Quando incontri Mattia Berto emerge sin da subito il suo profondo amore per la città e la comunità. L’orgoglio di essere uno dei pochi veneziani a essere rimasto, a aver sfidato le mille difficoltà che questa gli presentava davanti. Superandole. Dopotutto non ci sarebbe Teatro di Cittadinanza senza Venezia. E, come poco dopo dirà lui stesso, anche il Mattia Berto artista sarebbe una persona diversa.
Com’è stato per lei avvicinarsi al mondo del teatro a Venezia? Com’è scoppiato l’amore, se di amore si può palare, tra lei e quest’arte? E come si traduce nella sua arte il tuo essere veneziano?
Essere teatrante è naturale a Venezia perché è la città della relazione, dove si è sempre in una dinamica relazionale, in questo è già teatro. Venezia è città palcoscenico. L’andare a piedi è legato alla possibilità di catturare personaggi ed entrare in contatto con altri. Si nasce teatro perché è città palcoscenico perché viva ed immobile, l’incontro è costante e i sensi sono amplificati. È una grande casa e questo mi aiuta nel fare teatro di comunità. È uno stato dell’anima, quindi essere così altalenante è legato all’essere umano, diventando in questo senso un modo per attraversare la vita. Secondo me il teatro deve attraversare la vita, dalla nascita alla morte e Venezia, nonostante si trasformi, resta un luogo di vita autentica. Io sono chi sono perché vivo qui. Sul piano pratico è una scelta, quella di fare teatro, che ho preso da molto piccolo. Faccio l’attore da quando sono bambino, lavorando nelle compagnie. Poi a un certo punto i miei compagni si allontanavano da Venezia cercando fortuna a Roma, per esempio. Io ho scelto di restare qui, sapendo di avere nel mio mestiere la possibilità di gettare ponti.
Una delle avventure più interessanti è stata proprio la rigenerazione del Teatrino Groggia, di Sant’Alvise, di cui sono stato direttore per dieci anni. Era una democrazia partecipata che coinvolgeva la cittadinanza, nata dal mio incontro con Anna Ponti. Ero molto giovane per diventare direttore, considerando che in Italia di solito, purtroppo, si rivestono cariche di responsabilità solo quando si raggiunge una certa età. Quel progetto però mi ha convinto a lavorare in questa città facendo teatro, formando una comunità ma, anche, formando posti di lavoro. Quest’idea poi si è evoluta nel Teatro Cittadinanza, che è un progetto più ampio perché comprende tutti i luoghi, spazi, generazioni, cittadini. Venezia è teatro per natura poetica, fisica, umana. Per me è teatro perché sono nato qui e perché ho avuto la volontà di restare qui e lavorare qui.
Nella sua carriera ha ricoperto tanti ruoli, non solo quello di direttore…
Ho cominciato come attore, da molto piccolo, con una regista che si chiamava Marcella Duse. Teneva un corso di dizione e recitazione. Mio padre mi presentò come un bambino molto istrionico. La mia famiglia è interessante. Mio padre è un ristoratore, un uomo illuminato e aperto. Mia madre viene da un’atmosfera più intellettuale. Mi hanno sempre permesso di vivere in un viaggio libero che mi permettesse di essere chi volevo. Quindi per anni ho viaggiato con la compagnia della Duse, facendo l’attore di maniera, ero “il piccolo” e questo mi ha fatto abbattere il muro tra le generazioni nel senso che ho sempre vissuto bene anche con chi era più grande di me perché il confronto era stimolante e mi sono sempre sentito accolto. Con lei ho fatto tanti ruoli tratti di autori importanti, come D’Annunzio per esempio, ero un attore “classico” perché la Duse lavorava sulla voce e sulla dizione, cose da cui poi mi sono scardinato cercando di studiare le avanguardie. A vent’anni avevo bisogno di scardinarmi da quelle strutture. Ho fatto teatro di ricerca avendo una prima compagnia che era la Corte dei Miracoli, poi mi sono laureato al TARS, quindi ho frequentato la scuola di Gianni De Luigi. Quello che ha fatto trasformare da attore a regista a direttore artistico è il mio amore per la vita in tutte le sue forme.
