La moglie di Bebo è una signora veramente squisita, terzogenita di una famiglia illustre il cui padre ingegnere fu tra i fondatori dell’Istituto universitario di Architettura di Venezia, da una chiacchiera piacevole e infinita alla quale ancora oggigiorno mi rivolgo per il solo piacere di sentire le sua voce tintinnate e irrefrenabile che mi ragguaglia sulle vicende più intime a personali della mia patria lontana: Venezia, ma soprattutto tiene l’elenco dei morti tra gli intimi che mi furono amici.
Non mi risulta che tra questi ci sia SS che è l’acronimo di un carissimo non veneziano che può ben dirsi alla fine tra i più autentici e permeati ambientali veneziani, talmente veneziano da risiedere ancora nella bella provincia di Treviso.
SS non credo nacque a Venezia e comunque ci giunse abbastanza presto al seguito di un padre che fu un dirigente di non so quale istituzione. Anche lui come la moglie di Bebo Adriana, terzogenito di quattro fratelli.
Tra gli amici era quello più dotato senza dire di che cosa ma non era certo inferiore la simpatia che promanava dalla sua persona specie nei confronti del pubblico femminile. Anche lui apprese spontaneamente il veneziano che sempre parlavamo tra noi nonostante fosse in famiglia un perfetto marchigiano.
Parlo di SS a proposito di un aneddoto sul quale rifletterò in termini di struttura.
Ricordo che un giorno io con degli amici scendevamo con SS dal ponte dell’Accademia verso le Zattere, vero luogo “cult” allora di stazionamento intellettuale. SS si scusò con noi e precipitosamente scese il ponte e prese la destra dell’Accademia delle Belle Arti correndovi intorno. Noi lo perdemmo subito di vista e ci chiedemmo come mai fosse fuggito. Era questa come ci spiegò una sua strategia d’abbordaggio.
Aveva visto precederci dalla cima del ponte dell’Accademia e andare verso le Zattere lungo la “salizada” a sinistra dell’Accademia una sua bella corteggiata.
Accelerando il passo o addirittura correndo e riuscendo dalla calle si sarebbe presentato a lei, dopo aver preso fiato, come per incontro fortuito e così avrebbe iniziato un piacevole conversare prendendo ora la sua strada accompagnandola!
Girando intorno a quell’abitato solenne con un gomito di calle avrebbe aggirato l’ostacolo e si sarebbe presentato come un fante della sorte, il che dal punto di vista seduttivo, non guasta!
Sarebbe ciò possibile in un’altra configurazione urbana che non fosse Venezia? Ne dubito. Gli isolati urbani sono di solito enormemente estesi al punto di non poter configurare un cerchio ridotto.
In Venezia i circuiti abbondano.
Se si procede in Venezia davanti a sé è facile, che lo si voglia o no, descrivere un circuito più o meno esteso, disteso o dilungato. Se ciò non accade si dovrà ritornare sui propri passi voltarsi e retrocedere.
Dove è giocoforza in Venezia arrestarsi? Sono due le situazioni d’arresto possibili. O ci si trova l’acqua di fronte, il che capita anche volendolo assai meno di quanto non lo si possa comunemente pensare, come dire che non ci si può che buttare in acqua per proseguire. O ci si trova in una di quelle calli che io comunemente insieme a tutti quelli che conosco di veneziani chiamiamo una calle morta, come dire un “cul de sac”, o si prosegue fino a ritornare sui nostri passi per immettersi in un altro circuito possibile.. Ovviamente la chiusura delle calli morte non è totale ma distingue il privato dal pubblico percorribile, nel senso che ci si trova davanti a delle porte chiuse d’ingresso, a delle case abitate da gente che non si conosce.
Al riguardo non posso non citare il caso mio personale.
Abitavo nella fondamenta Contarini a San Stin. La fondamenta si chiudeva con l’entrata di una dimora con giardino che frequentavo da ragazzo per essere amico dei Barozzi, una vera famiglia nobile patrizia che quasi mi volle come un figlio per il forte legame che ebbi con Cristiano. Questa splendida e originale dimora che è ora un albergo pensione di alta gamma e che pare possa aver ospitato Mahler, fu costruita su di un modello inglese nel giardino allato del bel più vecchio palazzo gotico sul rio.
