A cinque anni dalla sua scomparsa, un convegno a Roma ricorda Edoardo Eddy Salzano. Pubblichiamo qui di seguito uno degli interventi, che l’autore, Francesco Erbani, ci ha concesso gentilmente di proporre ai nostri lettori, diversi dei quali ebbero la fortuna di conoscere e frequentare l’illustre napoletano/veneziano.
Sulla parete di un lungo corridoio nella casa veneziana che ha abitato finché è vissuto, in fondo a una piccola calle che parte da Campo Santa Margherita, Eddy Salzano aveva appeso un grande fotopiano di Venezia. Misurava sette metri per dieci. Lo aveva commissionato negli anni in cui è stato assessore all’urbanistica del comune di Venezia, fra il 1975 e il 1985. Non era solo un omaggio alla città che non era la sua e che a un certo punto è diventata la sua: la smisurata cartografia, che coglie Venezia dall’alto, in una foto aerea, sembrava un oggetto da scrutare, da consultare ogni volta che gli si passava di fronte, e anche da tenere inquadrato per un po’, cercando di acquisire la lezione che emanavano quel groviglio di calli e di canali, quelle coperture dalle forme inusuali, quegli inattesi spazi.
A chi gli chiedeva che cosa fosse per lui quell’incombente ma seducente immagine di Venezia, rispondeva che intanto era uno strumento tecnico, in scala 1:500. Gli era servita per la conoscenza esatta delle strutture fisiche della città perché da lì occorreva partire per definire regole di trasformazione e di conservazione. Era il primo passo, insomma, di una procedura urbanistica: dalla conoscenza al governo.
E poi aggiungeva:
Quando vedemmo le tavole montate, Edgarda Feletti e io – Edgarda era l’architetta che dirigeva il settore Centro storico nel suo assessorato, n.d.r. – rimanemmo a bocca aperta.
Agli occhi di Eddy quell’oggetto aveva una sua specifica bellezza.
Mi ha fatto capire – aggiungeva – che Venezia è un’opera d’arte nel suo insieme, al di là della bellezza delle sue parti. Anzi, il tutto è più bello della somma delle sue parti.
Ma non c’era solo la bellezza, c’era qualcosa di più attinente alla disciplina urbanistica.
Non siamo di fronte a un insieme di oggetti unici ma al prodotto di un sistema di regole. Qui si esprime la grande sapienza nel conservare la forma e la sostanza dell’acqua.
Per farsi capire meglio, Eddy si voltava verso il fotopiano, cercava e dopo un po’ trovava Campo san Polo. Lo indicava e con il dito ne tracciava il perimetro.
Mi ha sempre commosso la forma di Campo san Polo – diceva – il fatto che un lato di esso segua esattamente il tracciato dell’antico canale. È il canale che detta la forma del campo. È l’acqua che orienta la forma della città tutta. I veneziani della Serenissima hanno voluto conservare nella forma materiale della città la memoria della sua storia.
Eddy Salzano non è veneziano. È nato a Napoli nel 1930 in una famiglia dell’alta borghesia, suo nonno era il generale Armando Diaz. Laureato in ingegneria, nel 1952 si è trasferito a Roma. Iscritto al PCI è consigliere comunale. Scrive per l’Unità. La sua matrice culturale è quella della Rivista Trimestrale, il periodico di Franco Rodano, Claudio Napoleoni e di altri intellettuali provenienti da esperienze di vita e da un credo cattolico. Li chiamano i cattocomunisti.
A Venezia arriva nel 1974. E da Venezia non è più andato via. Venezia l’ha scelta per viverci e per esercitare la propria natura di intellettuale, di politico e di cittadino resistente. Prima che approdasse nei pressi di Campo santa Margherita, Eddy abitava a due passi dall’Accademia. Segno di riconoscimento della sua casa era la bandiera arcobaleno, simbolo pacifista, che pendeva da una finestra. Invece dal portone che si apriva sul rio di santa Margherita e sulla fondamenta del Malcanton era affisso un vessillo del comitato No Grandi Navi.