Quando ero attore vidi il film di Mazzacurati Sei Venezia, che racconta la città in una chiave insolita poiché lo fa attraverso il ritratto di persone, Anna Ponti mi lanciò l’idea di ripristinare il Teatrino Groggia. Io mi sentivo ancora molto giovane, non volevo essere l’ennesimo giovane attore che bussa alle istituzioni per cercare un teatro, quindi ho deciso di pormi come cittadino e non come regista, solo così sono diventato direttore artistico. Negli ultimi tempi al Groggia mi ricordo la comunità, così ho iniziato a fare anche laboratori, a diventare formatore. Il primo laboratorio s’intitolava RITUALI – scrittura collettiva per un canovaccio sentimentale, che è anche stato il primo laboratorio con un coro di donne veneziane ed è partita da qui l’idea della formazione.
Da qui sono diventato direttore anche del teatro Dario Fo di Camponogara, che è l’unico teatro dedicato a Fo in italia, cominciando a lavorare anche coi bambini e scrivendo la tesi di laurea sul mio lavoro con i più piccoli. La mia storia mi ha portato a cambiare ruolo, mantenendo l’idea che il mio lavoro dev’essere con e per la comunità, con le persone e deve intrecciare anche la vita. È stato naturale essere un giorno attore, il giorno dopo direttore artistico e quello dopo ancora formatore e regista. È ancora una cosa in divenire: infatti mi definirei un creativo del teatro, ancora oggi cambia il mio essere.
Come cambia Mattia quando passa da un ruolo all’altro?
Io sono drammaticamente lo stesso. Al Groggia l’approccio era fare una regia dell’organizzazione della stagione. Lavorare dall’immagine grafica ai materiali, al senso di comunità creando dei momenti condivisi. Avevo lavorato per un po’ a un progetto in collaborazione con Coop, quando sono diventato direttore. Ho chiamato i dirigenti. Mi hanno chiesto se volessi soldi. No, gli ho risposto che volevo merende, per fare la merenda della domenica. Quando sono stato performer avevo sempre lo stesso approccio, la stessa sete di vita coinvolgendo anche persone che non hanno nulla a che fare col teatro. Il fatto di mettermi al servizio e rendere il teatro luogo di aggregazione, per me questo è importante, voglio che ci sia una comunità, una festa, una casa aperta a tutti.
Teatro di Cittadinanza: com’è nato e, soprattutto, quali sono gli obiettivi che spera di raggiungere con questo progetto, attraverso il teatro site specific?
Teatro di cittadinanza nasce dopo RITUALI – scrittura collettiva per un canovaccio sentimentale, ma non a caso a Venezia, città costantemente in trasformazione e che molti danno per spacciata, dove però c’è resilienza di persone che vogliono condividere e scendere in piazza. La città è un terreno fecondo per la nascita di Teatro di cittadinanza. Già al Groggia avevo iniziato un lavoro di comunità, in cui c’è sempre l’idea della condivisione di un pezzo di te, di tuo. Massimo Ongaro, direttore del Teatro stabile del Veneto mi chiede di portare il mio teatro di comunità al Goldoni. Gli intenti sono il raccontare le città attraverso chi le vive, creare un gruppo di persone che sulle città hanno uno sguardo vivo e critico. Creare una rete solidale perché anche le piccole cose hanno grande importanza in un collettivo, in cui tutti hanno voce. Non m’interessa avere una compagnia teatrale, avere un gruppo fisso, il teatro deve essere motore di comunità. Teatro di cittadinanza va ovunque, luoghi pubblici e privati, perché vorrei che il progetto mappasse le città, i loro luoghi che spesso stanno andando persi, anche se a volte ne vedo nascere. L’obiettivo, ora, è ambiziosissimo perché il progetto deve diventare nazionale, nel senso che ogni città dovrebbe avere un presidio di cittadinanza. Siamo in un momento di sfaldamento, di futuro instabile, il Teatro di cittadinanza deve salvare le comunità, con progetti che guardano al domani.
