Cosa accade se due candidati alla presidenza ottengono lo stesso numero di grandi elettori al Collegio Elettorale? Se nessun candidato dovesse raggiungere la maggioranza dei 538 grandi elettori – vale a dire i famosi 270 voti – la scelta del presidente passerebbe alla Camera dei Rappresentanti. Questo presuppone, naturalmente, che tutti i grandi elettori rimangano fedeli al loro candidato, cosa che però non è garantita. Non tutti gli stati, infatti, prevedono sanzioni per i cosiddetti “grandi elettori infedeli.”
Qualora tutti i grandi elettori si dimostrassero leali, la Camera dei Rappresentanti voterebbe per scegliere il presidente, mentre la nomina del vicepresidente spetterebbe al Senato, con modalità di voto differenti per ciascun ramo. I senatori, infatti, voterebbero a maggioranza semplice per eleggere il vicepresidente tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di grandi elettori.
Per quanto riguarda la Camera, la votazione avverrebbe su base statale, con ciascuna delegazione statale che dispone di un solo voto. Ad esempio, la delegazione del Texas, composta da 38 deputati – di cui 25 repubblicani, 12 democratici e un seggio vacante – esprimerebbe un voto repubblicano, riflettendo la maggioranza della sua rappresentanza. Per vincere, un candidato deve ottenere almeno 26 delegazioni, ossia la maggioranza assoluta delle delegazioni statali. Se nessun candidato raggiunge la maggioranza, le votazioni proseguono finché un candidato non prevale. Nel caso in cui l’impasse continuasse fino alla data d’insediamento, il 20 gennaio, il vicepresidente eletto dal Senato assolverebbe le funzioni di presidente fino a quando la Camera non eleggerà ufficialmente un presidente.
La Camera può scegliere tra i tre candidati che hanno ottenuto il maggior numero di grandi elettori; quindi, se solo due candidati possiedono voti elettorali, la votazione si svolge tra di loro. Il meccanismo previsto dal Dodicesimo emendamento è pensato soprattutto per risolvere situazioni con tre o più candidati competitivi, in cui nessuno raggiunge la soglia dei 270 voti.
In teoria, è possibile che il presidente e il vicepresidente appartengano a partiti diversi, dato che la loro elezione dipende da due rami del Congresso che potrebbero non condividere la stessa maggioranza.
Perché un pareggio tra i candidati possa essere risolto in modo regolare, è necessario arrivare al 6 gennaio, data di certificazione del voto, senza che i grandi elettori cambino preferenza. Qui entra in gioco il concetto di lealtà dei grandi elettori. Infatti, non esiste una legge federale che obblighi i grandi elettori a votare per il candidato per cui sono stati eletti. Alcuni stati hanno previsto sanzioni o persino la sostituzione del grande elettore in caso di infedeltà, ma questa regolamentazione varia.
In generale, i grandi elettori rispettano il voto popolare, anche se occasionalmente ci sono delle eccezioni. Pochi sanno che i risultati finali, di fatto, includono talvolta qualche “voto infedele.” Nel 2016, ad esempio, Donald Trump ha ottenuto formalmente 306 grandi elettori e Hillary Clinton 232, ma il conteggio finale è stato di 304 contro 227, a causa dei voti di alcuni elettori non allineati con il candidato del proprio partito. Alcuni di questi voti sono andati a figure come Colin Powell, Bernie Sanders, John Kasich (rivale di Trump in campo repubblicano), Ron Paul e all’attivista nativa americana Faith Spotted Eagle. Nel 2020, invece, tutti i grandi elettori hanno rispettato le preferenze assegnate.
In una situazione di perfetta parità, è facile immaginare che le pressioni su quei grandi elettori che non rischiano sanzioni per infedeltà sarebbero particolarmente intense.
Per quanto riguarda l’attuale situazione al Congresso, il Senato vede una maggioranza democratica con 51 voti (47 democratici e 4 indipendenti che votano con i democratici), mentre i repubblicani hanno 49 voti. Alla Camera, i repubblicani controllano 26 delegazioni statali contro le 22 dei democratici, con due delegazioni – quelle di Minnesota e North Carolina – suddivise al loro interno equamente tra i due partiti.
