Poesia e civiltà, discutiamone
Il critico e filologo Alberto Bertoni, in estensione della sua bella recensione sui temi del libro Poesia che fa Civiltà, ci ha voluto inviare anche una riflessione autobiografica sul suo rapporto con la poesia, in veste di autore e di docente. Lo ringraziamo per l’importanza e l’autenticità del suo testo e, insieme, per l’opportunità che esso ci offre di aprire una riflessione corale, sul rapporto poesia e civiltà, fra i poeti coinvolti a vario titolo nella nostra rubrica Perché Poesia e anche fra tutti i collaboratori e i lettori di Ytali che vogliono partecipare, naturalmente scegliendo l’impostazione del testo che più loro sia congeniale.
Quante suggestioni e quanti transfert è possibile ricavare dalla lettura di Poesia che fa civiltà (Moretti&Vitali, Bergamo 2024)! L’ultimo lavoro critico di Gabrio Vitali si pone infatti come una vera e propria summa interpretativa, che s’impegna a spaziare – com’è nello stile del suo poliedrico e acutissimo autore – dall’antropologia alla filosofia, dalla sociologia alla stilistica, dalla pedagogia all’ermeneutica propriamente intesa! Ma la scelta più originale è che il perno di tutto questo impegno di Lettore esperto e appassionato ruota attorno alla Poesia, la più longeva, la più praticata ma anche la meno letta di tutti i generi letterari, oggi in Italia.
Paradossalmente (ma chi mi conosce sa che ho sempre molto amato i paradossi), per me l’unica strada percorribile nel dare conto d’un libro tanto cólto e complesso è compiere un esercizio di autofiction: un esercizio che si propone innanzi tutto di mostrare come un ragazzino nato nel 1955 in una città per antonomasia antipoetica come Modena e cresciuto in una famiglia piccolo-borghese priva di biblioteca abbia coltivato la passione della poesia e nel corso degli anni (di molti anni) si sia a poco a poco conquistato il diritto di scrivere a sua volta qualche testo versificato, per vederlo alla fine pubblicato: al prezzo di molta fatica, di molti viaggi, di moltissime ore destinate all’ascolto di chi era (o è) di lui molto più bravo e più sensibile, ma sostenuto, spinto e motivato dalla necessità di una lettura ininterrotta, molto presto riconosciuta come pratica più piacevole e più fruttuosa della propria stessa scrittura.
Il desiderio e il bisogno di poesia, comunque, incubavano in me fin dagli anni delle scuole elementari, ma si sono manifestati con forza autonoma e consapevole nel 1967, quando avevo dodici anni, a partire da due impulsi: il primo provocato dall’antologia adottata nella mia classe delle scuole medie inferiori, che era Leggere, edita da Zanichelli, dove venivano riportate poesie di tre poeti ancora vivi, Montale, Ungaretti e Quasimodo. Mi piacque e mi colpì molto l’idea che ci fossero poeti ancora viventi di cui era lecito studiare i testi a scuola: fino ad allora avevo pensato che, se si aveva bisogno di poesia, ci si potesse iscrivere solo a una Dead Poets’ Society. Poiché mia madre era maestra elementare e i miei genitori mi avevano inculcato fin da piccolissimo l’idea che il mio dovere/mestiere era quello scolastico, alla scuola avevo attribuito una funzione piuttosto sacrale, che qualche volta – per colpa prima della matematica e poi, al Ginnasio, del greco – mi procurava incubi, ansie da prestazione e malesseri psicosomatici sparsi. Oggi, naturalmente mi piange il cuore, nel constatare che i miei studenti ventenni di laurea triennale, alle medie superiori hanno letto sì e no qualcosa di Ungaretti e di Montale, due poeti nati nell’Ottocento, e nulla degli autori e delle autrici nati invece nel Novecento, a partire da quelli straordinari degli anni Dieci: Sereni, Caproni, Luzi, Bertolucci.