Si entrava usualmente in questa dimora dalla parte della fondamenta, ma questa casa aveva anche un’uscita in una calle morta che si chiama Soranzo dal nome della famiglia patrizia che abitava il palazzo un tempo con quel giardino. La servitù entrava più spesso dalla porta secondaria della calle che non dalla fondamenta. Ma non si ferma qui l’osservazione. La casa da me abitata ed ora affittata da un letterato scrittore in voga, che dal mio punto di vista è un emblema di maleducazione oltre che di luoghi comuni banalmente strutturati sul tema Venezia. Questa casa fu ricostruita rispettando in pieno i volumi dell’edifizio presentemente abbattuto come si può vedere perfettamente dal quadro del Bellotto, ma è all’interno topologicamente una vera bottiglia di Klein nel senso di essere rivoltata nelle sue proprie spire
Il piano di mezzo di questa casa è il piano nobile ed ha una sua propria entrata esclusiva dalla parte della calle di cui parlo altrove a proposito di una consuetudine significativa della mia famiglia. Da questo piano nobile si può però accedere alle scale comuni che portano agli appartamenti primo e terzo. Avendo abitato il terzo piano però so di una porta murata in fondo al corridoio che portava al piano di mezzo cioè quello nobile. Insomma i piani secondo e terzo erano intersecati tra loro e solo il primo piano poteva dirsi a sé stante. Stabilire che cos’è interno e che cos’è esterno sia per l’edificazione che per il costume è assai difficile per Venezia, per quest’insieme di morte e circuizione vitale ch’è quel modello che prende il nome di labirinto.
Sono rare quelle vie o meglio che si concludono nel precipizio o nel favore dell’acqua, più rare di quanto non viene fatto pensare.
Venezia non è a picco sull’acqua ma è perfettamente intrisa della sua laguna. L’acqua viene di continuo costeggiata e gemellata dalle fondamenta emerse e costruite che ne guidano i contorni e si affidano al passeggere. Valgano come esempio le Fondamente Nuove che consentono un circuito intorno dalla Calle del Vento fino alla calle delle Capuccine in vista dell’Arsenale, che è peraltro percorso da una fondamenta sospesa che affianca le mura e porta in una delle zone più anomale di Venezia: le Casermette.
Si può ritornare insomma sui propri passi percorrendole tutte rientrando per la Barbaria dele Tole in uno dei tanti accessi possibili verso quel nord dell’arcipelago di Venezia che si affaccia sull’isola dei morti San Michele e Murano.
Venezia come un labirinto è fatta di budelli ciechi e circuiti vitali.
Un labirinto o forse meglio il labirinto di tradizione, occulta o palese che ne sia l’essenza, si conclude in due modi soltanto o uscendone o attingendone il centro cioè il cuore premiale o fatale…
Ma non è il tema spaziale quello fondante la metafora di una vita o via labirintica. La più parte delle persone pensa che il labirinto sia una faccenda che concerne la vista. Se così fosse non vi sarebbe alcun labirinto costruito. Se si potesse vedere sempre diritto avanti a sé, che così procede la vista, saremo posti dinanzi a un tunnel di cui l’uscita che s’intravvede non può che rimpicciolirsi per la distanza dall’esito senza venir meno alla promessa di una soluzione che sia il fuoriuscire dal tunnel in cui ci si trova. Ma non è certo così il vivere dell’organico la cui sola garantita durata è quella del replicarsi virus od organismo che sia. La sola esperienza organica della rettitudine è quella per gli umani del filo a piombo che tutto il resto curva inesorabilmente come le traiettorie dell’universo e quella stessa luce che promana da una sorgente. E’ l’inorganico soltanto, a una certa scala peraltro, che ci mostra la rettilinearità come nei cristalli e con essa la simmetria dello stare e del permanere.
Tutto nel vitale che siamo sembra condurre alla deviazione e al “clinamen”.
Venezia è l’evidenza in ogni suo tratto di questa commistione vitale di curvo e riflesso.
Per attingere le stesse gioie dell’Eros e replicare l’orgasmo dobbiamo circuitare la preda come fece l’amico SS quel giorno.
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