È l’estate del 1868, a Wilhelmshaven sul Mar del Nord, a pochi chilometri da Brema, tre giovani musicisti sono in gita, per vedere il cantiere prussiano per la costruzione di un porto militare.
Sono Albert Dietrich, allievo di Robert Schumann, Karl Reinthaler, direttore del coro e organista della cattedrale di Brema, e Johannes Brahms, da poche settimane reduce da un successo straordinario per la prima esecuzione del suo “Requiem Tedesco” (Ein deutsches Requiem).
Sarà Dietrich a raccontare che, in una pausa della visita, Brahms, che aveva portato da Brema un volumetto con delle liriche di Hölderlin, si apparta e comincia a scrivere, concentratissimo, appunti su appunti, tutti sulla lirica Hyperions Schicksalslied (“Canto di Iperione e del Destino”). Poco dopo chiede agli amici di rientrare in città per poter continuare a lavorare.
Nessuno poteva immaginare che la conclusione della composizione dello Schicksalslied op. 54 sarebbe avvenuta oltre due anni dopo la gita al porto. Dubbi, ripensamenti, difficoltà di ogni tipo bloccarono Brahms per mesi interi. Per un verso, il compositore amburghese aveva sempre scelto per le sue opere vocali testi di poeti minori, spesso semplici traduzioni di canti popolari anonimi. “La grande poesia non è musicabile”, diceva.
Le sole eccezioni a questa regola nella produzione musicale di Brahms le troviamo in composizioni che si collocano intorno alla realizzazione del Requiem Tedesco. Sono la Alt-Rhapsodie op. 53, la Nänie op.82 e il Gesang der Parzen op. 89, su testi di Goethe e Schiller.
D’altra parte, nella storia della musica tedesca, nessuno aveva mai avuto l’ardire di mettere in musica un testo di Hölderlin. Neppure il sommo Schubert, che negli oltre cinquecento Lieder aveva visitato quasi ogni autore lirico, mostrando una capacità ineguagliabile (e ineguagliata) di intuire e di estrarre la musica nascosta nella struttura linguistica della poesia, aveva mai osato toccare un testo di Hölderlin. Solo Robert Schumann aveva progettato di dare il titolo An Diotima al ciclo di Lieder dell’op. 133, che poi invece, ritraendosi, chiamerà Gesänge der Frühe.
È del tutto naturale chiedersi quale sia stata la scintilla che ha fatto nascere lo straordinario interesse di Brahms per la lirica di Hölderlin. Un motivo è quasi certamente la Grecia. Il romanzo di Hyperion è ambientato nella Grecia moderna. Ma la Grecia di Hölderlin sembra avere poco a che fare con la Grecia tanto amata da Brahms. Per il poeta, si trattava della patria felice e negata, il luogo dello spirito occupato (e violentato) dalla barbarie turca, specchio infranto della Germania lontana. Luogo felice della classicità perfetta al quale si deve tornare.
Brahms certamente partecipa dell’innamoramento della cultura tedesca dell’Ottocento per la Grecia classica. Tuttavia non è un ribelle e non crede che la Germania sia un paese finito, anzi.
Stima Bismarck, è fautore della unificazione tedesca a opera della Prussia. Mai avrebbe partecipato, come Hölderlin nello Stift, insieme ai suoi compagni Hegel e Schelling, ai sogni rivoluzionari e alla esaltazione della Rivoluzione francese.
No, la scintilla per la composizione dello Schicksalslied non nasce dalla Grecia. È certamente una questione di contenuti.
Nella lirica di Hölderlin il mondo degli dei è rappresentato in contrasto estremo con il mondo degli uomini.
Camminate nella luce
Per morbide vie, Geni felici;
aliti divini d’aria luminosa
leggeri vi toccano
come dita d’artista
corde sacre
Fuori dal Fato
Come neonato che dorme
Respirano gli Immortali:
puro e protetto
in una gemma inavvertita
fiorisce eterno il loro spirito, e gli occhi felici
splendono d’una calma
chiarità senza fine.
Fino a giungere alla terza strofa, dove il mutamento è repentino, violento:
Ma a noi non è dato
Riposare in un luogo,
dileguano precipitano
i mortali dolenti, da una
all’altra delle ore, ciecamente,
come acqua di scoglio
in scoglio negli anni,
giù nell’Ignoto.
(traduzione di Enzo Mandruzzato, Adelphi)
Dal punto di vista musicale, è difficile non pensare che il contrasto poetico così violento non abbia attratto il musicista che aveva da pochi mesi composto un Requiem che proprio sui contrasti tra masse sonore e colori orchestrali aveva trovato una chiave costruttiva. Ma, come ho già detto, la nascita della idea è legata ad una obiezione fortissima sui contenuti. Ce lo dice lo stesso Brahms nella sua corrispondenza con Karl Reinthaler, nell’ottobre e nel dicembre 1871:
…Ne abbiamo parlato abbastanza; (nel Postludio) dico qualcosa che il poeta non dice e naturalmente sarebbe stato meglio se ciò che manca fosse stato per lui la cosa più importante.
Ma se tu dovessi eseguirlo, lavora soprattutto a questo Postludio. Il flautista deve suonare in modo molto espressivo, e i violini devono essere molto sonori”.
