Il libro di Gabrio Vitali appena uscito da Moretti&Vitali è bellissimo e necessario, nonché perfettamente equilibrato nelle sue tre parti costitutive: la prima, molto più originale e vissuta che teorica, s’intitola La civiltà della poesia, ma si sarebbe potuta intitolare anche Il viaggio civile di un Lettore; la seconda – I poeti mi hanno detto – ne è il correlativo oggettivo, con una galleria di ventuno fra poeti e poete che costituiscono nel loro insieme la spina dorsale di una dialogicità e di una interdiscorsività (stilistica, retorica, metrico-prosodica, tematica, linguistica) che motivano la qualità alta della poesia creata oggi in Italia, al di là della diffusione mediatica di un nucleo ristretto di “nomi”; e la terza (“Piccoli maestri”… e più grandi) tenta una spiegazione dello stato delle cose che è anche un bellissimo omaggio alla visione intelligentemente e problematicamente filosofica di un caposaldo ormai più che centenario del Novecento come Edgar Morin.
La questione di fondo, abbastanza inesplicata, è perché oggi tanta poesia viene scritta e così poca viene letta, se è vera la statistica che enumera circa tre milioni di persone che per esempio in Italia scrivono versi mentre esiste sì e no un millesimo di soggetti disponibili ad acquistare un libro di poesia contemporanea. È perché per scrivere una poesia basta conoscere almeno in parte la propria lingua naturale? O perché per scriverla bastano una matita e un foglio di carta o – ancor meglio – quello smartphone che proprio tutti tutti fra i dieci e i novant’anni possediamo e maneggiamo per diverse ore lungo l’arco delle nostre giornate? Oppure perché ricordi di scuola sempre più pallidi ci fanno ogni tanto d’improvviso reimmergere in qualche verso mandato a memoria ai tempi delle nostre infanzie e adolescenze? O, meno casualmente, perché avvertiamo più o meno consciamente che i conti coi nostri amori perduti, i nostri lutti immedicabili e gli enigmi quotidiani dei nostri sogni solo la poesia ci permette di farli scaturire in forma verbale – dunque comunicativa – dalla nostra interiorità più inquietante e complicata?
di Gabrio Vitali
Moretti&Vitali editori, 2024
Prezzo: Euro 18,00
Non è difficile accorgersi, in effetti, se si possiede un minimo di sensibilità, che la poesia in questa prospettiva aurorale e vagamente salvifica è una vera e propria medicina dell’anima, oltre che un potentissimo strumento di autoanalisi e di ecologia della mente e della natura: vale a dire, del nostro posizionamento nel mondo, nella nostra realtà spazio-temporale e nel nostro ambiente socio-familiare. Il problema naturalmente sorge quando, in linea con il narcisismo che contraddistingue la nostra epoca all’interno del sistema geopolitico occidentale, quasi tutti i tre milioni che scrivono ambiscono a pubblicare i propri manufatti poetici: cioè ad ottenere l’attenzione di un mondo che per l’appunto scrive di sé ma si rifiuta a contrappeso di leggere quello che scrivono gli altri, naturalmente con il corollario “mitologico” di buoni editori, premi, presentazioni, recensioni, attenzioni che l’odierna società dello spettacolo richiede al meccanismo di trasmissione, di diffusione e di ricezione bene o male obbligata cui ogni prodotto (non importa se industriale, commerciale o culturale) è destinato.
Non ci sono ricette per spiegare in modo definitivo il fenomeno, a miglior titolo se ai milioni di poesie che ogni anno vengono prodotte in Italia aggiungiamo le altre manifestazioni di “funzione poetica”: testi teatralizzati di performance, canzoni, sequenze rap e trap, sceneggiature video, sketches comici, jingles pubblicitari, slogan politici ecc. Qui il problema si fa serio e in prima apparenza irrisolvibile, perché la poesia non è semplicemente uno sfogo, né una musichetta interiore, né un “bel dire” e nemmeno un esercizio di calligrafia: ma è soprattutto un’arte plurimillenaria e le arti, si sa, non fanno sconti, bensì hanno storie, tecniche, destini, poetiche, linguaggi, stili, idee, alleanze e conflitti, paradigmi esemplari e provocazioni da accettare o rifiutare. E inoltre obbligano ad ampliare i propri orizzonti, oltre che a viaggiare fra secoli e continenti anche molto lontani dal proprio hic et nunc.
Non c’è scorciatoia, allora: per “pubblicare” bisogna impratichirsi e studiare, non tanto enciclopedie o corsi universitari, piuttosto le pieghe del proprio sentire profondo (anche nella sua negatività, all’occorrenza) e soprattutto i modi nei quali è possibile trasformare in linguaggio non banale né ripetitivo questi traumi, questi sogni, questi iceberg dell’inconscio e questo vissuto che è solo proprio e individuale, ma che è disposto anche a non indulgere al solipsistico o al semplicemente diaristico. Infatti, l’esperienza del sé dev’essere messa a confronto con quella dell’altro da sé, immerso nella rete mobile dei lettori/interlocutori, presenti, passati e possibilmente futuri.
Il compito si fa arduo ed è proprio con questo arduo che si confronta faccia a faccia Gabrio Vitali nei paragrafi illuminati di Poesia che fa civiltà, un libro perfettamente calibrato nelle sue parti e ispirato – com’è nei voti del mèntore Mauro Ceruti – alla necessità di una nuova Paidèia che s’impegni a coinvolgere le generazioni giovani di tutta la tradizione occidentale. E a ciò si aggiunge, in re, la consapevolezza su cui Gabrio Vitali non smette di insistere, perché non esiste un Metodo unico e onnicomprensivo per essere Lettori veri, ma una pluralità di voci e di tecniche d’approccio capaci di cooperare con i legami e le tessiture delle opere davvero eminenti.
L’articolo Il viaggio civile di un lettore di poesia proviene da ytali..