Due i motivi che lo hanno portato in Laguna: un incarico universitario propostogli da Giovanni Astengo, maestro per generazioni di urbanisti; e la richiesta di Gianni Pellicani, allora dirigente comunista in città, di aiutare l’amministrazione a dirimere una questione di tecnica urbanistica abbastanza ingarbugliata. Un anno dopo entra come assessore nella giunta di sinistra eletta quell’anno e guidata dal socialista Mario Rigo, vicesindaco Pellicani.
Eddy raccontava che all’inizio del suo mandato si era proposto una serie di iniziative che, con il trascorrere del tempo, si era accorto essere impraticabili. Doveva a due persone, il merito di averlo messo sulla giusta strada: Feletti e Gigi Scano, giurista di formazione, coltissimo studioso di storia veneziana, impareggiabile conoscitore di norme urbanistiche.
Qual era questa giusta strada? La giusta strada era quella di puntare sulla pianificazione del centro storico adottando lo strumento culturale dell’analisi tipologica, di cui Feletti e Scano si erano impadroniti, ma che lui – lo ammetteva lui stesso – con una formazione più accademica, non conosceva a fondo. Venezia e l’esperienza sul campo, detto in altri termini, gli hanno fatto cambiare prospettiva disciplinare – non è frequente imbattersi in una simile consapevolezza intellettuale, così pronta a misurarsi con la realtà. Eddy raccontava quindi di essersi convinto dell’efficacia di quel sistema di interventi messo a punto sulla base dell’insegnamento di Saverio Muratori e dei suoi allievi, Paolo Maretto e Gianfranco Caniggia, e già praticato a Bologna da Pier Luigi Cervellati, che consisteva nell’individuare i tipi edilizi, i modelli adottati nel costruire la città storica.
Quei tipi edilizi, a Venezia come altrove, aggiungeva Eddy
erano in numero limitato. Nel procedere al risanamento della città storica occorreva conservare queste caratteristiche urbanistiche e strutturali originarie, assicurando che le nuove funzioni, pur aggiornate e diverse da quelle di un tempo, fossero comunque in coerenza con esse.
Ma qual era lo specifico che emergeva dall’analisi compiuta a Venezia. Lo specifico, forse l’unico. Non l’anomalia.
Le regole costruttive veneziane restano inalterate e vengono adoperate uguali a sé stesse per secoli.
Sono ancora parole di Eddy.
Sono regole costruttive omogenee all’ambiente e alle condizioni che questo detta: in primo luogo l’acqua e il suo rapporto con la terra.
Di nuovo l’acqua. L’alluvione che aveva colpito Venezia nel 1966 aveva mostrato quanto fosse evidente la precarietà del patrimonio edilizio della città storica. Aveva anche accelerato l’esodo di abitanti verso la terraferma. Nel dopoguerra gli abitanti della città storica sono 174 mila. Dieci anni dopo calano a 167 mila. Poi precipitano: nel 1965 sono 124 mila e nel 1975 arrivano a 104 mila. Era dunque necessario intervenire sulla città storica, sull’urbs. In realtà l’alluvione e il dibattito che ne è seguito hanno rivelato che il problema non era Venezia, ma la Laguna.
Ancora la parola a Eddy:
La distruzione della Laguna è stata l’antefatto e la premessa alla distruzione fisica di Venezia. Pochi lo avevano compreso. Fra questi Lidia Fersuoch, Gigi Scano e Andreina Zitelli, che per strade diverse mi hanno fatto comprendere alcune cose essenziali. Che una laguna è cosa diversissima rispetto a un normale specchio d’acqua. È un ambiente ontologicamente instabile, in equilibrio temporaneo tra due destini: diventare un pezzo di terra ferma, o diventare una baia di mare. La seconda è che la Laguna di Venezia è l’unica al mondo restata tale per centinaia di secoli, grazie alla saggia applicazione di cultura e lavoro al suo governo.
Il cambiamento di statuto della Laguna Eddy lo attribuiva al prevalere di ideologie e pratiche che hanno visto storia e natura come ostacoli allo sviluppo, anziché come opportunità. La distruzione della Laguna è cominciata con la creazione del polo industriale di Porto Marghera, la realizzazione di canali rettilinei come le strade di terraferma, a cominciare dal Vittorio Emanuele fino a quello dei petroli, che ha spaccato irreversibilmente la Laguna in due parti con effetti mortali per la sua sopravvivenza. Ed è proseguita con la realizzazione di pesanti imbonimenti che hanno ridotto l’ampiezza della Laguna e quindi della sua capacità di assorbire le maree.