Nella seconda lettera troviamo altre indicazioni (insieme alle consuete autocritiche di maniera):
Nel Postludio, come sai non trovi nessun testo, nessun coro. Del resto non è una poesia alla quale ci si possa attaccare qualcosa. Il musicista avrebbe dovuto guardarsi dal fare considerazioni proprie. É un pezzo d’occasione, e forse, anche se si può spiegare che il poeta non dice la cosa più importante, non so tuttavia se ora si possa capirla…”
Che cosa è il “qualcosa” che Hölderlin, secondo Brahms, avrebbe dovuto dire e non dice? Quale è la “cosa più importante”? Il musicista non lo dice e sembra, con il suo ostentato silenzio, voler dire: ”Io parlo con la musica”.
Dobbiamo dare qualche spiegazione per la comprensione delle due lettere del compositore tedesco: dopo molti dubbi e ripensamenti, Brahms pubblica la versione del suo Schicksalslied con le seguenti caratteristiche:
Una composizione per coro e orchestra, nella forma di Lied corale tripartito (vari musicologi hanno voluto riconoscere altre forme, ma con inutili e poco credibili sforzi)
La prima parte della composizione si riferisce alla prima e seconda strofa della lirica di Hölderlin. Il tempo è un adagio, il coro e l’orchestra sono accompagnati dalla percussione ossessiva dei timpani. La tonalità prescelta è quella di Mi bemolle maggiore, rarissimamente usata da Brahms. La troviamo nel Requiem tedesco e nel secondo tempo della Sonata op. 78 per violino e pianoforte (un adagio dedicato al figlio prematuramente scomparso di Robert e Clara Schumann). L’atmosfera sonora è vitrea, statica, impersonale. La linea melodica (che riprendere il motivo della Jupiter) è dolce e avvolgente, senza scarti dinamici.
La seconda parte, sul testo della terza strofa della lirica, è introdotta da un accordo dissonante violento. La tonalità è il Do minore. Brahms usa ripetutamente la forma ritmica della emiola (il passaggio da due unità metriche ternarie a tre unità metriche binarie) per il coro che canta all’unisono. L’intera sezione è puntata al finale, alla parola tedesca hinab (giù). Gli archi disegnano, con un “forte” improvviso, un tessuto di alta tensione su settime e quinte diminuite. Il coro, abbandonata ogni buona educazione luterana e palestriniana, esplode in un tema fortissimo, da ballata romantica, all’unisono. La contrapposizione dei due mondi, quello degli dei immortali, di coloro che hanno il potere, dei Geni felici, e quello dei mortali dolenti è già tutta nel testo del poeta, con il contrasto tra il “voi” e il “noi” con il quale si aprono le strofe.
Il terzo tempo (Postludio). La tonalità immediatamente definita, a sorpresa, è il Do maggiore. Il tema dell’incipit del preludio, che era stato affidato ai primi violini, con il contrappunto dei flauti in terze, ora è affidato al flauto solo (legato e molto espressivo). Gli archi disegnano accordi arpeggiati sempre in pianissimo. La presenza dei timpani è sospesa, quasi a non voler velare la calma e solare serenità della composizione. Ma, soprattutto, il coro rimane sulla scena, ma silente. Il coro, fatto entrare da Beethoven con l’Inno alla Gioia, educatamente è accompagnato alla porta.
Brahms sembra voler riaffermare tutto quello che aveva conquistato nella elaborazione del Requiem tedesco.
La centralità dell’uomo, la religiosità al posto della religione (non l’ateismo, caro Massimo Mila), l’accettazione composta e forte del destino e della condizione umana, il valore salvifico della bellezza e della cultura, l’affetto intelligente per la comunità, la coscienza della complessità del reale. Questa è una visione che si contrappone a quella di Hölderlin. E’ un passaggio di grande rilevanza, una svolta che approda alla modernità, saltando ed evitando lo scivolamento nell’irrazionalismo wagneriano e la estetica della crisi e del disfacimento che segnerà, in buona misura la storia della musica e della cultura europea nel periodo a cavallo tra i due secoli.
Arnold Schönberg, in un celebre saggio (in lingua inglese) del 1947, aveva provocatoriamente esaltato il carattere “progressivo” di Brahms, bollato dai tardo-romantici e dal decadentismo come alfiere del conservatorismo, individuandone le ragioni in vari elementi strutturali della sua pratica compositiva. La developing variation, l’asimmetria ritmica (in continuità con Mozart) e la introduzione di elementi di “prosa musicale” sono apporti originali, secondo Schönberg, allo sviluppo del pensiero musicale europeo.
Stranamente non parla della capacità di Brahms di modificare la “forma musicale”, che è quello che avviene, sotto la spinta fortissima di una convinzione “filosofica”, nella composizione dello Schicksalslied. Con dubbi, con sofferenza, perché cosciente dell’enorme valore proprio della forma musicale nel processo creativo e nel suo incontro con la fruizione.
La forma nella musica serve alla comprensione attraverso la memoria. Uniformità, regolarità, simmetria, suddivisione, ripetizione, unità, relazione ritmica e armonica e persino logica, nessuno di questi elementi produce o aiuta a produrre la bellezza. Tutti però contribuiscono a determinare un’organizzazione che rende intellegibile la presentazione dell’idea musicale.
Sarà proprio il rispetto di Schönberg per la forma a provocare la condanna violenta di Boulez nei confronti della sua lezione (“Schönberg è morto”, 1952). Ma la liberazione dei vincoli della forma, dopo la liberazione dalle regole della tonalità, la liberazione dai vincoli strumentali raggiunta con l’ausilio della scienza nella creazione di nuovi suoni prodotti dai sistemi elettroacustici, fino alla liberazione dal suono con lo sdoganamento del valore espressivo del rumore (e del silenzio, J. Cage) non sembrano aver fondato le premesse per una nuova era di civiltà musicale.
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