Il progetto continuerà ad avere la sua casa a Venezia, qui c’è il nostro collettivo più numeroso, intorno alle cento persone, perché voglio continuare a lavorare con la mia comunità. Per questo mi sento vicino a Eugenio Barba o al Living Theatre, insomma a tutte quelle realtà che hanno lavorato con le comunità. L’obiettivo è sulla nostra città, in un lavoro mai finito perchè le idee me le dà la vita. Bisogna vivere le città al meglio. Tuttavia credo che, per noi, sia altrettanto importante uscire dalla prigione dorata di Venezia, voglio portare la mia visione in altri luoghi. Sono stato a Cagliari dove c’è un piccolo presidio gestito da un duo, Le lucide, che fanno un lavoro sempre legato alla comunità. Quest’estate, nel Cadore, abbiamo lavorato con la comunità di montagna, gemellandola con Venezia, in un evento molto toccante ed emozionante. Abbiamo un presidio a Treviso, ho lavorato a Vicenza… insomma sto portando in giro questa idea e confrontandomi con altre realtà. Vorrei che da qui partisse una rivoluzione culturale che coinvolga teatranti e artisti ma soprattutto persone. Nelle mie performance ci sono persone che, nella vita, fanno qualunque mestiere e il palcoscenico può essere il Teatro Goldoni o la bottega del macellaio di Rialto.
Allora come si diventa parte di Teatro di cittadinanza?
Ci si può iscrivere al presidio principale al Teatro Goldoni, dove abbiamo la casa madre, lì si troverà l’email education@teatrostabileveneto.it che ti permette di effettuare l’iscrizione. Può essere utile seguirmi sui social per restare sempre aggiornati.
Quindi il progetto è aperto a tutti?
Assolutamente sì, a tutti. L’anno scorso volevo fare un programma laboratoriale e performativo, per tutte le età, diffuso per città. È libero, non bisogna avere nessuna competenza teatrale, c’è chi ha competenze, ma non le richiedo. Quando lavorano anche gli attori, sono amici che si prestano mettendosi alla stregua di tutti gli altri partecipanti.
Restando sulla nostra città, Venezia è teatralmente dominata dalla Fenice. Certo, tutti conosciamo il Godoni e la biennale Teatro, ma quando si pensa al concetto teatro, la maggior parte di noi pensa alla Fenice. Com’è fare teatro contemporaneo in una città così legata a una visione “classica” di teatro, anche da parte dei turisti che spendono fior di denari per assistere alle opere o ai balletti?
Della Fenice mi piace il concetto che rinasce sempre, perché facendo teatro di militanza è un concetto a me vicino. Detto questo, non è facile fare teatro off a Venezia, fare teatro contemporaneo, non c’è spazio per i giovani che vogliono fare teatro. Per esempio quando ho lavorato allo IUAV, grazie ad Annalisa Sacchi che si occupa di esperienze legate al contemporaneo, le ho chiesto di fare un laboratorio coi ragazzi che riguardi la loro visione sulla città. Una delle cose che è emersa è il desiderio di continuare a lavorare qui. Quando ero giovane ricordo tutta una serie di compagnie, spazi e luoghi che potevano sopravvivere, oggi questi spazi e sostegni non ci sono più. Va bene che ci sia una macchina di successo come quella della Fenice, come va bene la macchina del Teatro stabile, ma sono venuti a mancare le realtà off. Gli esempi sono tanti, dal Teatro delle fondamente nove, al Teatro Aurora di Marghera, il Teatrino della Murata di Piazza Ferretto. Non ci sono più contenitori di comunità, di giovani, di sperimentazione. È un lavoro che andrebbe fatto, in primis, dalle istituzioni, che dovrebbero incentivare a lavorare sui contenuti giovani. Anche perché le realtà diverse possono convivere e nutrirsi l’una dall’altra, ma al momento l’offerta culturale è tutta in una direzione. Come lo è quella d’accoglienza: per questo desidererei che ci fosse l’hotel a cinque stelle affiancato a un B&B aperto a tutti.
