“Non dev’essere per forza così”, ripete spesso Kamala Harris riferendosi al tipo di futuro che il suo avversario rappresenta per il paese. La domanda che sorge spontanea, ma che non viene posta e non riceve risposta, è – innanzitutto – come sia potuto accadere “così”. L’attuale clima politico/sociale negli Stati Uniti potrebbe dare l’impressione d’essere nato, come all’improvviso, come risultato dello stile di campagna elettorale e di leadership di Donald Trump, ma così gli si darebbe fin troppo credito. La verità è che il palcoscenico è stato preparato per Trump nel corso di decenni, con una serie di eventi che hanno provocato un lento ma inesorabile deterioramento del rispetto e della fiducia in due istituzioni fondamentali della vita politica americana: i media e il governo stesso.
La cultura politica americana subì un duro colpo con lo scandalo Watergate. Eppure, nonostante il trauma di quell’evento per la nazione, a quel tempo c’era una vera e propria riverenza per l’ufficio della presidenza, e forse ancora di più per i media. Si pensi al successo del libro Tutti gli uomini del presidente e alla sua versione cinematografica, che rese i giornalisti degli eroi per aver scoperto lo scandalo. Giornali come il New York Times e il Washington Post erano rispettati e considerati una parte vitale del sistema, così come i telegiornali serali.
I bambini americani erano cresciuti con l’orgoglio della democrazia costituzionale della nazione, della divisione dei poteri governativi progettata per mantenere l’equità e i “controlli e contrappesi”, e forse soprattutto della separazione che sembrava inviolabile tra chiesa e stato. Fu quest’ultimo, fondamentale aspetto del modello di governo della nostra nazione a cadere per primo.
Gli anni Ottanta videro l’ascesa del gruppo di Jerry Fallwell, la Moral Majority. Rappresentò la prima rottura nel principio di governo strettamente laico. Non c’era mai stato prima un gruppo apertamente religioso che legasse esplicitamente il suo programma a uno specifico partito politico. E così si trovarono completamente abbracciati al Partito repubblicano. Successivamente, la Moral Majority svanì con la fine della presidenza Reagan; tuttavia, il muro tra chiesa e stato fu definitivamente rotto.
Nel giro di pochi anni, la presidenza di Bill Clinton, che fu definito l’”uomo della speranza”, mise in scena la successiva grande violazione della fiducia pubblica. Il Congresso repubblicano, guidato dal presidente della Camera Newt Gingrich, produsse un documento noto come “Contratto con l’America”. È il primo documento ad accogliere e a promuovere l’idea secondo cui il governo stesso sia il vero problema. Fino ad allora il tema dominante nella politica americana era che il governo dovesse essere la soluzione, il soggetto responsabile di affrontare i problemi che riguardano tutti gli americani, la leva principale per correggere le ingiustizie e guidare il paese nella giusta direzione. Gingrich et al hanno distrutto questa nozione, attaccando l’idea che ci si possa fidare del governo, a meno che non sia nelle mani di certe persone.
Con la presidenza di Clinton si assiste poi alla distruzione di un altro pilastro della politica statunitense: il rispetto e la reverenza per la carica del Presidente. La bassezza degli attacchi agli affari di Clinton, al suo giro di amici e al suo stesso carattere, incarnati dal voluminoso Rapporto Starr sui rapporti libertini del presidente con una giovane stagista, hanno intaccato la patina di riverenza per la carica.
The election for Clinton’s successor led to another fundamental element of US political life being thrown into doubt, this time the electoral system itself. The controversy over the outcome of the 2000 vote, the scene of (paid, organized) protesters storming an election office in Florida, and the eventual awarding of the election to George W. Bush by the US Supreme Court drove a stake through the heart of the public’s trust in what may be our most important institution of all: the vote. Gore may have conceded the election peacefully, but the idea that the presidency had not been decided by the clear “will of the people” but rather by lawyers and courts poisoned the well of public trust – again, permanently.
Bush’s war in Iraq certainly drove a wedge between Americans (if you were against the war then you didn’t “support the troops”, or worse, you were “giving aid and comfort to the enemy”). However, it was John McCain’s presidential campaign that took a sledgehammer to that wedge, deepening the divide in a new and destructive way. His slogan, “Country First”, ran counter to the years of American intervention in foreign affairs around the world, not to mention the notion of the US as a “shining beacon” on the hilltop, a model of democracy and inclusion for the world to admire and emulate. But it was his choice of Sarah Palin as a running mate that pushed the nation’s divide into uncharted territory.
L’elezione del successore di Clinton metterà in dubbio un altro elemento fondamentale della vita politica statunitense, questa volta il sistema elettorale stesso. La controversia sull’esito del voto del 2000, la scena dei manifestanti (pagati e organizzati) che prendono d’assalto un ufficio elettorale in Florida e l’assegnazione infine della vittoria elettorale a George W. Bush da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti piantano un paletto nel cuore della fiducia del pubblico in quella che potrebbe essere la nostra istituzione più importante di tutte: il voto. Gore avrebbe potuto concedere l’elezione pacificamente, ma l’idea che la presidenza non fosse stata decisa dalla chiara “volontà del popolo”, ma piuttosto da avvocati e tribunali avvelena il pozzo della fiducia del pubblico, ancora una volta in modo permanente.