Fu l’alluvione, appunto, a rendere palese tutto questo.
Rese evidente che Venezia è la sua Laguna. Perciò il Parlamento saggiamente decise di avviare un processo di pianificazione che aveva due capisaldi: un piano urbanistico per il territorio che gravitava sulla Laguna; e un piano per il centro storico. Col senno di poi devo riconoscere che in quegli anni pativamo un forte ritardo culturale. Eravamo prigionieri di una visione pan-urbanistica di come si governa un territorio. Non comprendevamo la differenza che c’è nel considerare la Laguna, dunque una porzione vasta del territorio, qualcosa da governare con le regole della pianificazione urbanistica oppure con regole del tutto diverse. Non avevamo capito che l’obiettivo da porsi era il ripristino dell’equilibrio ecologico del sistema lagunare.
Il piano per il centro storico prevedeva anche misure a sostegno della residenza, per evitare cambi di destinazione d’uso, limitando il proliferare di attività commerciali legate al turismo – erano già evidenti fra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta i segnali di un piegarsi della città alle logiche del turismo di massa. Il piano non si riesce ad approvarlo finché dura il mandato di Eddy. Negli anni successivi lo porta avanti Stefano Boato, recentemente scomparso, assessore all’urbanistica di un’amministrazione a guida repubblicana, che ha come consulenti Eddy, Feletti e Scano. L’adozione avviene nel 1992. E ciò nonostante fossero tempi in cui era già montante la deregulation urbanistica che sottometteva il controllo pubblico delle trasformazioni alle logiche del mercato immobiliare.
Il piano, infatti, adottato ma non ancora approvato dal consiglio comunale, ha avuto in buona parte vita breve. L’amministrazione guidata da Massimo Cacciari ha messo mano al testo introducendo una serie di liberalizzazioni sia per il commercio sia per le destinazioni d’uso e per la possibilità di trasformazione degli edifici. Per Eddy è stato un colpo duro, accentuato dal fatto che consulente dell’assessore Roberto D’Agostino fosse una grande figura dell’urbanistica, maestro di tutta una generazione, compagno in tante battaglie di Antonio Cederna, vale a dire Leonardo Benevolo.
Non si è chiusa qui la stagione veneziana di Eddy. Questa è proseguita con l’insegnamento universitario, allo Iuav di cui è stato anche preside. Ma soprattutto con una presenza costante nella vita della città. Eddy è l’esemplare del veneziano resistente. Interpreta la resistenza della città al suo declino in senso attivo, mai rassegnato, mai espresso in forma di giaculatoria. È un declino che si può contrastare, Venezia non è moribonda per chi, come lui, può rivendicare una pratica dell’impegno politico, sempre culturalmente assistita, avviata nel Pci romano degli anni Cinquanta. Alla quale aggiungerei un’attitudine all’ironia, all’essere presente nelle cose, dentro le cose e al tempo stesso distaccato da esse. Sarà per motivi di campanile, ma a me pare che l’ironia, spesso l’umorismo garbatamente tagliente, Eddy lo abbia trascinato con sé dalla sua Napoli degli anni Trenta e Quaranta.
Venezia è stata il cuore di eddyburg, a Venezia è dedicata la Corte del Fontego, coraggiosa casa editrice animata da Marina Zanazzo e Lidia Fersuoch, di cui Eddy è il padre nobile. E non c’è veneziano o non veneziano dei comitati, delle associazioni, non c’è cittadino resistente che non attinga e non attingerà in futuro al repertorio delle sue conoscenze sulla Laguna, sulle norme da adottare per mantenere in vita il delicatissimo equilibrio che ne regola la morfologia. O sul Mose, sull’immane corruttela che ne ha accompagnato la realizzazione, e sulla pretesa di imporre alla Laguna e ai moti delle maree governati per secoli con magistrale sapienza, una logica ingegneristica, difettata dal punto di vista della funzionalità, incapace di prevedere i cambiamenti climatici.
Chiudo ricordando una citazione da Le città invisibili di Italo Calvino molto amata da Eddy. È Marco Polo che parla al Kublai Kan:
Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.
Così è Venezia anche per Eddy.
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