanarsi di una narrazione multipla, un intreccio di immagini, ragionamenti, pensieri, gesti, segni, riflessioni che s’intersecano e si riverberano in noi, restituendo la complessità di una materia che genera emozioni individuali, traumi collettivi e specialmente naufragi d’umanità.
Bello, denso, non facile, un collage di scene ambientate in città come Vienna, Parigi, Tel Aviv, Berlino, capitali europee e capoluoghi di storia occidentale. È un saggio di maestrìa poetica e tecnica in forma di riflessione multimediale. È documentario nel senso che documenta ed è esso stesso documento. È anche un saggio nel senso che non è come un trafiletto di cronaca, che può essere sfogliato distrattamente, va invece letto e riletto, …studiato nei suoi diversi registri espressivi. Immaginavo che non sarebbe stato un film canonico ed ero curioso di vedere come il regista avrebbe attraversato il campo minato del pensiero in tempo di guerra, dove una parola è poca e due sono troppe, dove si accoglie il consenso e si esilia il dissenso facendo considerare ogni punto di vista altro dal nostro sbagliato e insopportabile. Dietro alla logica della guerra c’è anche la convinzione dell’essere umano di essere suo malgrado espressione della lotta atavica del bene contro il male, dove il male non può che essere l’altro essendo io nel giusto: civiltà dei buoni contro barbarie dei cattivi.
Il film prende le mosse dal dialogo epistolare tra Einstein e Freud sulla guerra, di cui prende il titolo senza il punto interrogativo, che così si trasforma in una interrogativa indiretta (che non è la domanda ma il resoconto di essa). Why War di Gitai è un’apologia della cultura come dialogo e del dialogo come espressione di cultura, sprona a interrogarsi e pensare, azione che può diventare sovversiva e determinante in ambito bellico, come ci insegna Bertolt Brecht nella poesia Generale. Gitai mette in scena osservazione e ascolto, accorpa dialogo ed elaborazione, tutte virtù da reimparare per contrastare la dilagante polarizzazione dominata da opposizioni a prescindere e contrapposizioni pregiudiziali. Il maestro israeliano s’interroga e ci interroga, mentre indaga della guerra complessità e contraddizioni mettendo insieme:
l’astrazione della guerra come istinto primordiale,
la concretezza della guerra tra stati e comunità,
l’empatia per esseri umani a cui la guerra infligge tragedie disumane.
In Why War c’è un approccio architettonico sia sotto il profilo compositivo sia sotto quello progettuale con virtuosismi nel montaggio e nella sceneggiatura, con forte impronta sia umanistico/compositiva (letterario-narrativa ed estetica) sia scientifica/tecnica/progettuale. E poi spazio e tempo, cangianti e variabili, Il tempo si fa spazio nella narrazione, tempo variabile, scandito e ritmato eppure fluido, a tratti dilatato e a tratti contratto, tempo come scorrimento fluido che non è ininterrotto, perché ci sono momenti in cui il tempo stesso entra in apnea. Il tempo è specialmente quello presente, una dimensione senza corpo: non fai a tempo a pensarlo che è già passato. Presente come tempo interstiziale a fare da ponte tra passato in luce e futuro in nuce. Peculiarità singolare del presente è che può dilatarsi fino a fissarsi in Storia o farsi Eterno Presente (come insegna Siegfried Giedion in arte e architettura). In questa dimensione possiamo trovarci contemporanei a personaggi di ogni epoca, e qui il dialogo tra Einstein e Freud è di straordinaria avanguardia e tuttora attuale. Il nostro presente è anche già storia e memoria, forse anche per questo Amos Gitai non cede alle tentazioni di spettacolarizzazione della guerra d’immagini.
A posteriori la memoria è sempre tendenzialmente critica (verso l’altro, carnefice) e non autocritica (verso sé stessi, vittime). Lo dimostrano le numerose giornate della memoria quando si ricordano le colpe degli altri rimuovendo le proprie responsabilità e correità. L’asimmetria è uno dei tratti distintivi delle geometrie della guerra e del film, privi di assi rettilinei quasi che la retta via abbia lasciato il posto a una spezzata, che dà corpo a una narrazione fatta d’immagini, parole, suoni, luci, …silenzi. Tale asimmetria sottolinea che la storia non è una sequenza lineare di eventi ordinati, è piuttosto una rete di nodi in un continuo spazio temporale. Come ci insegna Einstein, il tempo e lo spazio hanno dimensione variabile e relativa in rapporto ai sistemi di riferimento.
Micha Lescot e Mathieu Amalric sono nel film Einstein e Freud. Da un lato c’è la guerra come processo psichico dall’altro il timore per l’uso bellico delle scoperte scientifiche. C’è poi Jérôme Kircher a recitare la parte del soldato (che è al tempo stesso oppresso dalla guerra e oppressore ansioso di combattere, vittima e carnefice). Ma è Irène Jacob, la vera protagonista, donna che vive gli eventi e ci conduce attraverso spazio e tempo, allargando il campo della riflessione con la lettura in scena dei brani di Susan Sontag e Virginia Woolf, ma anche riportandoci a normali fatti della vita quotidiana che possono improvvisamente diventare eventi, come avere salva la vita per essere andata a letto con l’amico del marito, via da casa e per questo i soldati di Hamas trovano vuota nell’assalto. Si sentono suoni di sirene e di aeroplani ed elicotteri in volo che s’intuiscono militari. Si vedono segni dei cingolati che tracciano in terra texture di guerra che si attorcigliano su sé stesse prive di sbocco. Si vedono i parenti degli ostaggi occupare, anzi abitare lo spazio pubblico. L’Odissea oggi non è quella dell’eroe solitario, ma quella di popolazioni vittime e ostaggi dei loro governanti che li deviano dalla rotta per Itaca e dalla lotta per la pace.
