Diego, venezuelano, ed Elena, catalana, partono da Barcellona per trasferirsi negli Stati uniti e iniziare una nuova vita nella terra delle opportunità. All’aeroporto di New York (Newark), però, sono fermati ai controlli e sottoposti dagli agenti della dogana a un interrogatorio estenuante, per cercare di scoprire se la coppia ha qualcosa da nascondere.
È questa, in breve, la storia di Upon Entry – L’arrivo, di Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez, film indipendente che ha riscosso un grande successo di critica e pubblico e che a febbraio è uscito nelle sale italiane (molte le recensioni, tra le migliori quelle di HuffPost e Cinematographe). È stato definito una pequeña joya, una perla; è un thriller psicologico, una storia d’amore e un film di denuncia politica, ispirato dalle esperienze dei registi, dei loro familiari e amici. Upon Entry ha collezionato candidature e vittorie in numerosi festival in Europa e nel mondo, come Tallinn, Malaga e Calcutta, ai premi Gaudí del cinema catalano, ai Goya; e sono tre le candidature ai prestigiosi Film Independent Spirit Awards che si consegnano in California prima degli Oscar.
Il successo del film si deve ai temi trattati, una storia d’amore che si intreccia alla drammatica e purtroppo sempre attuale questione dell’immigrazione, e alla eccellente qualità della sceneggiatura e della regia di Rojas e Vásquez, della recitazione degli attori principali, Alberto Ammann e Bruna Cusí, e anche del montaggio attento e preciso, ritmato e ben orchestrato, non per niente una delle candidature agli Spirit Awards, opera di un italiano, Emanuele Tiziani.
Emanuele, parliamo della genesi di questo film?
Alejandro e Sebas sono amici e colleghi di lavoro da tanto, la prima volta che mi hanno parlato di Upon Entry, circa otto anni fa, era solo un’idea. E quando mi hanno fatto leggere la sceneggiatura, mi è piaciuta subito. Una cosa che non è scontata, perché la lettura di una sceneggiatura è molto schematica, sono dialoghi e poche informazioni su ciò che accade nella scena; oltretutto, parliamo di un film che si svolge in una stanza. Ma era scritta benissimo, trasmetteva già le emozioni che hanno reso Upon Entry il film che è, e mi è piaciuta moltissimo. Tanto a me quanto a Carles Torras: era perfetta per un produttore di cinema indipendente come lui. È stato proprio un colpo di fulmine. Anche per gli attori, che dopo averla letta se ne sono subito innamorati.
Ci sono voluti diversi anni per arrivare dall’idea al film…
Nel cinema, soprattutto indipendente, è così, chi crea contenuti lo sa: nel momento in cui senti una storia e la scrivi, sai anche che dovrai tenere duro, restare aggrappato a quell’idea per anni, finché non finisce il processo di raccogliere i fondi, e poi girare e montare…
Hai detto che da subito gli attori se ne sono innamorati?
Sì, è così. Vale in primo luogo per Alberto Ammann. Nel ruolo della coprotagonista poi c’è Bruna Cusí. Sono entrambi premi Goya, che lui ha vinto per Cella 211, mentre lei con Estate 1993, due bellissimi film. Alberto è famoso poi internazionalmente per la sua partecipazione in Narcos. Il cast si conclude con altri due bravissimi attori, nel ruolo dei poliziotti americani: Ben Temple, di New York ma che da tempo vive a Madrid, e Laura Goméz, conosciuta per Orange is the new black, che interpreta la poliziotta di origine latine. Tutti gli attori hanno fatto uno sforzo, un investimento per lavorare in questo film.
E da lì poi, come si è proceduto?
Si è partiti con la pre-produzione, che include anche prove con gli attori. Quindi ci sono state le riprese, alle quali non ho partecipato, come invece avevo fatto con il mio precedente film El praticante prodotto da Netflix; la presenza del montatore sul set è utile perché monti il girato del giorno prima e il regista ogni sera può capire se funziona quello che sta facendo, vede l’evoluzione dei personaggi, controlla che sia tutto a posto. Però è qualcosa che si possono permettere le produzioni più grosse, nel cinema indipendente questo non accade spesso. Quindi sono intervenuto solo dopo le riprese, che sono durate diciassette giorni. E abbiamo cominciato a montare.
Com’è stata l’esperienza di montaggio?