Tornando alla poesia, di Quasimodo non ricordo granché, non l’ho mai amato tanto, a parte la faccenda dello stare soli sul cuor della terra, feriti da un raggio di sole, prima della subitanea sera. Di Giuseppe Ungaretti ho subito ricordato molto bene, invece, con una punta d’ironia ancora inconsapevole, il «M’illumino / d’immenso» di Mattina, ma ancora più vividamente mi ricordo l’amore, il trasporto immediati per Meriggiare pallido e assorto di Montale. Io prestavo già un’attenzione quasi maniacale al linguaggio (sulle questioni soprattutto dei sinonimi e dei significati multipli di una stessa parola interpellavo continuamente mia madre, fin quando – un bel giorno – lei non ha più saputo rispondermi) e di quella poesia mi sconvolse l’uso ripetuto dei verbi all’infinito. Allora soffrivo di noie frequenti, improvvise e devastanti, soprattutto quando i miei genitori e i miei nonni per i mesi interminabili di luglio e di agosto mi trascinavano a Marina di Carrara, a far vita di spiaggia: siccome sono stato sempre insonne (e dunque non ho mai consumato pennichelle o siestas), il “meriggiare” l’ho vissuto sulla mia pelle e, benché a dodici anni non fossi ancora affetto dal male di vivere, questo meriggiare pallido e assorto mi coinvolse moltissimo, tanto da essere anche oggi – quasi mezzo secolo dopo – una delle mie poesie preferite. Evidentemente lo era anche di Montale, visto che su quella poesia ha accreditato la probabile bugia di averla composta addirittura nel ’16, senza che di allora sia mai stata ritrovata una traccia autografa: e ciò può significare soltanto che l’autore stesso attribuisse a Meriggiare una funzione particolare, accreditandola ai suoi vent’anni.
La passione delle poesie lette sfogliando a caso (e senza la guida dell’insegnante) la mia antologia scolastica, un Leggere che mi suonava come imperativo, trovò un corrispettivo esistenziale, il primo vero correlativo oggettivo delle mie angosce adolescenti. Si parlava di uomo occidentale “in crisi”, allora, la filosofia dominante era l’esistenzialismo predicato da Sartre e da Moravia… Ma la mia personale crisi di dodicenne inquieto (che già per l’appunto comprava e “divorava” i dischi dei Beatles ed aveva cominciato a leggere thriller ogni sera prima di provare a dormire) era più prosaicamente motivata da un’infelicità calcistica. Infatti, nel maggio-giugno del ’67 la mia squadra del cuore, l’Inter, aveva perso nel giro di pochi giorni la Coppa dei Campioni in finale col Celtic Glasgow a Lisbona e lo scudetto, sconfitta a Mantova per colpa di una papera clamorosa del suo portiere Sarti, a favore della Juve: io ne subii uno choc molto violento, tanto che fu quella una delle rarissime volte in cui singhiozzai disperatamente in pubblico. In proposito, è curioso il fatto che la grande maggioranza dei poeti più importanti del secondo Novecento sia stata o sia tifosa dell’Inter, da Vittorio Sereni a Giovanni Raboni, da Luciano Erba a Maurizio Cucchi, da Tiziano Rossi a Umberto Fiori, da Giampiero Neri a Fabio Pusterla, da Mario Benedetti a Giancarlo Sissa, da Fabio Scotto ad Andrea Gibellini, da Maria Luisa Vezzali a Marco Sonzogni, da Christin Sinicco a Cristiano Poletti, così scendendo per li rami… Ed è perfettamente inutile aggiungere che anche Stefano Tassinari è stato un interista piuttosto sfegatato.