Della guerra non si vedono immagini. La scelta è dettata dalla convinzione dell’autore che il diluvio di immagini e notizie a cui siamo sottoposti sia dannoso perché sull’informazione prevale la deformazione, che spinge alla radicalizzazione delle posizioni e alla contrapposizione, dividendo in schieramenti a favore di uno dei belligeranti e contro l’altro perché al giorno d’oggi chi non è con “me” non è un dissenziente, ma un nemico. Ci sono poi quanti guardano con distacco alle narrazioni dei contendenti concludendo che sbagliano tutti, egualmente corresponsabili in quota parte, appianando diversità e peculiarità di contesti, circostanze, eventi. In generale pochi si prendono la briga di sospendere il giudizio e verificare le fonti, si salta subito alle conclusioni che sono generalmente di rabbia, di indignazione e di condanne, senza obiettività.
I sostenitori degli israeliani vedono solo immagini della criminale aggressione del 7 ottobre a cui i sostenitori della causa palestinese non guardano, contrapponendo quelle sempre più insopportabilmente numerose della epocale distruzione di Gaza. La storia della città s’intreccia fin dalle origini con assedi e distruzione delle città, che vengono rase al suolo. Lo abbiamo studiato sui libri di storia, da Uruk a Troia, da Sagunto a Cartagine …fino a Guernica e Dresda in quella Seconda guerra mondiale che ha convinto la comunità internazionale a lavorare per la pace realizzando innovazioni politico-istituzionale sul piano del diritto internazionale e della giurisdizione universale con la Corte Internazionale di Giustizia (per gli Stati) e la Corte Penale Internazionale (per gli individui) che fissano perimetri di legalità all’azione bellica. Il diritto internazionale non ha però ancora raggiunto forma compiuta come dimostrano i numerosi crimini di guerra e contro l’umanità che restano impuniti, ma anche il fatto che quelli perseguiti raramente vedono inquisiti paesi occidentali, creando diffidenza nei confronti delle istituzioni giuridiche internazionali da parte dei Paesi non allineati o del Sud del mondo.
Nonostante sia urgente e improcrastinabile creare le condizioni per fare la pace, i dialoghi istituzionali tra le parti arrancano e neanche fuori dai palazzi del potere si riesce a dialogare, ad ascoltare le ragioni dell’altro convinti che le proprie siano prevalenti, neanche su materie importanti per tutti come quella del diritto internazionale, istituto che dovrebbe essere indipendente dalla polemica politica, ma che ne è condizionato e succube.
Il film cattura l’attenzione di chi non va al cinema solo per distrarsi. Lo spettatore non è un destinatario neutro, contenitore vuoto da riempire con i segnali lanciati dallo schermo, ma è coinvolto, partecipante protagonista, perché la guerra non è altro da noi e nostra la si sente mentre si mette assieme il puzzle delle risposte e delle interrogazioni, celate tra le pieghe del film e offerte senza urli e grida. Per dipanare il groviglio di sensazioni e sentimenti di una materia così importante per gli individui e le comunità, introdotta con discrezione e quasi sussurrata intimamente in un orecchio, sono richieste allo spettatore concentrazione e doti di intelligenza, ossia di inter-ligenza, che è leggere “tra”; quindi, è la capacità d’indugiare sui vuoti che separano le lettere, le parole, le righe, alla ricerca del non detto, componente complementare del detto nel dire.
Quel vuoto è lo spazio della sintonia, esercizio indispensabile nella comunicazione che è emissione di un segnale che da una stazione trasmittente raggiunge attraverso un mezzo di trasmissione (nel nostro caso un film) la stazione ricevente dove ci si deve sintonizzare per ricevere un segnale chiaro e non inquinato.
È all’uscita che ti si toglie il fiato, quando tornano in mente rigurgiti emotivi. Non si sta in poltrona a guardare una storia, non si assiste a un racconto altro perché si è coinvolti in prima persona. La guerra ci riguarda tutti e ciascuno, per questo il diaframma dello schermo cinematografico diventa uno specchio in cui ci riflettiamo con le nostre contraddizioni e soglia da cui escono dinamiche che ci riguardano, ci coinvolgono e si radicano in noi come travaglio interiore. Ci si riconosce del passante o nella sofferta e incerta attesa dei parenti degli ostaggi, nel soldato o in sua moglie, nelle vittime palestinesi e israeliane, e s’imbocca un utile percorso di introspezione in cui ci si guarda dentro sgomenti sentendosi in balia delle periodiche derive d’umanità. La materia è trattata poeticamente, evitando di impantanarsi nelle relazioni tossiche tra israeliani e palestinesi, o di distrarsi con i virtuosi esempi bilaterali di convivenza pacifica, l’uno e l’altro fanno capolino da dietro le quinte senza conquistare la scena. Numeri? Nessuna concessione alla contabilità di vittime e distruzioni: le tragedie contano, ma il loro conto si fa statistica.
Irène Jacob
Irène Jacob
Amos Gitai (© Laura Stevens)
L’articolo Why War. Amos Gitai proviene da ytali..