Per me, molto forte, perché gli attori sono stati bravissimi. Ogni giorno vedevo materiale che funzionava, non sapevo cosa scartare, tutto era di un livello molto alto, idee molto chiare sviluppate nella pre-produzione. I tantissimi primi piani danno una vicinanza coi personaggi, ti sembra di stare lì con loro, anche come montatore. E poi il film è stato girato con due macchine da presa, quindi per ogni sequenza di dialogo avevo sia chi parlava sia chi ascoltava, una cosa non ovvia e che non succede spesso, perché richiede un sistema di illuminazione più complesso; però i registi l’hanno voluta fare, per catturare i momenti essenziali. E funziona. Prendo ad esempio la scena in cui viene alla luce ciò che Diego teneva parzialmente nascosto e vediamo Elena che ascolta, con questa lunga inquadratura su di lei: sono momenti che gli attori vivono appieno e non si può pretendere che per molte volte di fila sentano le stesse emozioni, quindi riuscire a girare con più macchine da presa significa avere più probabilità di captare quei momenti. E questo è un gran regalo, per il montatore e per il film, ma suppone anche un gran daffare, perché più materiale buono hai più devi capire cosa scegliere e come metterlo assieme.
Hai detto prima che questa sceneggiatura ti aveva emozionato, ti va spiegarmi perché?
Mi sembrava magico riuscire a parlare di una storia d’amore dentro a un non luogo com’è un aeroporto, addirittura dentro alla saletta dove si fa un interrogatorio, che è la cosa più bruta che ci possa essere. E poi il fatto che si possa mettere in dubbio un amore per un momento non chiaro della storia dei due, semplicemente perché c’è qualcuno che prende quell’elemento e lo decontestualizza: togliere verità e bellezza all’amore, questo è quello che fanno i poliziotti nel film. Questa la parte più emozionale. C’è poi la parte più politica.
Un aspetto molto forte, che non lascia indifferenti. Alberto Ammann, in un’intervista, ha raccontato che le persone, dopo avere visto il film al festival SXSW in Texas, si avvicinavano per chiedere scusa…
La questione politica del film è molto importante. Ho portato dentro di me una sensazione, da quando ho letto la sceneggiatura a quando ho montato il film e adesso che stiamo raccogliendo i frutti, cioè che la storia di Upon Entry non uscisse solo dal desiderio di creazione, ma dal desiderio di parlare di un argomento. Ed è bello quando, lavorando, senti che è importante il messaggio che vuoi dare; qualcuno ha avuto il coraggio di scriverlo e di metterlo in piedi, la bravura di metterlo in piedi in una certa maniera, e ti senti partecipe di un messaggio che vale la pena diffondere, perché è importante che la gente lo ascolti. Non dimentichiamo che è sempre più facile empatizzare con certe realtà quando le vediamo da vicino, quando ci fanno emozionare. Capita quando qualcuno ti racconta la propria esperienza personale, e il film secondo me si avvicina a questo. I registi ci hanno messo la loro parte di vita personale, alcune esperienze sono loro, altre di parenti o amici; non si sono lasciati andare a costruzioni fantomatiche perché lo spettatore rimanesse incollato alla sedia, ma hanno messo in ordine tante cose che hanno vissuto da vicino e che succedono un po’ in tutte le frontiere, purtroppo, non solo negli Stati uniti, e soprattutto se arrivi da una certa parte della Terra. E questa è una cosa della quale bisogna parlare.
Certamente. Soprattutto qui in Europa, dove siamo in questo senso privilegiati.
Mi ha da subito toccato il fatto che Elena e Diego intraprendono lo stesso viaggio ma lo vivono in modi completamente diversi. Lei è europea, sicura di sé, non ha mai dubitato di niente, come succede a noi, che viaggiamo e se ci succede qualcosa di storto ci arrabbiamo, non abbiamo paura. Invece Diego è venezuelano, arriva da quegli stati che stanno “in un altro cassetto” rispetto al nostro Occidente, e già all’inizio del film, nel taxi verso l’aeroporto, è molto più nervoso di Elena. Questa differenza di esperienza mi sembrava una cosa molto interessante e complicata da rendere senza essere banali, senza calcare troppo la mano. Nel film è stato reso attraverso piccole cose, come lei risponde, come lui risponde, come lui dice a lei di stare tranquilla quando tenderebbe a fare polemica con i poliziotti, lui che prende i prodotti omeopatici per calmarsi… Alla fine, non sono più due persone che vivono in maniera diversa un’esperienza, ma i testimoni di due paesi, di due parti del mondo che vivono la stessa esperienza in modo molto diverso.