Sarah Palin was the first to promote the notion that there were “real Americans”, and conversely, everyone else, who were by inference not true Americans. Furthermore, the image she powerfully and successfully projected was of a very specific type of person – people who looked and thought like her and her family. Aggressively pro-gun (recall her shooting wolves with a high-powered rifle from a helicopter), pro-Christian and anti-science/fact, Palin introduced a new model for US politicians that was on one hand wholly superficial, and on the other profoundly divisive. Palin’s rhetoric set the stage for legitimizing the wholesale dismissal of large segments of the nation’s population as somehow being other, less deserving, and even threatening.
Sarah Palin è la prima a promuovere l’idea che ci siano “veri americani”, al contrario, tutti gli altri, che per inferenza non erano veri americani. Inoltre, l’immagine che proietta con forza e successo è quella di un tipo umano molto specifico: persone che sembrano e pensano come lei e la sua famiglia. Aggressivamente a favore delle armi da fuoco (ricordate quando sparava ai lupi con un fucile ad alta potenza da un elicottero?), pro-cristiana e anti-scienza/fatti, Palin introduce un nuovo modello per i politici statunitensi, da un lato del tutto superficiale, dall’altro profondamente divisivo. La retorica di Palin ha preparato il terreno per legittimare la liquidazione di ampi segmenti della popolazione della nazione ritenuti in qualche modo diversi, meno meritevoli e persino minacciosi.
At the same time, the candidacy of Barack Obama produced another major breach in our political culture. The so-called “birther” movement, which questioned the legitimacy of Obama’s birth certificate – and therefore his status as a real American, was the first time a presidential candidate was attacked on the basis of his race. Here it must be acknowledged that even John F. Kennedy was questioned for being Catholic (another sign of how much things have changed in the decades since), and Mike Dukakis’ Greek heritage was a topic during his campaign, the challenging of Obama’s citizenship and American-ness went far beyond those incidents. It is also necessary to recall one of the major forces behind this nativist attack – Donald Trump.
Allo stesso tempo, alla candidatura di Barack Obama è seguita un’altra importante breccia nella nostra cultura politica. Il cosiddetto movimento “birther”, che ha messo in discussione la legittimità del certificato di nascita di Obama – e quindi il suo status di vero americano, conditio sine qua non per accedere alla presidenza degli Usa – è stata la prima volta in cui un candidato presidenziale è stato attaccato sulla base della sua razza. A questo proposito, bisogna riconoscere che persino John F. Kennedy fu messo in discussione per il fatto di essere cattolico (un altro segno di quanto le cose siano cambiate nei decenni successivi). E se l’ascendenza greca di Mike Dukakis era diventata un tema durante la sua campagna, la sfida alla cittadinanza e all’americanità di Obama è andata ben oltre quegli incidenti. È anche necessario ricordare una delle principali forze dietro questo attacco nativista: Donald Trump.
I primi mesi della presidenza di Obama producono un altro momento spartiacque nel decadimento della fiducia dell’America nelle sue istituzioni: il cosiddetto movimento “Tea Party” (TEA era un acronimo di Taxed Enough Already, già abbastanza tassati). Il Tea Party si presenta come una spontanea reazione popolare alle politiche fiscali oppressive del nuovo presidente democratico. Ciò è sostanzialmente accettato acriticamente dai media e dal pubblico, nonostante il fatto che il movimento non potesse vantare un bel niente su quel terreno. In realtà, non è che una coalizione di politici ben pianificata e ben finanziata, e le politiche fiscali per cui si dicono presumibilmente così arrabbiati sono in realtà quelle del predecessore di Obama, George W. Bush. Era letteralmente impossibile per Obama avere avuto alcun effetto sulla politica fiscale nei primi tre mesi della sua presidenza, ma questo non sembrava avere importanza. Ripensate per un momento al Contratto con l’America. L’impatto immediato del Tea Party dimostra che l’idea che il governo, in particolare nelle “mani sbagliate”, sia il problema si è radicata nella cultura americana.
Così, quando inizia la campagna presidenziale del 2016, gran parte della fede e della fiducia dell’America nel suo governo e nelle sue istituzioni è gravemente minata.
Durante i decenni di questo decadimento, i media in America hanno sperimentato una frattura simile e senza precedenti. Gli americani di una certa età possono ancora ricordare nomi come Walter Cronkite, Dan Rather, Tom Brokaw, Bob Woodward e altri. La nazione si fidava di loro per come trasmettevano le notizie in modo intelligente, imparziale e, per quanto possibile, accurato. Prima degli anni Ottanta e dell’introduzione di Fox News, non si sospettava mai che i media avessero pregiudizi di parte. Fox News ha di proposito cambiato tutto, per sempre.
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