Quel soprannome, “Rombo di tuono”, glielo aveva cucito addosso l’immaginifico Brera, definendo la sua arte pedatoria come la “furia belluina del Brenno di Leggiuno”. Era, per il Gioânn, l’alternativa esistenziale all’indolenza degli “abatini” Rivera e Bulgarelli, la quintessenza della rabbia agonistica, della resistenza fisica, della potenza esplosiva che faceva la differenza nei momenti decisivi.
Nando Martellini quasi lo accompagnò in porta la notte delle notti, durante la “Partita del secolo”, quando mise a segno il gol del 3 a 2 contro la Germania Ovest, prima del nuovo pareggio di Müller e del definitivo 4 a 3 di Rivera.
Giorgio Tosatti, commentando una sua impresa in quel di Varese, scrisse:
Questo ragazzo ventiquattrenne dal carattere non facile, la parola pronta e secca come il suo fisico asciutto e il suo modo di giocare scarno, essenziale e violento, l’ambizione aguzza, i nervi tesi l’inquietudine ombrosa del purosangue interpreta un tipo di calcio non comune da noi.
E ancora:
Il calcio italiano è abituato a giocolieri sottili, a filtratori astuti e sguscianti, a fragili ma incantevoli direttori d’orchestra. Riva è un vento di violenza. Certo ci sono palleggiatore più abili di lui, ma nessuno ha la sua prepotenza fisica e morale: è il pugile col pugno da k.o., il fighter irriducibile.
Non pensiate che non sia stato criticato, osteggiato e messo in discussione: è capitato a qualunque mito, specie in Italia, e lui non faceva eccezione. Fatto sta che pochi centravanti sono divenuti ugualmente iconici, pochi campioni sono stati amati dalla gente a quel livello, nei confronti di nessun altro si ricorda una simile, viscerale passione di popolo, al punto che in certe case della Sardegna, accanto alle foto di famiglia, c’era la sua.
Del resto, oggi è difficile spiegare come possa un calciatore rifiutare la cifra monstre che Gianni Agnelli era arrivato a offrire pur di portarlo alla Juve.
Tutti quei soldi per un giocatore – affermò – mi sembrano un affronto alla povertà. No, resto in Sardegna.
Conoscendone la personalità, però, non è sorprendente.
Nativo di Leggiuno e orfano di madre, Riva aveva trovato in una terra disperata, scelta come una sorta di confino per i reprobi, anche al ristabilimento della democrazia, la propria ragione di esistere. Sapeva che a Cagliari sarebbe stato adorato a prescindere, per sempre, anche se avrebbe vinto assai meno di quanto avrebbe potuto vincere indossando la maglia di uno degli squadroni del Nord. Nessuno, tuttavia, poteva negare la Nazionale a un simile portento, tanto che tuttora, nonostante i gravissimi infortuni patiti, detiene il record di reti segnate (trentacinque) in maglia azzurra.
Dei Mondiali messicani abbiamo già detto. È bene, invece, mettere in risalto un episodio avvenuto all’Amsicora il 15 marzo del ’70, durante la sfida scudetto con la Juventus. Non sapendo più come protestare con il signor Lo Bello per una decisione arbitrale discutibile, lo insultò in maniera furiosa. E questi, senza scomporsi, gli rispose: “Pensa a giocare”. Sapeva, del resto, che se avesse espulso Riva in una sfida del genere, sarebbe esplosa la Sardegna, ma non crediate che si trattò di una decisione semplice, essendo anche Lo Bello un uomo dal temperamento forte e dal carattere maledettamente orgoglioso.
Erano gli anno degli Arrica, degli Scopigno, dei magnifici autogol di Niccolai, delle parate di Albertosi e della semplice grandezza di una squadra assemblata con pochi soldi, molta inventiva e qualche intuizione geniale, divenuta il simbolo del riscatto sociale di una regione abituata alla miseria e all’isolamento.
Non poteva andar via, per nessuna cifra, per il semplice motivo che in quell’universo fatto di pastori, banditi e autentica desolazione aveva trovato la sua missione: donare gioia agli ultimi, rendere possibile l’impossibile, favorire la riscossa dei dannati.
Ebbe un ruolo decisivo anche nella conquista del Mondiale del 2006, dopo essere riuscito, negli anni precedenti, nell’impresa di far rigare dritto, almeno in azzurro, persino Cassano, di cui riconosceva il genio e sapeva domare la follia.
Settantanove anni, il volto segnato dalla fatica, dagli affanni e dalle prove che certo la vita non gli aveva risparmiato.
Se ancora riusciamo a credere in un’idea di giustizia, nell’utopia di Davide che sconfigge Golia e nei sogni che possono diventare realtà, è anche merito suo.
L’articolo Gigi Riva, il senso di una storia proviene da ytali..