Sono contento del successo del Teatro di cittadinanza, ma mi manca il confronto, vorrei che ci fossero realtà come la mia per permettere di arricchire il nostro lavoro grazie all’incontro tra noi. Forse dovremmo pensare a dei collettivi, mettere in una sala tutti i direttori artistici e i teatri della città cercando di costruire una programmazione assieme. La Biennale è una macchina che rende Venezia globale, ancora più palcoscenico, però vorrei che si mettesse più in dialogo con la città. Avevo provato a proporlo all’ex direttore di Biennale Teatro Antonio Latella, per creare qualcosa assieme. Maurizio Scaparro, con i carnevali degli anni Ottanta ci racconta di una città che è palcoscenico di esperienze diverse, ma molte venivano dal territorio. Gli stessi veneziani erano il Carnevale. Allora chiedo al prossimo direttore del carnevale di includere i bambini delle scuole e far loro fare delle azioni in piazza.
Perché Venezia sembra così chiusa al teatro contemporaneo? Perché facciamo fatica a vedere grandi spettacoli e grandi attori celebri sui nostri palchi? È una questione di budget?
Le programmazioni e le scelte sono legate al direttore artistico perché dà un’identità a quel luogo, a quella realtà. Non c’entra nulla con la questione economica, perché anche io al Groggia, una realtà non certamente ricca, sono riuscito a portare Emma Dante e tanti altri autori di spessore, che si prestavano a far sentire il pubblico a casa. È una questione di lavoro continuo e di visione, si fanno pochi laboratori sulla drammaturgia perchè si pensa non possano avere successo tra la popolazione. La questione dei teatri che si svuotano è un problema nazionale. Vorrei che i direttori artistici fossero, in primo luogo, illuminati con visioni e idee. Al teatro Goldoni, quando era diretto da Gaber, c’era la coda fuori. Non dobbiamo però crogiolarci nella nostalgia, i tempi sono cambiati, bisogna vivere sulla contemporaneità che è anche esperimento.
Per diventare appetibili potrebbe essere una buona idea chiamare personalità conosciute, come farà il Teatro stabile in questa stagione? Un Toni Servillo aiuta a riempire la salata prescindere dallo spettacolo, quasi. Forse abbiamo paura di agire con delle logiche che servano, quasi esclusivamente, ad attirare il pubblico.
Non bisogna aver paura di sperimentare e di osare anche se con un personaggio noto, televisivo, buffo. Io volevo trasformare il Goldoni in una discoteca per attirare i giovani. Uno dei miei lavori più dissacranti riguardava la figura di Tadzio, di Morte a Venezia, per raccontare il modo in cui i giovani d’oggi fanno nuovi incontri. Tramite le app, per esempio. Ho creato, quindi, un Tadzio virtuale, grazie alla collaborazione un giovane attore appena diplomato di origine brasiliana, facendo un lavoro sulla comunicazione. Abbiamo preso un testo classico, per esplorare l’idea di questi giovani che conoscevano Tadzio da internet e poi venivano a vederlo fisicamente a teatro. In più qualcuno di loro, una volta arrivato a casa, avrebbe avuto la curiosità di andare alla ricerca di Thomas Mann e del libro, oppure sarebbero tornati a teatro a vedere qualcos’altro. Bisogna che il pretesto drammaturgico sia vicino alle persone, io non ne ho paura.
I nostri palchi devono essere calcati anche da artisti internazionali. A Londra ho visto un Amleto con Jude Law, in platea c’erano persone di tutte le età. Chiediamoci perché Venezia non frutti il suo essere internazionale. I progetti fatti in questo senso sono sempre rivolti a un turista visto come spettatore di serie B. Dovrebbero esserci spettacoli di livello internazionale per una città internazionale ma che siano belli, che funzionino, con tempi comici, e che siano fruibili da tutti.