Passiamo a un aspetto più tecnico, che molti critici hanno apprezzato: per 75 minuti il film si svolge quasi in un unico ambiente ma con un ritmo da thriller, la tensione cresce costantemente però mai in maniera esagerata…
Poteva essere una tentazione, in certi momenti, per dare più tensione, accelerare, usare la musica, saltare da un personaggio all’altro più in fretta, invece abbiamo cercato di mantenere un ritmo costante, anche quando gli avvenimenti si facevano più complicati, più tesi. Questo ha creato un effetto pentola a pressione: mantenevamo un ritmo costante e dentro le cose bollivano sempre più, fino al punto in cui sembra che tutto stia per scoppiare. Una scelta fatta in sala di montaggio e che ha funzionato bene.
Parlami di più del montaggio, spesso un aspetto trascurato, nel nostro immaginario di spettatori, dove registi e attori si prendono la scena…
Il montaggio è anche chiamato la terza scrittura della sceneggiatura: questa la scrivi all’inizio, poi con le riprese la riscrivi e in parte si riscrive da sola, perché gli attori apportano il loro punto di vista e perché subentrano i tanti fattori della vita reale che portano la sceneggiatura a prendere un altro aspetto. E il montaggio è la terza scrittura: ti arriva il materiale che è stato girato, e non arriva quello che magari bisognava girare ma non si è potuto, arriva quello che è riuscito bene e quello che è riuscito meno bene. E, soprattutto, vedi realizzata un’idea che avevi in testa, e a volte è proprio una scoperta, una rivelazione di aspetti della storia o dei personaggi che prima non erano chiari nemmeno agli autori. È in sala di montaggio dove il film conosce il suo ritmo, alcune linee di dialogo se ne vanno, alcune scene cambiano di posizione… A volte bastano pochi frame in più o in meno in uno sguardo di un personaggio per cambiare la percezione di quello che sta succedendo.
Com’è il tuo rapporto con i registi, durante il montaggio?
Il montaggio è un momento delicato perché i registi di solito arrivano estenuati dopo le riprese, che sono molto intense: tutti ti chiedono mille cose e devi trovare risposte a tutto, devi fare i conti magari con il brutto tempo che ti impedisce di girare ciò che volevi, con l’indisponibilità di attrezzature tecniche, problemi di ogni tipo, che fanno sì che le tue idee si scontrino con la realtà. Quindi in genere un regista entra in sala di montaggio provato, e in questo caso erano anche due! (ride) Ci sono registi che entrano in sala montaggio all’inizio e poi lasciano che il montatore monti il film, vogliono allontanarsi e vedere il montaggio più avanti, per essere freschi, ma nella mia esperienza ho lavorato quasi sempre fianco a fianco con i registi. È stato così anche in questo caso, e lo abbiamo fatto discutendo e parlando. Certo, ognuno ha il proprio carattere, c’è chi ha più forza nel sostenere le proprie idee e chi ha bisogno di più tempo, da parte mia ho anche cercato di capire i tempi dei due registi, in modo che poi i punti di vista si sommassero, anziché sottrarsi in qualche maniera… Infine arriva la produzione: guarda quello che c’è e da lì si ricomincia a rivedere il materiale con un altro punto di vista, più fresco.
Una scena particolarmente difficile da montare?
La prima sequenza è stata quella che ci ha fatto più lavorare, quando sono in taxi. Inizialmente doveva essere una sequenza di dialogo tra Elena e Diego, con la coppia in un momento non facile della relazione. Ne è rimasto qualcosa, per esempio il fatto che lei parli con i genitori a Barcellona mentre lui chiama il fratello a New York: mi sembrava interessante da tenere, poiché rende l’idea di come lui sia proiettato verso il futuro, mentre lei ha un presente solido su cui appoggiarsi. La sequenza, alla fine, è diventata musicale: l’idea è stata montare una sequenza di una coppia che emigra verso gli Stati Uniti, verso il sogno americano, accentuando una certa leggerezza, che contrasta con il primo momento di tensione, quando giunti all’aeroporto il poliziotto alla frontiera gli dice che devono fare dei controlli…
Cosa ti piace di più del lavoro di montatore?