Va ricordato, tuttavia, che in caso di pareggio, non sarebbero i deputati e i senatori attualmente in carica a decidere il nuovo presidente e vicepresidente, ma il Congresso successivo.
Al Senato, si prevede un cambio di maggioranza a favore dei repubblicani, che dovrebbero conquistare almeno due seggi senza perderne altri. Va ricordato che non tutti i seggi del Senato sono in palio a ogni elezione, poiché un terzo dei senatori viene rinnovato ogni due anni. Tra i seggi che i repubblicani potrebbero guadagnare, ci sono quello del West Virginia, dove il senatore democratico e poi indipendente Joe Manchin si è ritirato, e quello del Montana, attualmente occupato dal democratico John Tester. Resta in bilico anche il seggio dell’Ohio, detenuto dal democratico Sherrod Brown.
L’elezione alla Camera, invece, è caratterizzata da una maggiore incertezza. Tutti i 435 deputati vengono eletti ogni due anni, e al momento i repubblicani detengono una maggioranza di 220 seggi contro i 212 dei democratici. Secondo i sondaggi, entrambi i partiti possono contare su circa 207 seggi sicuri, mentre restano in palio 21 seggi, inclusi alcuni in stati chiave come la California e New York, dove i repubblicani rischiano di perdere terreno. È quindi probabile che il prossimo presidente si trovi con un Congresso diviso, con una maggioranza diversa tra Senato e Camera.
E cosa accadrebbe in termini di delegazioni statali? I sondaggi per la Camera indicano che i repubblicani sarebbero favoriti, ottenendo il controllo di 28 delegazioni statali, mentre i democratici ne avrebbero 18. Vi sarebbero inoltre quattro delegazioni con margini troppo ristretti per determinare un vincitore certo, mentre la delegazione del Minnesota dovrebbe rimanere divisa tra i due partiti.
È possibile un pareggio tra Harris e Trump? Anche se i sondaggi lo considerano improbabile, non si tratta di uno scenario impossibile. Per Kamala Harris, la strategia più semplice per vincere le elezioni sarebbe riconquistare il cosiddetto “Blue Wall,” composto da Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, stati tradizionalmente democratici che hanno sostenuto Trump nel 2016, ma che sono tornati democratici nel 2020.
In questo scenario, Trump vincerebbe gli altri stati in bilico, come North Carolina, Georgia e Arizona, tutti tradizionalmente repubblicani, anche se Arizona e Georgia sono passati a Joe Biden nel 2020. Attualmente, Trump è in vantaggio in questi stati secondo i sondaggi. Il candidato repubblicano risulta avanti anche in Nevada, uno stato tradizionalmente democratico ma notoriamente difficile da sondare.
Se questo fosse il quadro finale, si arriverebbe a un pareggio di 269 a 269 grandi elettori. A fare la differenza potrebbero essere stati come il Nebraska, tendenzialmente repubblicano, e il Maine, generalmente democratico. In questi due stati, i grandi elettori non vengono assegnati interamente al candidato vincitore del voto popolare, come avviene altrove, ma seguono un sistema misto. Generalmente, i grandi elettori di uno stato vengono assegnati tutti al candidato che ottiene la maggioranza del voto popolare. Ad esempio, se Harris ottenesse il 49,8% dei voti in Michigan e Trump il 49,6%, Harris conquisterebbe tutti i 15 grandi elettori del Michigan.
In Nebraska e Maine, però, la distribuzione è diversa: due grandi elettori vengono assegnati al vincitore del voto popolare nello stato, mentre i rimanenti vengono distribuiti in base ai risultati nei singoli distretti congressuali (due distretti nel Maine e tre in Nebraska). Secondo i sondaggi attuali, in Maine tre voti andrebbero a Harris e uno a Trump, mentre in Nebraska quattro grandi elettori sarebbero per Trump e uno per Harris.
Non dovrebbero esserci sorprese su questi risultati. Tuttavia, se Harris dovesse perdere il grande elettore nel distretto di Nebraska e Trump mantenesse il suo nel Maine, si arriverebbe effettivamente a un pareggio.
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