In un’intervista a Ca’ Foscari ricordava che la sua tesi di laurea partiva dal suo lavoro teatrale con i ragazzi. Qual è il tipo di teatro, secondo lei è più adatto per introdurre i bambini a quest’arte? È facile fare nomi come Verdi o Čechov, ma è difficile far innamorare i più piccoli del teatro attraverso autori come questi. Pensa che la commedia dell’arte o un certo tipo di teatro contemporaneo possano venire in aiuto?
Percorsi della creatività nel teatro ragazzi in un territorio particolare nord est. È il titolo della mia tesi di laurea. Parla del mio metodo di lavoro coi bambini che parte dal gioco, dalla teatralità naturale che i bambini hanno. Anche in questo caso è un lavoro d’insieme, molto vicino alla danza, azioni e reazioni con quello che ci circonda. I più piccoli sono spugne, un bambino davanti all’arte può immagazzinare molto. Se vuoi avere un parere attendibile su uno spettacolo, mostralo a una platea di bambini perché saranno sempre sinceri. Sarebbe interessante un collettivo di critici bambini che va in giro per i teatri.
Anche i grandi artisti dovrebbero mettersi in gioco e lavorare con i ragazzi?
Sì, dovrebbe essere un esercizio praticato da tutti. Ma anche i politici, le istituzioni culturali, i teatranti, in tutti i collettivi è vitale avere uno sguardo giovane. Ci aiuta ad abbattere muri, a metterci in discussione, ad avere visioni aperte.
Cominciando a studiare teatro contemporaneo partendo da zero mi sono resa conto come questo sia una sorta di mondo nascosto. Superstar come Castellucci o Fabre raggiungono un livello di notorietà immenso ma che sembra non andare oltre gli appassionati. Il teatro contemporaneo sembra una bolla, che si può facilmente violare innamorandosi dei suoi artisti, ma che quasi gode nel suo essere autonoma dal resto dello show business, andando anche contro, forse, i suoi stessi interessi economici. Ha una spiegazione a questo fenomeno?
Il teatro contemporaneo, soprattutto quello di comunità, tenta di rompere la distanza, tenta di non essere classista. Io mi arrabbio coi colleghi che si chiudono in una nicchia di celebrità di addetti ai lavori, di scelte arte artistiche in questo senso. Ben vengano le sperimentazioni più elitarie, però con il rischio di rimanere circoscritte e in questo momento storico dobbiamo rispondere a un’emergenza di un altro tipo. Le cose raffinate, colte, bellissime vanno bene però non c’è tempo, ora c’è bisogno del coinvolgimento delle persone, di rispondere a bisogni immediati. L’arte è elitaria ma dobbiamo rovesciare la prospettiva. Detto ciò penso che possa andare bene sia Mattia Berto che fa il teatro con la macellaia, sia Castellucci che fa le performance intellettuale.
Una domanda che ytali già fatto a Gianni De Luigi, con cui lei ha lavorato a inizio carriera. In un mondo di stimoli continui, gli artisti hanno ancora bisogno della musa?
La mia musa è Marta Garlato, la pasticcera qui sotto casa mia. È una ragazza bellissima, che sembra uscita da un film di Fellini. È la mia musa perché racchiude tutto il senso della mia arte: venezianità, quotidianità, relazione, incontro con l’altro, cose buone come dei dolci, teatro naturale, vita. Sì abbiamo ancora bisogno di muse, che ci proteggano, che ci permettano di creare, che siano fonte d’ispirazione e bellezza. Nel mio caso però la mia musa è nella quotidianità, nella vita, perchè ho bisogno di nutrirmi di vita. Ognuno di noi deve trovare un senso forte al suo lavoro e riconosco nella musa l’idea di motore d’ispirazione e per me è la pasticcera, la mia città, la vita. Dove vuoi andare senza una musa? A me non piace star da solo, io sono per le storie d’amore.
Si chiude così la nostra intervista, con una delle frasi più dolci, forti e innamorate mai sentite. Forse è proprio vero che in quei pasticcini si racchiude tutta l’essenza dell’uomo, della comunità, della vita.
L’articolo Mattia Berto e tutta la dolcezza della comunità proviene da ytali..