Ragionandoci su, mi pare in realtà un fatto piuttosto naturale che l’Inter sia la squadra per antonomasia poetica, data l’oggettiva “pazzia” della sua fisionomia calcistica e della sua storia, fra trionfi e abissi, conquiste inaspettate e crolli cocenti, anche se – come ogni poeta che si rispetti in rapporto ai suoi lettori – noi gli arbitri non li abbiamo mai comprati. Quindi, anche la fede nerazzurra indicava una specie di vocazione nascosta o di Edipo anticipato, manifestati la prima volta una domenica sera del ’60, in una sala da pranzo pretenziosa e polverosa di luci ancora bassissime e tutte simili a fiammelle fugaci e tombali, davanti a un notiziario sportivo trasmesso dal televisore appena acquistato, in braccio a mio padre juventino sfegatato, quando – con la perfidia e il candore dei miei cinque anni – gli chiesi: “Papà, qual è la squadra più nemica della Juve?” E lui rispose d’acchito: “L’Inter!”, prima che io con un gran sorriso gli ribattessi: “Allora io sono per l’Inter”: e così fu per sempre. Fra l’altro, a definire meglio l’eroismo edipico della mia scelta, quello non era ancora il tempo dell’Inter campione di tutto allenata da Helenio Herrera (la cui formazione è ancora la più bella delle possibili preghiere laiche: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso), ma di quella – molto più modesta – di Lindskog e Masiero, Buffon (quello vero, lo zio) e Angelillo. Dallo choc delle due tuttora immedicabili sconfitte del ’67, per le quali piansi lacrime caldissime, sia dopo la finale di Lisbona che dopo la partita di Mantova, scaturirono durante l’estate immediatamente successiva i miei primi afflati poetici, in un’atmosfera plumbea, sulla spiaggia di Marina di Carrara, un giorno d’agosto in cui il cielo era così minaccioso che a noi villeggianti di città era stato interdetto il bagno. Così, dopo che alcuni gabbiani si erano avvicinati a riva, chiesi una penna e un pezzo di carta alla stupita proprietaria dello stabilimento balneare dove avevamo cabina e ombrellone, una burbera signora Egizia, perché mi si era affacciato alla mente questo verso, che non voleva più dissolversi nel nulla:
Volano i gabbiani in un volo senza senso
Il primo verso da me concepito! Brutto senza redenzione, va da sé. Sventuratamente la poesia poi continuava e forse finiva anche, ma anni dopo l’ho buttata via e per fortuna non ne ricordo alcun altro passaggio, a parte questo incipit melenso e appunto “senza senso”.
Più o meno nello stesso giro di mesi mi resi conto che la poesia la scrivevano dei signori anziani sì, ma nel 1967 almeno in parte ancora vivi e magari raggiungibili di persona o – più facilmente – al telefono: erano anni in cui si discuteva di teleselezione, poi entrata in vigore nel ’70, grazie alla quale bastava premettere un prefisso dal proprio telefono di casa (nero, di opaca e greve bachelite, appeso spesso a un muro, dunque scomodissimo), per raggiungere qualunque numero attivo sul territorio nazionale. Per analogia ma soprattutto per imitazione, questa constatazione molto ingenua (del fatto che i poeti fossero persone in carne e ossa, con una vita “comune” e non entità superne, solo spirituali) mi portò a pensare che forse qualcosa di “poetico” (alias di lirico) avrei potuto scriverlo anch’io, avvalendomi di quel meccanismo piuttosto particolare – col suo andare a capo “prima”, in Ungaretti anche “molto prima” – che è il verso, discorso spezzato dentro.
Il problema è che da allora non ho più smesso. Il mio amore per Montale è diventato viscerale, anche se poi ho incontrato e conosciuto tanti altri poeti da amare, su tutti Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti e Giovanni Giudici, lui molto frequentato anche di persona nell’ultimo decennio del Novecento.