Intanto, il semplice fatto di vedere come delle inquadrature montate in successione ti fanno provare delle emozioni. E continuare a sentire quelle emozioni nonostante quelle scene tu le abbia viste e riviste magari per giorni, dato che lavori spesso come un chirurgo, togliendo e aggiungendo anche frazioni di secondo. Prendo ad esempio la sequenza del film in cui Elena deve ballare di fronte al polizotto, un evidente abuso di potere, e lei ne soffre: dopo giorni che ci lavoravo, nonostante fossi stato io a montarla, nel rivedere la scena continuavo a soffrire con lei. Mi emoziona molto questa cosa, mi sembra bellissimo che dopo tutto il lavoro fatto, anche macchinoso, schiacci play e torni a essere uno spettatore che si emoziona.
L’altra cosa che mi piace moltissimo è vedere il film da lontano, una volta che si è fatto il primo montaggio delle sequenze: cominci a chiederti, ad esempio, dov’è che non sta funzionando, dov’è che dovrei intervenire, tagliare, spostare, perché gli stessi elementi funzionino ancora meglio? E qui è forse dove il montaggio è davvero una scrittura, perché se un personaggio dice qualcosa in un punto invece che in un altro, lo spettatore lo vive in maniera diversa. Oppure, se lo spettatore vive la stessa emozione in troppi momenti, a un certo punto si distacca e allora bisogna intervenire, smussando anche parti che funzionavano, per riuscire ad arrivare nel momento chiave con quel tipo di emozione vissuta appieno. Sono ragionamenti che hanno molto a che fare con la creatività, con la costruzione della storia, sulla quale intervieni avendo il privilegio di farlo con pezzi che funzionano già, e tu devi solo lavorare di fino, cambiare qualcosa, anche solo un dettaglio.
Hai studiato architettura a Venezia, prima di fare un Master di regia a Barcellona. Questa tua formazione in architettura ti è servita?
Nel mondo del cinema arriva gente da tutti gli scenari possibili e immaginabili, tanti magari hanno fatto giornalismo, altri filosofia, e architetti ce ne sono diversi tra i cineasti conosciuti, perché comunque hai a che fare con la struttura e con le scelte formali dell’arte e l’architettura ovviamente tocca queste cose. Potrei dire che ci sono mattoni in architettura e inquadrature nel cinema, fondamenta in architettura e nel cinema i personaggi e la storia, le travi a vista in architettura e nel cinema il colore o la musica; in ogni caso, elementi che puoi usare. Vedo questa vicinanza tra architettura e cinema, per le scelte formali che definiscono uno stile. E in più, ovviamente, le scelte strutturali: perché al di là della forma, come un edificio deve stare in piedi, così anche un film deve funzionare a livello narrativo. E poi, sì, ho fatto il master di regia in Catalogna. Dubitavo in verità tra Roma e Catalogna, alla fine sono venuto qui.
Ed è stata, a quanto pare, un’ottima scelta. Upon Entry ha ottenuto molti riconoscimenti, ed è candidato anche agli Independent Spirit Awards. In particolare, tu sei candidato per il montaggio…
È da un anno che il film fa tutto un percorso di festival, ha cominciato con Tallinn che è stato un bellissimo inizio, perché anche se meno conosciuto è un festival importante, di categoria A come Cannes e Toronto: lì siamo entrati come film opera prima ma abbiamo vinto il premio della critica, in competizione con tutti i film di tutte le categorie. Poi, per citarne alcuni, il film è stato a Calcutta, al South by Southwest in Texas, dove anche solo esserci è una gran cosa. Siamo stati premiati a Malaga, che in Spagna è un festival molto importante, siamo stati candidati ai premi Goya, e poi ci sono stati i riconoscimenti al Premio Gaudí dell’Accademia del Cinema Catalano. Ci rende molto contenti che il film abbia funzionato in patria e all’estero, che abbia nel suo piccolo portato la produzione catalana in posti dove non sempre va, come appunto gli Independent Spirit Awards. Per me, come montatore, esserci è incredibile. A prescindere da come andrà a finire, è già una grandissima cosa.
L’articolo Dentro “Upon Entry – L’arrivo”. Parla Emanuele Tiziani proviene da ytali..