In primo luogo, devo dire che in un primo tempo non è stato affatto facile salvaguardare questa attrazione fatale per la poesia, anche per ragioni di appartenenza generazionale e di un’origine radicata a Modena, città antipoetica per antonomasia, nel cui dialetto l’epiteto di “poeta” è quasi automaticamente sinonimo di “matto”. Sì, nell’ultimo anno del Liceo Classico, il mitico professore d’Italiano, Domenico Melli, dedicò un intero sabato che doveva essere destinato al Latino a commentare certe poesiole che gli avevamo passato io, Paolo Garuti (un futuro esegeta biblico e padre domenicano), Leonardo Benassi (un manager dell’abbigliamento) e Carlo Bajada (destino da ingegnere): fu cortese, ma non tanto incoraggiante, anche se – col senno di poi – credo invece che il suo finto distacco intriso d’ironia (di me disse che non sospettava che io potessi essere tanto innamorato!) sia stato fin troppo indulgente. Nell’autunno di quello stesso anno, matricola a Lettere, mi sono accorto subito che il fatto stesso di scrivere poesie non era visto di buon occhio. Per chi scriveva poesie nella Bologna del 1974, se non si voleva essere d’acchito definiti fascisti (quasi sinonimo di “lirici”) c’era un dogma da seguire, quello dei cosiddetti “poeti novissimi”, cioè – per dirla molto brutalmente – conveniva scrivere poesie che d’acchito non si capissero, prive di referente logico o di semplice argomento comunicativo, sintatticamente esplose, linguisticamente sperimentali e dunque semanticamente intransitive. Proprio in quegli anni Settanta veniva infatti celebrandosi il divorzio fra la poesia come produzione e la poesia come ricezione, come lettura: un divorzio di cui la poesia sta ancora pagando – nella cognizione comune ma non solo – conseguenze molto serie.
In quel decennio a dominante politica, ideologica, sociologica, critica, teorica, linguistica, psicoanalitica (sulla scia dei grandi scrittori/pensatori francesi di secondo Novecento, Barthes Foucault Genette Blanchot Althusser Derrida Lacan), la poesia uscì rapidamente dall’orizzonte di acculturamento e di ricezione dei non specializzati e dei non addetti ai lavori. E questo è poi rimasto un difetto spiccato della poesia contemporanea, almeno in Italia, tanto che negli anni Settanta il virtuale “per tutti” che appartiene da sempre alla funzione poetica venne trasferito ai cantautori, al punto che ai poeti veri, quelli che la musica alla parola sanno imprimerla dall’interno, attraverso il linguaggio, quella facoltà di parola condivisa, destinata a un ascolto e a una fruizione “sociali”, non è stata più restituita. Comunque, è un dato non contestabile che, in Italia, i cantautori hanno dato il loro meglio proprio in quel decennio, gli anni Settanta del Novecento, componendo testi di canzoni non di rado – anche se latamente – apparentabili a testi poetici e comunque percorsi da un’energia e da una capacità di rifiuto del banale tutte poetiche: basta pensare a Guccini, Lolli, De Gregori, De André, Dalla, Battiato, Fossati, Vecchioni, Branduardi, Bertoli, Nannini, Bennato, Gaber, Jannacci e qualche altro.
La poesia, più o meno sotterraneamente, non ha però mai smesso di accompagnarmi anche in quegli anni di apprendistato e di formazione. Nel chiuso della mia stanza, a Modena, io continuavo infatti a leggere i miei autori preferiti, magari difficili, talvolta oscuri ma mai incomprensibili, come Montale, come Sereni, come lo stesso Ungaretti o come Giudici, Risi, Caproni, Raboni, scoperti in solitudine su qualche scansia appartata delle librerie che frequentavo, la Feltrinelli a Bologna e Rinascita a Modena. In seguito, ho cominciato ad amare molto i poeti anglosassoni e quelli americani, in particolare gli esponenti della beat generation, arrivandoci attraverso Bob Dylan e i protagonisti musicali della West Coast californiana. E nel 1980 m’imbattei in Ora serrata retinae, il libro sorprendente fino ai limiti dello choc di un coetaneo addirittura un po’ più giovane di me, Valerio Magrelli, con il suo dettato ironico e trasparente, sul piano semantico; e nel poemetto Il disperso, di Maurizio Cucchi, nel quale m’identificai in modo quasi naturale, nonostante che la linearità degli enunciati vi fosse fortemente perturbata, com’era perturbata nei due “Novissimi” che nel mio apprendistato universitario avevo imparato molto presto ad apprezzare (e anche a tentar di imitare), Edoardo Sanguineti per quel libro straordinario – ove Dante e Gozzano davvero si combinano – che è Postkarten, del ’78; e Antonio Porta, che con Passi passaggi ebbe nel 1981 il coraggio e il talento di cambiare completamente fisionomia alla sua radice neoavanguardistica.
In quel periodo, in realtà, si creò una forbice abbastanza abissale nella mia esperienza poetica: proprio nel momento in cui imparavo gli strumenti del mestiere e cominciavo a fare il critico – che è la cosa che tuttora mi riesce meglio – e a diventare anche un critico spero rigoroso grazie alla lezione di Ezio Raimondi, la poesia assumeva per me la dimensione di un vizio privato, che come i vizi veri praticavo soprattutto di notte (allora ero molto più insonne di adesso), e che sentivo come radicalmente estraneo rispetto alla strada letteraria imboccata all’Università. Tanto è vero che proprio la poesia fu la prima vittima della mia naturale reazione, quando nel marzo del ’77 venne ucciso dalla Polizia, a Bologna in via Mascarella, un mio coetaneo compagno di studi, Francesco Lorusso. Ero in giro anch’io quella mattina e tutt’attorno si respirava davvero un clima plumbeo, di assassinio voluto e cercato di un “ribelle” che a quel punto avrebbe pagato per tutti.
Quando, qualche giorno dopo, si sarebbero celebrati i funerali di Lorusso, invece di andare a Bologna a parteciparvi, per reazione presi il cassetto dov’erano contenute tutte le poesie che avevo scritto fino ad allora, quindi anche Volano i gabbiani in un volo senza senso, e le buttai nel cassonetto della spazzatura (allora Modena era una città all’avanguardia, nella raccolta dei rifiuti…): così non posseggo né ricordo più alcun testo poetico composto prima del 12 marzo ’77, senza che la letteratura italiana abbia subìto per questo la minima perdita. Dopo, ho continuato a scrivere in modi diversi, attraverso tappe evolutive non sempre coerenti, fino a oggi, tendendo ad anteporre le scoperte e le inclinazioni del lettore alle esperienze del poeta in prima persona, quasi per un connaturato abito mentale. Ma la poesia è stata sempre una compagna irrinunciabile, una passione bruciante che ha finito per trasformarsi in una questione prima assolutamente privata (poi sempre più performativa) di sfogo, di riflessione, di rivelazione, di preghiera, di esibizione pubblica, di contatto, di dialogo, di pensiero, di foglio di diario a fine di memoria, che mai nei decenni successivi si è interrotta. Tanto è vero che non passa giornata della mia vita senza che io legga o rilegga una poesia.
Se qualcuno oggi organizza un festival di poesia ben fatto, sicuramente sale, piazze e teatri si riempiono e agli incontri partecipano molte persone. Lo vedo anche attraverso i festival che ho contribuito a organizzare io, come il PoesiaFestival delle Terre dei Castelli attorno a Modena, giunto nel 2022 alla diciottesima edizione, un traguardo tutt’altro che facile; oppure attraverso quelli a cui vengo invitato come critico o come poeta, fra i quali il mio preferito è Pordenonelegge, grazie al lavoro di uno dei primi amici veri e sodali che mi sono fatto nell’ambiente poetico, Gian Mario Villalta. I libri, invece, non si leggono proprio più: la poesia nella sua forma libresca non si compra né si vende né si promuove né si discute (se non entro cerchie ristrette e specializzate), e proprio non le riesce di venire accolta dentro l’orizzonte di acculturamento o di cognizione del lettore medio (posto che ne esista ancora qualcuno). Naturalmente questo “stato dell’arte” porta a un corollario: in funzione di calamite, ai festival vengono invitati a leggere poesie attori e attrici di fama teatrale o televisiva. Quasi mai, però, costoro leggono bene la poesia perché molto spesso la forzano ai timbri e alle intonazioni artificiali della propria voce impostata secondo tecnica da scuola di teatro, oltre che magari al birignao o alla gestualità che ha dato loro un successo di audience, evitando di studiarla e di eseguirla come quella partitura musicale che essa invece è: con l’ovvia conseguenza che, se un poeta va a capo a un certo punto, bisogna introdurre una pausa, il verso va rispettato, mentre gli attori tendono a non farlo. Hanno anche la sfortuna che dopo un modello straordinario come quello di Carmelo Bene, negli ultimi tre decenni del secolo scorso, nessun altro è stato mai più capace di leggere la poesia con quello stesso istrionismo trascinante e con la qualità anche tecnica e tecnologica dei suoi spettacoli, assistiti e illuminati da una competenza di interprete coltissimo e – assieme – straniato, sintetico ed empatico. Certo, esistono eccezioni, soprattutto fra i più giovani e l’eccezione che mi è più cara, per consuetudine e sintonia, è Diana Manea, oggi primattrice del Piccolo Teatro di Milano.
A ciò si aggiunga che, fra i poeti e le poetesse della mia generazione, molti leggono bene perché tutti siamo coinvolti nei festival, nelle performance, nelle occasioni di lettura pubblica, con le punte eccezionali di Giuliano Scabia e di Mariangela Gualtieri, che nasce attrice (di teatro di ricerca, col teatro della Valdoca) ma che – da poetessa di qualità – è riuscita a combinare scrittura e performance come oggi in Italia nessun altro. Con storie e lingue poetiche molto diverse, anche Livia Chandra Candiani, Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque sono ottime esecutrici (salutate da un successo di ascolto ben diffuso e “popolare”) dei loro testi, peraltro belli anche nella versione scritta. Credo sia parte della formazione di un poeta che attraversa l’attualità saper porgere bene i propri versi attraverso un’efficace lettura ad alta voce, ma non tutti ci riescono.
C’è da dire subito che, quando leggo le poesie di altri/e (purché bravi/e davvero) prevale un istinto di (ri)conoscenza, accompagnato dalla volontà di fare silenzio dentro di me per accogliere meglio l’esperienza verbale altrui. Quando invece scrivo in prima persona, prima si profilano uno spunto, un’ombra, l’impressione fuggevole di essere sul punto di dire o di descrivere o di raccontare qualcosa: e affiorano insomma da chissà dove le prime parole o tracce sonore. In questo caso, m’impegno a ogni costo ad acchiappare l’occasione, il rèfolo mentale, e allora posso trovarmi in qualunque circostanza o situazione, ma cerco in ogni modo di appuntarmi quella iniziale, remotissima eco sul primo supporto in cui m’imbatto, pezzo di carta ma oggi più spesso – anzi, quasi sempre – iPhone o iPad. Però, per cominciare a trarre da queste suggestioni germinali una sequenza o una possibilità di poesia in via di compimento, ho bisogno di essere nel mio antro/studio di Modena o al mio tavolo di lavoro a Bologna. E devo poter immergermi in un silenzio fisico e metafisico, oltre che in una condizione di solitudine. Infatti, l’esito/testo per il quale – dopo che i primi due versi sono venuti quasi come un dono celeste – le parole vaganti tra mente e orecchio a un certo punto si compongono in una tessitura “poetica”, cioè ritmico-musicale e assieme topico-referenziale, dipende da uno stato di concentrazione assoluta.
A quel punto, però, anche il tema della poesia, oltre alla sua dominante intonativa (ironica, assertiva, interrogativa o affermativa che sia), comincia necessariamente a prender corpo e a guidarti nella scrittura. Poi, in un tempo ancora successivo, scrivere l’intera poesia, perché sia almeno una poesia decente, è questione di lavoro, di tecnica artigianale, di tensione inventiva. E per me c’è stato a lungo (ora purtroppo non più) il rapporto fisico con un foglio e una penna stilografica, dopo la prima gittata scritta al telefonino, perché solo dopo 2 o 3 stesure riporto sul computer il testo che è venuto intanto profilandosi: da quel momento in poi le eventuali varianti (numerose e spesso dilatate nel tempo, io sono un tipo quasi sempre insoddisfatto di me stesso, anche se non lo dimostro) avranno solo una forma elettronica, andando dunque disperse. E oggi scrivo tutto, proprio tutto, dal primo spunto che rimbomba lungo il delicatissimo passaggio che unisce cervello e canale uditivo fino a una prima versione già destinabile a facebook, sul mio smartphone…
Immagine di copertina: Fons Heijnsbroek, Gratitude for life
L’articolo Una piccola storia ignobile che devo raccontare. proviene da ytali..